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grige, sulla strada solitaria. Gli spazzini finivano di scopare laggiù verso il Corso; le campane della chiesa sonavano a morto. Ella non si era sentita mai così triste, così sola.

La vita che doveva ancora vivere si stendeva dinanzi a lei e prendeva ai suoi occhi l’aspetto di un deserto di sabbia. Su quella sabbia mobile e stridente ella doveva trascinarsi, affondando il piede, scivolando, cadendo, rialzandosi per cadere ancora, finchè vi rimanesse sepolta. Eppure, in altri momenti, ella aveva pensato di attraversare quel deserto a testa alta, fiera e sicura, aiutando e proteggendo i deboli che incontrerebbe sul suo cammino.

Invece era lei che aveva necessità di conforto, di appoggio: era lei la più debole, la più fragile. Non osava dire la più infelice: no: le sarebbe parso troppo grande orgoglio nella sua colpevole debolezza. Tuttavia le pareva che tra i più infelici fossero quelli che, al pari di lei, conoscevano e odiavano la propria debolezza.

Ella non sapeva ancora che il suo male era il trionfo e il martirio della sua femminilità evoluta: la lotta disperata che la donna intellettuale sostiene contro gli uomini, contro la società e innanzi tutto contro se stessa; poichè essa non vuol cedere il possesso del suo cuore, nè del suo corpo se non in cambio di un amore alto, forte, completo, un amore nel quale possa concretarsi il suo più puro ideale della vita; e non