Scatole d'amore in conserva/Cacce arabe
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Cuori complicati | Matrimonio ad aria compressa | ► |
CACCE ARABE
ra ancora un pò' buio, quando il treno si fermò alla stazione di Kafer el Zayat, piccola tettoia di legno imbacuccata di banani, in riva al Nilo invisibile.
Mohamed el Raged, il mezzano dello Stato Maggiore inglese, che mi era stato raccomandato con tanto calore da sir Ward, ci aspettava per condurci al convegno di caccia e... per farci gli onori erotici del villaggio.
Lo rivedo ancora nella mia memoria, come se fosse cosa di ieri, chiassoso e cerimonioso, inchinarsi, tenderci la mano, avvicinarsi agilmente alla bocca le nostre dita, e gridare ordini imperiosi ai nostri due negri, portatori di vettovaglie.
Quel gran sacripante dinoccolato ci sedusse tutti, fin dal primo momento. Simpatica faccia color cioccolata, grandi occhi neri, intelligenti e placidi e gran naso adunco.
Mohamed ci precedeva a grandi passi, facendo ballare il fiocco nero del suo fez e indicandoci la strada con un gesto maestoso. Certo egli aveva un aspetto assai nobile, nella sua galabieh sventolante, di crespo nero, semiaperta su una tunica attillata di seta a righe gialle-canarino e verdi-pistacchio.
Eravamo dieci cacciatori appassionati: tre greci, cinque inglesi e due italiani, tutti desiderosi di uccidere almeno cento quaglie, lontano da Alessandria, resa inabitabile dalle feste del Bahiram. Capanne cubiche ci apparvero dapprima ai due lati della strada; capanne quasi interamente costruite col fango del Nilo, giallastre e circondate da giardini minuscoli. Poi, boschetti di palme si profilarono sull’orizzonte albeggiante.
Alba triste, stanca e disillusa. Sulla campagna fosca era effuso un silenzio di morte. Lentamente il cielo si striava d’argento verdognolo. Oltre i campi coltivati, l’ondulazione delle sabbie si coloriva delicatamente di viola alle carezze della luna declinante. Una luna calda e molle, color di ruggine gialla, calava, come una goccia d’oro, verso il mare lontano.
Piantagioni di banani soffocarono la strada e ci sentimmo deliziosamente bagnati dalla freschezza profumante dei verzieri.
Una tenda di beduini frastagliò il pallore del cielo, apparendo in lontananza, simile ad un enorme vampiro dalle ali membranacee spiegate e inchiodate a terra.
Con curiosità, io studiai la bizzarra geometria delle sue tele rappezzate, delle sue balzane arlecchinesche d’ocra sporca e di ruggine, che si arrotondavano al vento del deserto come vecchie carene.
Davanti all’apertura della tenda, una piccola siepe di rami e di pezzi di latta, e alcune capre d’una magrezza schifosa, che trascinavano mammelle flosce e prolisse.
Un cane rognoso, scorticato, scheletrico, ci corse incontro rabbiosamente...
Quella era la tenda di Abdul el Ragel, fratello di Mohamed.
— Saldi Abdul! — gridò la nostra guida.
— Saidiya Mohamed! — rispose una voce dall’interno.
E Abdul comparve dietro la siepe. Aveva un profilo ardito e severo; un gran manto di lana bianca gli si drappeggiava sul petto: il suo gesto era solenne, il suo aspetto era ad un tempo signorile e zingaresco. I due fratelli ebbero fra loro un lungo colloquio sottovoce, nel quale non potei distinguere altro che il nome di Fatma, ripetuto parecchie volte.
Sir Ward mi aveva parlato molto di Fatma’ la più bella donna di tutto l’Oriente, e anche mi aveva parlato del marito di lei, Mustapha el Bahr, cacciatore provetto, condannato dalla miseria e dalla gelosia ad esercitare il triste mestiere di bardotto delle dahabich del Nilo. Era costui, dicevasi, un nemico implacabile di Mohamed, per certe vecchie storie che ho dimenticate. Salutammo Abdul, e ci rimettemmo in cammino per la strada divenuta sabbiosa attraverso la campagna desolata. Una carcassa di cammello si putrefaceva all’aperto. Verso le sei, giungemmo a un gruppo di palme, sulla spiaggia. Il mare color d’ardesia, si colorava di rosa, gradatamente. Seduti sui nostri seggiolini pieghevoli, a dieci metri uno dall’altro, aspettammo, con l’intesa comune di sparare soltanto verso il mare, d’onde stavano per venire le quaglie. Mohamed, con le gambe incrociate nella sabbia sabbia, si mise a scavare una grande buca. Voleva farmi constatare il calore del sole concentrato sotto terra. Alle sei e mezza, un frusciar d’ali, e le prime quaglie, lanciate come palle di schioppo, piombarono davanti a noi. Erano esauste dalla stanchezza. I primi colpi fallirono. Non ci si vedeva abbastanza. Negli intervalli dei voli, Mohamed sgambettava in modo curioso a breve distanza da me, infilzando con un lungo bastone delle quaglie immaginarie, facendo schioccare le labbra e gridando: — Schouff! (Guarda!) Schouff! Pam! Pam! Assumeva atteggiamenti eroici, o languidi, con sibili aspirati e grugniti di piacere.
Continuammo la caccia fino alle nove. Alcuni monelli seminudi vennero ad offrirci per qualche piccola moneta dei cestini pieni di fichi freschi e zuccherini. Il sole saliva. Col crescere del caldo, le mosche divennero accanite. Le sabbie, ora, sembravano cenere. Mohamed ci fabbricò abilmente dei ventagli, con delle foglie di palma, poi cominciò a recitarci delle favole di Lafontaine. Mi ricordo ancora della sua voce nasale, e de’ suoi gesti puerili e bizzarri per imitare le bestie. Al ritorno, costeggiammo il Nilo che scorre untuoso e giallastro fra rive feltrate di verde. Fra certi fichi contorti e certi palmizi, io scopro con stupore stupore una vite cresciuta nella sabbia. Mohamed mi spiega che l’uva di quella pianta è deliziosa, per le materie organiche depositate in quel terreno dalle conchiglie. L’ombra dei palmizi si concentra: è mezzogiorno. Scorgiamo il villaggio. La piccola folla trotterellante di capanne e di casupole cubiche, qua e là vestita di frasche verdi, mi appare immobilizzata, anchilosata sotto le fiamme del sole. Il paesaggio è estenuato e come fuso dal caldo. Mohammed ci conduce per una scaletta fangosa, fino a una cisterna sotterranea, dall’acqua fresca e azzurrina. Mentre risalivamo, una donna con una veste turchina ci passò accanto. Ella saliva lentamente gli scalini sdrucciolevoli, portando sul capo una brocca nera e grondante, e tenendo alzate le braccia per sostenerla. Ad ogni passo, le sue anche ondeggiavano e le sue piccole poppe, tonde e dure, si disegnavano sotto la stoffa. Ella fissò su di noi languidamente le sue pupille di gomma nera, che quasi coprivano la sclerotica dorata. La sua bocca era nascosta da una stoffa nera, legata al velo della testa mediante un cordoncino che passava per un tubetto di rame appoggiato sul naso. La seguimmo. Ma Mohamed ci fermò con un cenno. Sotto il sole ardente, con gesti cauti e con un dito sulla bocca, egli ci promise la meravigliosa Fatma per quella sera stessa, quando il marito si sarebbe allontanato. Gli occhi della bella araba, quegli umidi occhi di gazzella, mi perseguitarono per tutto il giorno nelle viuzze tortuose e puzzolenti, tutte ronzanti di grosse mosche verdi. Confesso che la prostituzione di Fatma m’impensieriva. Prevedevo un ripugnante dibattito pel prezzo, e tutta la banalità di un conto pagato principescamente. Ah se avessi potuto incontrare la bella, o scorgerla a qualche finestra, avrei forse combinate le cose in un modo più romantico! Esploravo perciò, nel passare, le porte simili ad accessi di tane, da cui uscivano fumi rossicci di nauseabonde fritture, e fetori di escrementi. Ad un tratto, mi sembrò di riconoscerla, sulla soglia di una casetta sì bassa che le galline potevano saltare dalla terrazza nella via. Non era lei. Ero rimasto solo; mi ero staccato dai miei amici all’ultimo crocicchio, e la mia angoscia andava crescendo. Su una piazzetta, dei rapsodi ciechi inacidivano il silenzio di fuoco, canticchiando delle nenie accompagnate da un guaire di pifferi. Dopo una colazione atroce mangiata in fretta in un piccolo caffè greco, uscii, rassegnato ormai a non rivedere Fatma prima che fosse notte alta, dal villaggio per contemplare il tramonto sulle sabbie. I miei amici mi chiamarono dall’alto di una terrazza. Erano in casa di certi parenti di Mohamed e questi faceva loro, con molti inchini, gli onori dell’ospitalità. Ci fu offerta religiosamente dell’acquavite di Chio, conservata in un otre di pelle di capra incatramata. Nella viuzza davanti a noi, un bettolino silenzioso odorava di liquore d’anice e d’assenzio. Passarono grandi negri, biancovestiti, che avevano mazzetti di gelsomini sull’orecchio e sotto il turbante. Passarono alcune donne, tutte velate e misteriose. Fra loro io cercai di scoprire Fatma. I miei amici mangiavano dei dolciumi friabili e profumati di melagrana e di rose, inaffiandoli con una limonea melata e piena di pistacchi.
Annottava. Al di là delle casette dalle terrazze fiorite, il tramonto grondava di lave incandescenti. Le sabbie s’infocarono. Poi lentamente, al soffiar della brezza notturna, le fiamme e le porpore s’abbassarono. Il paesaggio si vellutò d’ametista, e il sole, morendo, gocciò in ori liquefatti e saporosi che mi fecero pensare a un’arnia grondante di miele. Una lontana isola di verzura apparve fra le sabbie metallizzate e preziose, simile a uno smeraldo cerchiato d’oro. Mohamed s’inchinò verso l’Occidente, con una mano alla fronte, per scongiurare i genii maligni della notte. Su una terrazza un vecchio dalla barba bianca, vestito di blu, svolse una piccola stuoia, e a volta a volta, ritto a piedi giunti, piegato in due, in ginocchio, bocconi con la faccia a terra, disse la sua preghiera ad Allah, rivolto verso l’Occidente.
Anche delle donne salirono sulle terrazze vicine. Quando la luna di umida madreperla spuntò al disopra della casetta di fronte, Mohamed Mohamed mi fece un cenno, strizzando gli occhi e lo seguimmo attraverso il villaggio. Egli si era cacciate delle violette nelle narici, in segno di letizia. Ci fermammo davanti a un gruppo di quattro case sconnesse e oblique, le cui terrazze digradavano in un disordine bizzarro e piacevole. Sembravano quattro vecchie streghe ingessate e zoppe, immobilizzate in un conciliabolo vespertino. In mezzo a quelle case, c’era un cortiletto. Mohamed entrò per una specie di porta nera e ne uscì poco dopo, seguito da una donna piccola e grassa, con la testa e la bocca velate. Ella aveva una veste sventolante sotto la quale s’indovinavano con ripugnanza mammelle lunghe e pendenti. Era la madre di Fatma. Mi avvicinai a lei. Alle sue caviglie e ai suoi polsi tintinnavano anelli di rame. Poco dopo, giunse a noi, dall’interno un mormorio. Alcune donne, seguite da una marmaglia cenciosa, circondarono Mohamed. Tutte gridarono, gesticolarono, alzando al cielo braccia color caffè e latte, coperte di tatuaggi rossicci e ticchettanti di braccialetti. Si discuteva il prezzo di Fatma. Trascinai Mohamed all’interno, per tagliar corto a quelle trattative. La luna già alta illuminava violentemente il muro che chiudeva in fondo il cortile. Ma la famiglia ci seguì e la disputa ricominciò. Era lugubre e strano, nello scenario lussuoso del chiaro di luna orlato d’ombre, il tumultuare di quella famiglia scarmigliata che letigava pel prezzo della ragazza della casa. — Purchè Mustafà, suo marito, non sopraggiunga improvvisamente! — mi disse Mohamed. E il prezzo venne fissato. La madre ci lasciò per andare a cercare la figliuola. Mohamed s’arrampicò agilmente per una scaletta a piuoli fino alla più alta delle quattro terrazze. Egli voleva spiare il ritorno possibile del marito. Ritto, con le mani a visiera, cantò con voce monotona:
Ilaì, Ilaì, la tua carne è soave,
la tua carne è dolce come la banana,
la tua carne è madreperlacea
come la luna.
Ma la luna è fredda,
e le tue poppe bruciano
sotto i miei baci.
Ilaì, Ilaì, la tua carne è soave!...
Ritto lassù, dominando il villaggio che dormiva accoccolato sulla riva del Nilo, Mohamed cantava ed esplorava il fiume, le cui vaste acque oleose scorrevano pesantemente. Qua e là, quelle acque sembravano sontuosi velluti addentati dalle fibbie d’argento della luna.
Sul Nilo, nemmeno una barca. Altissima, sull’orlo d’una nuvola, la luna sogghignava, faccia viziosa e ingessata, dagli occhi cerchiati di kohl azzurrognolo. Sul capo di Mohamed si incurvava un leggiadro cielo inargentato, intimo e artificiale come i cieli di certi antichi pannelli. Intorno, indefinibili ronzii d’insetti e il miagolìo d’una canzone lontana sul fiume...
Non mi ricordo affatto delle voluttà che mi diede la bella Fatma. Ella fu una femmina qualunque..
Mohamed continuava a cantare sotto la luna:
— Ilaì, Ilaì, tua carne è soave...
La camera era sudicia; il catino era giallognolo e screpolato!... E quella maledetta porta che veniva riaperta di continuo!...
E dire che avevo sospirato tanto quelle delizie!...
Ad un tratto, una fucilata, poi un grido straziante, nel chiarore lunare! (Mohamed non cantava più...) e il tonfo di un corpo pesante, a un piano superiore, forse su una terrazza!...
Io mi precipitai fuori. Nel cortile, un tumulto indescrivibile.
Le donne gridavano lugubremente:
— Mustapha ha ucciso Mohamed! Mustapha ha ucciso Mohamed!
La marmaglia guaiva, terrorizzata. Io mi feci largo a gomitate, per arrampicarmi su per la scala a piuoli, e salii sulla terrazza più alta. Mohamed giaceva bocconi in una pozza di sangue.
Tentai di sollevare il cadavere. Era già freddo e troppo pesante. Non mi fu possibile trasportarlo.
Nel cortile, i miei amici erano in preda allo sgomento, perchè alcuni arabi erano venuti a dire che il marito di Fatma, Mustapha, voleva uccidere tutti.
Ma egli non fece altre vittime. Mi passò accanto senza nemmeno guardarmi. Aveva ucciso Mohamed, perchè questi non gli aveva pagato, l’ultima volta, il prezzo della prostituzione di Fatma. Povero Mohamed el Raged!