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non in tempi remotissimi, una notte sul tardi.

Stavo a leggere, mentre in casa già tutti dormivano. Si suona al cancello. A quell’ora, si sa, non può essere che un telegramma: e l’arrivo di un telegramma, per gente tranquilla, che non ha traffici, dà sempre un brivido, un senso di mistero.

Vado io stessa ad aprire, firmo col lapis del fattorino, sulla sporgenza della cancellata, rientro col foglio già squarciato, lo leggo alla luce dell’ingresso.

Urgenza. Elzeviro. La parola urgenza ancora non ha il suo schiacciante significato, perché ombreggiata dall’altra. Sappiamo, sì, poiché invecchiando s’impara, che cosa voglia dire il vocabolo «elzeviro» ma nella sua sola forma materiale: che cosa intimamente significhi, che cosa il nostro Direttore voglia benevolmente ma anche energicamente da noi, ancora la nostra innocente incoscienza dell’arte giornalistica non lo sa.

C’è l’aiuto dei libri, nel silenzio della notte e della casa, fortunatamente non interrotto dallo squillo del campanello: e da prima si consulta un certo vocabolario particolare; carissimo anche per ricordi di famiglia, passato di generazione in generazione; ma sebbene questo cimelio, gloriosamente spaccato,