Sino al confine/Parte I/Capitolo III

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III.


Per due mesi visse di quest’odio. Ella si trattava come una nemica; diventò magrissima, e come usava il suo confessore non sollevò più gli occhi davanti alla gente.

E pensò di farsi monaca. Mentre lavorava, aiutando sua madre e Paska che criticavano continuamente la zia Itria, pensava a un convento ideale, tutto di marmo, circondato da un giardino pieno di rose e d’insetti iridati, come il giardinetto del suo orologio: dalle finestre del convento ch’ella sognava si poteva godere il crepuscolo glauco e roseo, guardare la luna e le stelle, ascoltare la voce degli alberi, senza cadere in peccato mortale.

Del resto, anche a casa sua ella avrebbe potuto trascorrere una vita tranquilla, senza le rapide scene d’odio e di violenza che si svolgevano di tanto in tanto fra lei e Luca. Ma se fino a quel tempo egli era stato il più forte, ora lei prendeva il sopravvento, e Luca cominciava a temerla come temeva suo padre. Un giorno, ai primi di settembre, il canonico Felix e Priamo vennero a far visita ai Sulis: Gavina preparò il caffè, ma non si presentò nella sala da ricevere. [p. 53 modifica]

Paska poi le riferì che Priamo doveva andare al suo paese per visitare suo padre gravemente malato, e che il canonico Felix aveva parlato d’un progetto riguardante il nipote.

— Egli vuol mandare Priamo a Roma, in autunno, per fargli studiare teologia. Lo vedremo vescovo!

Addio, dunque! Tutto era finito per sempre. Ella non provò dolore nè gioia, ma in fondo al cuore sentì una vaga delusione: le parve che Priamo si fosse troppo presto dimenticato di lei!



Il canonico Felix era venuto anche per raccomandare al signor Sulis un suo vecchio compaesano, il quale cercava un posto di guardiano di vigne.

Il vecchio si presentò due giorni dopo: era un tipo strano, dal viso sarcastico completamente sbarbato, con le guancie rientranti, la bocca stretta, gli occhi piccolissimi, neri e lucidi come quelli di un topo. Siccome vestiva bene, con un corsetto di velluto verdone, e una berretta nuova sulla testa calva, fu accolto favorevolmente. Egli cominciò subito a chiacchierare ed a recitare versi. Disse che era il «famoso poeta» Sorighe, cantore [p. 54 modifica]estemporaneo; aveva consumato un piccolo patrimonio correndo di festa in festa per prender parte alle gare di canti improvvisati, e adesso doveva adattarsi al più umile dei mestieri, quello di guardiano di vigne: egli però accettava la sua sorte non solo filosoficamente, ma anche burlandosene.

— E se occorre mi diverto ancora! — concluse.

Fu mandato alle vigne che il signor Sulis possedeva sull’altipiano, poco distante dal paese, e dove tutti gli anni la signora Zoseppa si recava per presiedere alla vendemmia. Il luogo era aspro, selvaggio; intorno alle vigne il cui verde ossidato spiccava sul terreno giallognolo, si stendevano macchie, roveti, prati coperti di asfodelo secco; i fichi allignavano lungo i filari delle viti basse stese al suolo, e sopra la casetta della vigna Sulis sorgeva mia quercia che come l’elce nel piccolo orto del paese pareva un’esiliata dei boschi delle circostanti montagne.

Zio Sorighe aveva pulito la casetta, che si componeva di due vaste stanze terrene, una delle quali serviva anche da cucina, e aveva costrutto un muricciuolo sulla china davanti alla quercia, in modo che intorno alla pianta rimaneva un piccolo spiazzo comodo e pulito. Più su ancora aveva costrutto una capannuccia, ov’egli passava la notte.

Quando le sue padrone arrivarono, egli le [p. 55 modifica]aiutò galantemente a smontar da cavallo, ed a Gavina rivolse questi versi gentili:

Dami sa manu, bellita, bellita,
Dami sa manu torramila a dare
Dami sa manu ca t’app’a dare
Unu bestire ’e seda biaitta,
Dami sa manu, bellita, bellita!1

Alla padrona disse:

— Le viti sembrano pecore nere sdraiate per terra, tanto son cariche d’uva.

Più tardi egli, la signora Zoseppa e Luca, sopraggiunto, inclinarono e bagnarono i tini. Il vecchio scherzava, e talvolta le sue espressioni erano così libere che la padrona corrugava le sopracciglia.

Luca lavava l’interno dei tini con una scopa bagnata, e taceva, come inebbriato dall’odore di mosto che il legno ancora esalava; ma nel pomeriggio egli parve stancarsi: attese con astuzia un momento in cui nessuno lo vedeva e bevette il vino che sua madre aveva nascosto nell’armadio; poi si coricò e si addormentò. Gavina, dopo aver lavorato anche lei tutto il giorno, andò a sedersi su una pietra addossata al grosso tronco della quercia. Di lassù le pareva d’essere in mezzo a un mare verde: il sole rosso e senza raggi tramontava sulle montagne violacee, stendendo un velo di luce [p. 56 modifica]rosea, dolce e melanconica, sulle distese delle vigne e delle macchie; nella brughiera pascolavano molti cavalli, piccoli e tranquilli, nella distanza, come agnelli neri. Della quercia rosea al tramonto non si moveva una foglia; e pareva che tutta la natura tacesse, velata, davanti al mistero grandioso del tramonto. Per la prima volta, dopo tre mesi di torbidi sogni, Gavina, sentì, benché suo malgrado, la gioia di vivere, e provò un senso di dolcezza melanconica, simile a quello che pareva provasse la terra nel dare l’addio al suo grande amico il sole. Quando il disco rosso sparì e tutte le cose apparvero più tristi e tacite, come immerse nel ricordo dell’amico scomparso, anche lei pensò a Priamo!

Egli era lontano, infelice: forse ella non lo avrebbe riveduto mai più, e poteva quindi qualche volta ricordarsi di lui, senza peccare, anzi per compiacersi di aver vinta la sua passione!

Nei giorni seguenti ella sentì spesso parlare della famiglia Felix dal guardiano-poeta.

— Un tempo erano ricchi, ma hanno avuto molte inimicizie, liti, disgrazie. Ora son ridotti alla miseria. Meno male, c’è il canonico che li ajuta, e che lascierà il suo stallo al nipote.... se questo arriverà ad esser tosato!(Aggrottamento di sopracciglia della signora Zoseppa). Eh, al ragazzo piacciono più le sottane che la sottana.... ah, ah.... è [p. 57 modifica]evidente come il sole! Del resto, se questo è il suo carattere, che malanno c’è? A chi non piacciono le sottane? Io, per esempio....

— Statevi zitto, uomo benedetto! Ma....

— Ma.... e che dico, io? Io dico solamente: se mi avessero costretto a fare il prete, contro mia volontà, io.... mi sarei divertito egualmente. Ne ho conosciuti io, di preti allegri! Pride Mannòi, per esempio.... lei non lo ha conosciuto? Allora le racconterò....

Ma la signora Zoseppa non voleva saperne, delle avventure di prete Mannòi; e Gavina, dal canto suo, pregava perchè Priamo diventasse un buon sacerdote. A Roma, certo, nella città della fede, egli si sarebbe convertito, accettando con gioia la missione che i suoi parenti gli imponevano. Così, nella lontananza, ella ricominciò a pensare a lui, specialmente di sera, quando il ricordo del seminarista le balenava in mente come nella vigna balenava il vago e lontano chiarore dei fuochi che brillavano e si spegnevano nella solitudine del paesaggio.

La notte era chiara, crepuscolare, profumata dall’odore dei pampini e della brughiera. Di tanto in tanto risuonava la voce di un piccolo pastore che guidava il gregge a pascolar l’asfodelo secco: rispondeva la voce stridula ma intonata del vecchio guardiano; e tutte e due le voci cantavano strofe amorose, invocazioni a una cara persona lontana, senza la cui presenza, [p. 58 modifica]dicevano i versi, anche le campagne coltivate sembravano deserti africani! Quelle due voci animavano la solitudine e parevano un lamento del paesaggio stesso che si addormentava ancora caldo dalle carezze del sole.

Anche la quercia fremeva, quasi destandosi al canto d’amore come un vecchio esule al ritmo di una patria melodia. Allora il ricordo di Priamo ritornava nel pensiero di Gavina, e anche lei, senza volerlo, rispondeva alla cantilena amorosa che vibrava nella notte.

Un giorno giunsero i vendemmiatori, quasi tutti giovani e allegri. Il guardiano compose un’ottava per ogni vendemmiatrice, destando molti commenti ed anche qualche protesta per certe sue affermazioni troppo ardite; e tutti, benché stanchi, fino a tarda sera cantarono e risero.

Dal suo solito posto sotto la quercia, Gravina assistè non veduta al colloquio amoroso di un vendemmiatore e di una vendemmiatrice: seduti sul muricciuolo essi scherzavano, e sulle prime la donna rideva, piano piano, come se il compagno le facesse il solletico, poi tacque, poi sospirò. Anche l’uomo tacque. Gavina capiva che i due si baciavano, e senza volerlo pensava a Priamo e invidiava la felicità dei due paesani. Passò una notte agitata, insonne; le pareva d’essere nuovamente caduta in peccato mortale, e pensava a un luogo solitario, agli eremiti che facevano bene a [p. 59 modifica]sfuggire gli uomini corrotti e bestiali il cui esempio induce in tentazione!

Partiti i vendemmiatori, zio Sorighe e le sue padrone rimasero di nuovo soli nella vigna. Il vecchio badava ai tini che bollivano come pentole, e canticchiava qualche ottava in onore del vino nuovo. Dal paese giunse l’altro servo e cominciò a trasportare il mosto.

— Ed ora, lasciata la vigna, che farete? — egli domandava a zio Sorighe.

— Volerò come l’uccello per l’aria! Andrò alla festa di San Francesco, poi a quella di San Costantino; morrò cantando!

— Spero vi confesserete, prima! Farete la vostra confessione in ottave?

— E perchè devo confessarmi? Verbigrazia, che ho fatto di male io, nella vita? Ho vissuto, ho goduto. Dio ci ha creati per questo, se non erro! Mangiare, bere, divertirci: tutto il resto è peccato mortale.

La padrona corrugava le sopracciglia, e Gavina considerava zio Sorighe come un pazzo; quando egli la fissava ripetendole la solita canzonetta:


Dami fa manu, bellita, bellita....


invece di porgergli la mano ella scappava. Un giorno, all’antivigilia del loro ritorno in paese, lo vide far cenni di saluto dall’alto della china davanti al cancello, e lo sentì gridare: [p. 60 modifica]

— Salute, don Pilimu, salute, don Pilimu!

Ella si domandò se egli non fosse impazzito completamente; ma poco dopo Priamo, a cavallo, vestito in borghese, apparve davvero davanti al cancello, seguito da un paesano alto e imponente come un imperatore. Un daino addomesticato li seguiva.

— Bisogna invitarli a scendere, — disse la signora Zoseppa, correndo verso il cancello.

Priamo, che ritornava dal suo paesetto ed aveva fatto un largo giro per passare davanti alla vigna di Gavina, non si fece pregare per scendere.

— Mio padre sta meglio, — disse, smontando; e i suoi occhi cercavano quelli di Gavina. Ma ella si ritraeva timida e selvaggia come il daino che era rimasto tra le zampe dei cavalli, e sentiva quasi paura del seminarista, che le sembrava un altro, così vestito in borghese, forse meno bello del solito, ma più ardito, più uomo. Mentre la signora Zoseppa offriva da bere ai due ospiti, il paesano volgeva gli occhi intorno esaminando da buon conoscitore l’estensione della vigna; poi guardava Gavina e sorrideva. Pareva che egli sapesse qualche cosa; e per sfuggire a quello sguardo curioso ella si avvicinò al daino e lo accarezzò. Il pelo biondo scuro della graziosa bestiola splendeva come il raso, e gli occhi castanei, grandissimi o dolci, [p. 61 modifica]si rivolsero verso gli occhi di Gavina con uno sguardo quasi umano.

Ella gli porse un pezzetto di pane; ma il daino si ritrasse, piegando le gambe sottili e gettando all’indietro la bella testina, e solo quando s’avvicinò Priamo sporse il muso tremante verso la mano di Gavina.

— Le piace? — gridò il paesano; e Priamo soggiunse subito:

— Se ti piace te lo dò. Lo vuoi? Però bisogna chiuderlo nella casetta, chè non ci veda partire.

Ella arrossì, accettò, e il vecchio guardiano s’incaricò di trattenere il daino, gli diede da mangiare, gli parlò in versi!

— Tu mi farai un piacere, — disse la signora Zoseppa a Priamo. — Andrai da mio marito e da Luca, domani, e dirai loro che ci hai vedute e che stiamo bene. E saluterai tuo zio.

— Sì, sì, andrò! — gridò Priamo saltando a cavallo e rivolgendo un ultimo sguardo a Gavina.

Ella rimase nella casetta, accarezzando il daino che non tentava di scappare ma guardava attraverso la finestra con uno sguardo fisso e melanconico; e anche lei guardava lontano, e i suoi occhi a momenti avevano la stessa espressione di quelli della bestiola. Dev’era Priamo? Era giunto nella piccola città? Pensava a lei? Ed a lei, a lei era proibito di pensare a lui, come al piccolo daino [p. 62 modifica]oramai era proibito di pensare alla selvaggia libertà della foresta ed all’amore coi suoi simili!

— Quel ragazzo si farà prete quando io mi farò eremita! — diceva zio Serighe alla signora Zoseppa.

— E perchè no? anche il diavolo si è fatto eremita!

E accadde una cosa, forse preveduta dal vecchio guardiano malizioso: l’indomani, nel pomeriggio, arrivarono Luca e Priamo. Luca aveva una specie di adorazione morbosa per tutte le piccole bestie e veniva per vedere il daino; e Priamo.... perché tornava Priamo? Gavina avrebbe potuto dirlo, e forse anche zio Sorighe, ma il vecchio guardiano pensava a far bollire una caldaia, versandovi dentro cenere e foglie di pesco; e Gavina ostentava di non accorgersi neppure dell’arrivo dei due giovani. Appoggiata alla piccola finestra guardava in alto, e pareva solo preoccupata del viaggio di una nuvola sottile e luminosa come una grande spada d’argento; ma ad un tratto le parve che quella spada fosse sospesa sul suo capo, perchè la signora Zoseppa diceva:

— Luca, lascia quella bestiolina in pace e fa’ una cosa più utile; aiutami a pulire la botte. E tu, Priamo, e tu, Gavina, andate un po’ fuori; andate a cogliere i fichi....

Priamo balzò fuori seguito dal daino, ma si fermò ad attendere Gavina presso zio Sorighe [p. 63 modifica]che attizzava il fuoco sotto la caldaia, e domandò con voce turbata:

— Voi lavate le botti con acqua di foglie di pesco bollite? Da noi invece....

Non terminò la frase, per correre dietro a Gavina che aizzava il daino dirigendosi verso la quercia. Quando fu sullo spiazzo ella si fermò, si volse e le parve che la figura di Priamo campeggiasse sullo sfondo luminoso del paesaggio riempiendo di sè tutta la solitudine e la vastità dell’altipiano.

Ella palpitava di paura, di curiosità e di attesa. Egli la raggiunse, guardò il tronco della quercia e disse, ansando lievemente:

— Come è bello qui! Hai scritto il tuo nome sul tronco? No? Scriviamolo adesso. Si potrebbe scrivere qui.... e anche il mio....

— Dove? — domandò Gavina sollevandosi sulla punta dei piedi e appoggiando una mano al tronco. Priamo mise la sua su quella piccola mano che tremava, e siccome ella s’attaccava al tronco, quasi per sfuggire con quell’abbraccio all’abbraccio di lui, egli ve la staccò subito con forza e la strinse a sè.

— Ora non mi fuggirai più, — le disse con passione selvaggia. — Io vorrei sapere perchè mi sfuggi. Eppure so che mi vuoi bene. Io non voglio tornare in seminario. No, no, no! Piuttosto farò il contadino, il facchino, il pastore. Ma il prete no.... Tu mi vuoi, di’, tu mi vuoi, dimmelo.... [p. 64 modifica]

Sebbene l’avvenire da lui offertole non fosse troppo brillante, ebbra ed inconscia ella rispose con un filo di voce:

— Sì.

Egli allora la baciò e il suo viso espresse una gioia folle. Per un attimo entrambi dimenticarono tutto ciò che v’era di triste e di falso nella loro vita; per un attimo furono quali avrebbero dovuto essere durante tutta la loro giovinezza: sinceri e felici. Il daino saltellava intorno a loro e la quercia mormorava sul loro capo; e pareva che la bestia e l’albero, e tutte le cose intorno, esultassero nel vedere i due adolescenti abbracciati.

Ma all’improvviso risuonò il grido del guardiano, che imitava lo strido del falco per spaventare gli uccelli calati sui fichi, e anche loro, come spaventati da un grido nemico, si lasciarono e scapparono. Priamo adocchiò la capanna, sull’alto della vigna, e vi si diresse, attraverso le distese dei pampini spogli, come verso un porto sicuro; e Gavina lo seguiva, col cuore gonfio d’amore ma già riafferrato dal rimorso.

— Io ti scriverò, — egli diceva, sottovoce. — come potrò mandarti le lettere? Della posta non mi fido. Ecco perchè non ti ho mai scritto.

— Oh, no, no, non farlo mai; mi rovineresti, — ella disse spaventata.

— Conosco la tua amica.... Michela.... [p. 65 modifica]

— Oh, ella è tanto religiosa! — disse Gavina e arrossì. Poi diventò cupa e sospirò.

— Io e Michela abbiamo proposito di.... di non maritarci mai! — riprese timidamente.

Priamo la interruppe:

— Che dici? E allora?... dunque non è vero che mi vuoi bene.... dunque.... perchè.... allora tu m’inganni.... ora....

— Se non mi sposerò con te, non mi sposerò mai con nessun altro! Solo per te.... io....

— Giuramelo! giuramelo!

Egli si fermò davanti alla capanna; era diventato pallidissimo, di nuovo tragico in viso e con gli occhi pieni di angoscia; ma Gavina sollevò la testa col suo fiero gesto e lo fissò negli occhi.

— Non occorre giurare.... Se non mi sposerò con te, non mi sposerò mai!

— Vieni, andiamo a sederci nella capanna.

— No, no, no.... stiamo qui.... stiamo qui....

Anche il daino, fermo sull’apertura della capanna, pareva la invitasse ad entrare. Ella continuava a dire «no, no, no», ma Priamo, alquanto impaziente, dopo essersi assicurato che nessuno li vedeva la prese per le braccia e l’attirò dentro. [p. 66 modifica]



Ella non dormì quella notte. I baci di Priamo le bruciavano ancora le labbra, ma l’idea di aver peccato turbava profondamente la sua coscienza. Le pareva di udire la voce tetra del canonico Bellìa, accompagnata dal mormorio della quercia.

— Voi osate rendervi rivale di Dio! Rivale di Dio, capite? Ricordatevi, però, Egli ci punisce anche su questa terra.

Ella però osava sperare nella generosità del suo terribile rivale.

— Dio mio, voi sapete che io e lui ci amiamo. Saremo buoni, virtuosi....

Ma come sfuggire al biasimo del canonico Bellìa? Un’idea le balenò in mente: non confessarsi, tacere, aspettare tempi migliori.... Ma di nuovo la voce mormorava, cupa, col sussurro melanconico della quercia:

— Ah, volete tacere, figlia mia? Chi volete ingannare, voi? Dio? proprio Lui! Egli vede tutto, figlia mia; e noi possiamo ingannare anche noi stessi, ma non lui! [p. 67 modifica]



L’indomani mattina, prestissimo, ella stava sotto la quercia e pensava a Priamo, quando vide arrivare il servo che si tirava addietro due cavalli. Egli doveva venire quel giorno, ma solo verso il tramonto; perchè anticipava la sua venuta?

— Il padrone ha avuto un lieve disturbo, stanotte. Sarebbe meglio che loro ritornassero subito in città....

Il lieve disturbo era una paralisi: e quando la signora Zoseppa e Gavina arrivarono a casa, il malato agonizzava. Gavina si gettò convulsa ai piedi del letto ove suo padre moriva e pensò al terribile rivale che la colpiva come Lui solo sa colpire.


Note

  1. “Dammi la mano, bellina, bellina, - Dammi la mano e dammela ancora, - Dammi la mano, che ti darò - Un vestito di seta celeste, - Dammi la mano, bellina, bellina„.