Signorine povere/Seconda parte/I
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I.
Maria Clementi ritornava dalla scuola. Giorni freddi erano succeduti a quei primi giorni di marzo, tiepidi forieri della primavera; soffiava un vento gelato. Maria aveva rialzato il bavero di mongolia del suo paltoncino e teneva le mani serrate nel manicotto. Trovò Angelica in portineria a discorrere, secondo il solito, con la Giuditta. Giorgetto e Erminia si rincorrevano in corte, con altri ragazzi.
- Non vieni su?
— Ora. Devo tenere un po’ fuori de’ piedi questi demoni.
— Chi c’è disopra?
— Aspettano il vecchio. Oggi è il giorno della decisione. Eugenia piange; il babbo piange; la mamma strilla e Riccardo fa il padre nobile.
Maria salì le scale pensosa e appena fu in casa andò a chiudersi nella sua camera. Sentiva un vivo desiderio di non veder nessuno, di non mischiarsi in quelle cose. Avrebbe voluto ignorare ciò che si stava preparando in quel momento nella famiglia. Nel medesimo tempo si rimproverava tale sentimento troppo egoistico e tanto contrario alla risoluzione che aveva presa di adoperarsi con tutte le sue forze per il bene dei suoi parenti. Cosa avrebbe fatto la „nonnina“ in quel caso? Si sarebbe forse chiusa nella sua camera lasciando che i suoi nipoti si dibattessero in una posizione così penosa? No, certo. Olimpia Valmeroni sarebbe intervenuta col suo buon senso e la sua autorità, consigliando e confortando. E se i consigli fossero stati inutili e vani i conforti? Se un sacrificio era necessario? Se i genitori lo chiedevano alla loro figlia per uscire finalmente dal grave disagio in cui si trovavano?
Certo, la nobile donna si sarebbe opposta a quell’orribile matrimonio.
„Devo oppormi anch’io, per quel tanto che può valere la mia opposizione? Devo sostenere Eugenia nel suo rifiuto... se rifiuta?... È il mio dovere. Se non mi ascolteranno, peggio per loro“.
Depose il manicotto, si levò il paltoncino e il cappello, e uscì dalla camera. Nel corridoio trovò l’Eugenia che andava in cerca di lei.
— O Maria! o Maria! se tu sapessi!...
— Oh, cara Eugenia, cosa vuoi? racconta...
— Entriamo in camera tua.
— Venivo appunto per sentire... per chiederti... se potevo aiutarti.
— Aiutarmi? A che cosa?... La mia sentenza è firmata.
— Che dici? Si potrà cancellarla! Una sentenza ingiusta può sempre essere cassata.
Erano entrate nella semplice e graziosa camera di Maria, rimanendo ritte in piedi, presso la stufa di terracotta che irradiava un dolce calore. Dopo una breve pausa, Eugenia ribattè:
— Ho dato la mia parola. Senti questa carrozza che si ferma? E lui, certo. Adesso papà gli dirà che sono contenta; poi mi chiameranno e sarò fidanzata. E destinato così.
Maria ascoltava queste parole con un senso di terrore, muta, paralizzata.
Eugenia si appoggiò alla stufa e si mise a piangere sommessamente. Squillò un campanello.
— Ecco: la portinaia dà il segnale; è qui il mio sposo; devo stare allegra, devo ridere.
E rideva, di un riso atroce, in mezzo alle lagrime. Si staccò dalla stufa; si asciugò gli occhi e andò allo specchio a ravviarsi i capelli.
— Permetti che adoperi un po’ della tua cipria?
Con mano febbrile si passò il piumino sul volto.
— Dopo tutto, sarò una signora: avrò lusso e divertimenti; viaggerò. Luciano Monti è un povero diavolo in confronto di quello che mi sposa, dice Faustino Belli. Non mi ingannerà, spero.
Parlava nervosamente, con la voce soffocata e rideva.
— Perchè non hai scritto a Luciano, prima di prendere questa risoluzione? Forse, sentendo che i tuoi vogliono darti ad un altro, si sarebbe fatto avanti.
— E i quadri?
— Io credo che il signor Klein li comprerebbe egualmente se ci vede un buon affare.
— Non credere; ci sono tanti quadri al mondo e tanta gente che ha bisogno di venderli. Tale almeno è l’opinione del cavalier Belli. Egli ha detto a papà che non doveva perdere questa occasione e che il mio matrimonio col signor Klein è una fortuna. La mamma, naturalmente, pensa come il cavaliere; e quando loro sostengono una opinione, mio padre non sa più cosa opporre c si lascia convincere.
Maria chinò la fronte. L’aveva colpita quell’allusione di Eugenia all’immancabile accordo di sua madre con Faustino Belli. In quel punto Angelica gridò dal corridoio:
— Eugenia, la mamma ti chiama!
— Entra.
Angelica entrò, rossa, gli occhi raggianti, tutta illuminata dalla gioia.
— Dunque ti sposi?... ti sposi!... E il tuo sposo compra tutta quella roba lassù... Oh! come sono contenta! Sarà finita la miseria... Ci saranno soldi in casa. Si finirà di penare!
Rideva, saltava, non sapeva contenere la propria gioia.
Eugenia pregò Maria di accompagnarla.
Sulla soglia della camera, Maria disse ancora:
— Pensaci, Eugenia, è per tutta la vita! Abbi coraggio: rifiuta; sei ancora in tempo.
Eugenia scosse la testa.
— A che scopo?... Cosa guadagnerei?... Si ricadrebbe tutti nella miseria, e io non mi mariterei più. Ho ventiquattro anni compiuti e i maligni dicono che Luciano è il mio amante. Chi dovrebbe sposarmi? Fra qualche anno Luciano stesso mi volterebbe le spalle per sposare una qualche ricca ereditiera... Cosa farei io allora?... Andiamo: è una fortuna per me questo matrimonio.
Angelica che le aveva precedute, perdeva la pazienza.
— Venite? — gridò verso l’uscio.
— Siamo qui.
Nel salotto, oltre il padrone di casa e il signor Klein, vi erano i due più intimi amici della famiglia: Faustino Belli e il dottor Melchiorre Monti, contento come una pasqua che il fato troncasse gli amori del suo figliuolo.
Eugenia e Maria entrarono tenendosi a braccetto. Gli uomini sorsero in piedi e mossero loro incontro.
Eugenia appariva più seria del solito e più bella. Teneva gli occhi bassi e aveva le guance soffuse di rossore. Augusto Klein, rosso come un gambero, le strinse la mano borbottando parole confuse.
— Dunque... sì?... sì?... Siete tanto buona?... Grazie! Oh, grazie!...
Sedettero. Dopo un poco egli si alzò e andò a prendere un astuccio che aveva deposto entrando sopra una mensola. Lo porse all’Eugenia dicendo con quell’accento curioso dei tedeschi che hanno la convinzione di saper l’italiano grammaticalmente bene:
— Alla mia fidanzata!
Eugenia prese l'astuccio. La sua mano tremava. Socchiuse gli occhi e restò alcuni istanti incerta, come sospesa. Tutti la guardavano. Nel silenzio generale si sentiva il respiro profondo e sonoro di Augusto Klein. Ella si scosse finalmente e con un gesto nervoso fece scattare la molla dell’astuccio. Ne sollevò il coperchio. Allora il suo viso sembrò irradiato da una fiamma viva. I suoi occhi brillarono, le s’accesero le guance.
Esclamò con sorpresa:
— Oh! che bellezza! Che bellezza!
Volgendosi poi verso il donatore, lo guardò quasi con ammirazione.
— La ringrazio... signore. E’ un dono principesco.
Il patto era stretto. Il fascino dei brillanti scompigliava le ultime resistenze di quell’anima femminile avida di bellezza e di splendori.
La signora Valmeroni comprese che erano salvi: un lampo d’orgoglio e di soddisfazione illuminò la sua fronte.
Il magnifico dono passava intanto da una mano all’altra destando l’ammirazione generale. Consisteva in una ricca parure di brillanti e perle, accompagnata da un vezzo di perle, un braccialetto e tre anelli.
Le esclamazioni ammirative minacciavano di prolungarsi oltre misura. Klein le interruppe susurrando alla promessa sposa:
— Provi un po’ come le stanno.
— Sì, sì! — esclamò la madre — Vieni qui, Eugenia. Ti aiuterò io.
Allora Eugenia prese da sè gli orecchini e incominciò a infilarli agli orecchi; dopo gli orecchini la sua mano leggera staccò delicatamente i tre anelli e vi fece scivolare le dita affusolate, provandoli e riprovandoli, fermandosi a contemplarne l’effetto, seria, quasi pensosa. Si decise finalmente a lasciarne due nell’anulare della destra; uno nel medio della sinistra. Poi, lenta e concentrata, prese la spilla larga e raggiante come un sole e s’indugiò a contemplarla. Era evidente che pensava ad altro.
Maria, che teneva gli occhi fissi in lei, tremava per l’ansietà.
Eugenia la chiamò.
— Maria, vieni qui, guarda. Ti piace questa spilla?
— Certo, è bellissima.
Eugenia fece l’atto d’appuntarsela sul petto; ma le sue mani ebbero un momento di debolezza e la spilla scivolò sul pavimento.
— Oh!...
Augusto Klein si chinò rapidamente e raccolse la spilla.
— Permetta che glie la appunti io, lasci fare. Ecco, la metteremo qui dove il fisciù s’incrocia. Le sta d’incanto.
— D’incanto!... — ripeteva Faustino Belli.
E l’Elisa, subito:
— Proprio d’incanto.
La triste fidanzata rimaneva immobile, muta, come in un sogno. Il tedesco prese il braccialetto e lo serrò al braccio della sua diletta. Mentre l’affibbiava mormorò:
— Non ho mai visto braccia così rotonde, nè così bianche.
Con un gesto rapido di fanciulla vergognosa, Eugenia nascose il braccio fra le pieghe della gonna.
— Ora la collana.
Con molta delicatezza egli le fece passare il vezzo intorno al collo nudo e chiuse il fermaglio formato da uno smeraldo contornato da brillantini.
La signora Elisa, il dottor Monti, il cavalier Belli, l’Angelica, guardavano intenti, chiacchierando, facendo mille osservazioni sulla bellezza di quei gioielli, sulla generosità del signor Klein.
Allorchè Eugenia senti la mano calda del grasso negoziante sfiorarle il collo e la nuca, rabbrividì e le sue guance impallidirono. Un lampo di collera brillò nei suoi occhi.
Maria sola vide quel lampo e ne comprese il significato.
„Finalmente“ pensò; e si aspettava che a quel segno di ripugnanza seguisse una completa ribellione. Vana speranza.
Eugenia aveva provato in realtà un profondo disgusto a quel lieve contatto del suo futuro sposo e nella sua anima si agitava qualcosa di somigliante ad un impeto di ribellione. Ella pensò, così, vagamente, a strapparsi di dosso tutta quella roba, a fuggire, a nascondersi; e guardò Maria negli occhi come per chiederle aiuto. E gli occhi di Maria le dicevano:
— Scappa! Butta via tutto!
Ma gli altri ripetevano:
— Bella!... Oh! com’è bella!...
E Augusto Klein, infarinato d’arte, grazie al suo commercio, balbettava:
— Tiziano e Paolo Veronese non hanno nulla che vi valga.
La signora Elisa portò un piccolo specchio.
— Guardati, guardati.
Eugenia si guardò. E lo splendore dei brillanti e il dolce nitore delle perle, che davano tanto risalto alla sua bellezza, l’abbagliarono. Non pensò più. E le lodi con cui la esaltavano e la invidia che leggeva negli occhi di Angelica e il fanciullesco entusiasmo di sua madre soffocarono in lei, quasi appena nato, quel fuggevole impeto di ribellione prodotto dal ribrezzo fisico della carne, non già da un sentimento cosciente di dignità.
La notizia che Eugenia si era promessa al Klein si sparse subito tra i conoscenti. Il giorno dopo le donnette del vicinato parlavano dei brillanti e delle perle regalati dallo sposo come di una meraviglia mai più veduta. E poichè era un giovedì, giorno di ricevimento della signora Elisa, vi furono molte visite, molte chiacchiere e complimenti a bizzeffe sulla faccia di Eugenia e satire amare e taglienti dietro le spalle. Nella serata vennero i soliti amici, gli Ermondi, Festi, Bressani e gli altri. Eugenia, in abito di ricevimento, adorna dei suoi meravigliosi gioielli, riceveva nuovi complimenti, nuove congratulazioni. La sua amica Flora Ermondi subiva dei morsi d’invidia che la rendevano fredda, impacciata; poi, un’altra corrente le ispirava impeti di pietà che si traducevano in tenere carezze.
Dopo le otto arrivò Luciano Monti e la sua apparizione, forse inattesa, sollevò un fugace bisbiglio. La vista di Eugenia, che in quel momento discorreva col fidanzato, inchiodò il giovane sulla soglia, pallido come un cencio. Egli, che si credeva preparato a quell’avvenimento e se ne diceva anzi contentissimo, fu sopraffatto dalla realtà visibile, dalle immagini plastiche così terribilmente suggestive. Una commozione violenta quanto impreveduta s’impadronì del suo essere.
L’amava egli dunque quella ragazzona dalle carni fresche e olezzanti come un fiore, considerata per tanto tempo nulla più che un amabile trastullo, un delizioso eccitante? Era l’amore che lo dilaniava così ferocemente? Educato alla ragione del positivo interesse, abituato a non dare importanza altro che alle cose seriamente volute e calcolate, egli non poteva credere alla esistenza di tale amore.
Ma la sua carne fremeva e spasimava; e un dolore atroce lo pungeva in tutte le fibre a dispetto della ragione, contro ogni calcolo del suo interesse. Quel Klein, quel brutto Klein avrebbe dunque posseduto quel corpo che egli aveva così ardentemente desiderato e coperto di carezze... limitate soltanto dalla paura di fare uno sproposito e di essere quindi obbligato a tenersela per tutta la vita. Se almeno l’avesse posseduta interamente una volta, una volta sola!... Era questo il punto che lo esasperava.
La signora Elisa andò verso di lui sorridente e gaia con una piccola aria di scherno.
— Avanti, caro Luciano, avanti; Eugenia sarà felice di ricevere le vostre congratulazioni; ed io pure. Siete uno dei nostri migliori amici.
Eugenia lo attendeva di piè fermo, fissandolo con i suoi grandi occhi a fior di testa, resi espressivi dall’intensità della commozione.
Il pallore di Luciano e lo smarrimento in lui visibilissimo scendevano come un balsamo al cuore esulcerato della disgraziata, perciò lo contemplava con una specie di ebbrezza.
— Bravo, bravo, siete venuto; avevo quasi paura che non mi voleste onorare della vostra presenza in questo giorno così solenne per me.
Luciano s’inchinò, balbettò qualche frase convenzionale che nessuno afferrò completamente, e stese la mano per stringere quella che Eugenia esitava a porgergli.
A quell’atto, ella non potè indietreggiare, ma impallidì pensando che egli poteva conficcarle gli anelli nella carne e romperle le dita, se si abbandonava solo un momento al furore che gli leggeva negli occhi. La forza muscolare di Luciano le era nota; lo aveva veduto spezzare il ferro con le mani, così. Povera lei, se voleva farle male!
Egli invece la sfiorò e abbandonò la mano ingioiellata come se l’avesse bruciato.
— Adesso mi ama, adesso! — pensava la poveretta struggendosi di rabbia. — Mi ama perchè mi perde. Se tornassi libera non mi amerebbe più.
Arrivò la Bergamini; poi la Tadini, più piccola e più grassa del solito con la sua figlia la bionda, grassa e pacifica; ritornò l’Angeri, curiosa e pettegola che aveva già fatta la sua visita nella giornata, ma senza vedere lo sposo.
La signora Elisa partecipava a tutti le prossime nozze. Le donne in generale giudicavano lo sposo assai poco desiderabile; ma i brillanti e le perle che aveva regalato alla sposa, lo inalzavano ai loro occhi.
Angelica portava in giro i dolci e i liquori. Erminia e Giorgetto empivano la sala del loro chiasso. Augusto Klein se li fece accostare e li baciò con effusione.
— E Riccardo? — domandò egli a un tratto.
— Dov’è il buon Riccardo?
Eugenia stessa andò a cercarlo.
Egli si era chiuso in camera per starsene solo. Eugenia bussò all’uscio, dicendo subito:
— Sono io, Riccardo; posso entrare?
Il giovane si alzò e andò ad aprire. Vedendola con tutti quei gioielli si oscurò in viso.
— La tua catena non sarà meno grave sebbene intessuta di perle e di brillanti!
— Non parlare così. Augusto Klein è un galantuomo e mi renderà felice. Vieni di là, egli ha chiesto di te. E non far quella faccia, ti prego.
Appena ebbe scambiato alcune frasi di convenienza col suo futuro cognato, Riccardo volse gli occhi in giro in cerca di suo padre, e lo vide dietro al pianoforte, sprofondato in una ampia poltrona, pallido in viso e come intontito. Ascoltava un racconto del fotografo Ermondi, evidentemente senza prestarvi attenzione.
— Povero babbo! — sospirò Riccardo stringendo i pugni.
Nel medesimo tempo egli scorse Maria con Faustino Belli e n’ebbe una fitta al cuore.
Maria vestiva di chiaro quella sera, contrariamente alla sua abitudine; e quei toni delicati armonizzavano stupendamente con la sua bellezza. Alta e snella senza essere magra, essa aveva la linea serpentina dalle curve morbide che è tanta parte della bellezza femminile. I capelli scuri a riflessi dorati, rialzati sulla fronte, le incorniciavano mollemente le tempie e le guance di una freschezza abbagliante, formando un nodo ricchissimo sull’alto della nuca: pettinatura semplicissima che dava un ineffabile incanto al suo dolce viso di una purezza veramente ideale.
— Com’è bella! — pensava Riccardo contemplandola. — Ma come brillano i suoi occhi!... Saran le parole di quell’uomo che accendono una fiamma così intensa nelle sue pupille?
La fanciulla sentì lo sguardo del giovine fisso sopra di lei e si voltò istintivamente da quella parte.
I loro occhi s’incontrarono. Si scambiarono un saluto che fece corrugar la fronte a Faustino Belli. Un sorriso sarcastico deformò per un istante la bella bocca del cavaliere.
— Ella non mi ascolta più, signorina; non farebbe così se io fossi giovine e bello come suo cugino.
Offesa e meravigliata che il cavalier Belli profferisse una frase così volgare, Maria alzò su lui i dolci occhi velati da una impressione dolorosa.
Notò allora su quel volto tanto simpatico per lei, l’espressione cattiva di cui le aveva parlato Antonietta quel giorno al cimitero; e restò atterrita.
Il viso del cavaliere si tramutò all’istante. Aveva egli veduto il terrore negli occhi di Maria?
Si passò una mano sulla fronte come per cacciare i cattivi pensieri. Un momento dopo, tornando a guardare la fanciulla, aveva gli occhi umidi di pianto.
Intanto altre persone si accostarono a loro e tra queste la signora Angeri, che si fermò parecchio a discorrere con Faustino Belli, bramosa come essa era di trascinarlo dietro al suo carro. Maria nel frattempo osservava il cavaliere volgendo a se stessa questa domanda: „Mi sono io ingannata? od è proprio vero che egli piangeva poco fa?“
Mezz’ora dopo si trovarono ancora vicini e isolati e ricominciarono a discorrere. Egli le disse:
— Beata lei che è tanto giovine e ingenua, e non conosce le battaglie di un’anima esulcerata.
— Crede che io non abbia sofferto nella mia vita?
— Non dico questo. Ma le burrasche prima dei ventanni sono come i temporali d’estate. Presto ritorna il sereno.
— Sì; ma qualche volta sono folgori che schiantano le piante: grandini che tutto distruggono.
Furono ancora separati da altre persone. Maria andò vicino a Luciano Monti che se ne stava tutto solo in un angolo.
— Cosa avete Luciano? Vi sentite male?
— Sì. Mi si spezza il capo. Questa confusione di voci mi stordisce.
— Perchè non ve ne andate?
Egli non rispose subito. La guardò di traverso, sorrise a fior di labbro e sospirò nel medesimo tempo.
— Non posso andarmene: starò qui in eterno.
— Volete comprometterla?
— Io?... Vi pare?...
— Allora, ascoltate il mio consiglio: andatevene.
— Non posso, vi dico.
— L’amate?
— Che ne so io?... Mi par d’impazzire.
— Bisognava impazzire quando era tempo, adesso è inutile.
— Tutta la vita è inutile.
Maria scrollò il capo.
— Se siete un uomo onesto, eclissatevi. Vi sono qui occhi maligni che vi osservano.
E si allontanò da lui contristata. Da capo si imbattè in Faustino Belli.
Egli la fece sostare, le prese una mano e le disse:
— Ho bisogno di parlare con lei, signorina, da solo a sola e senza fretta. Attendo la buona occasione, se mi permette, le scriverò.
Senza attendere risposta s’inchinò profondamente e passò oltre per raggiungere Leonardo che lo chiamava.