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pore una vite cresciuta nella sabbia. Mohamed mi spiega che l’uva di quella pianta è deliziosa, per le materie organiche depositate in quel terreno dalle conchiglie. L’ombra dei palmizi si concentra: è mezzogiorno. Scorgiamo il villaggio. La piccola folla trotterellante di capanne e di casupole cubiche, qua e là vestita di frasche verdi, mi appare immobilizzata, anchilosata sotto le fiamme del sole. Il paesaggio è estenuato e come fuso dal caldo.

Mohammed ci conduce per una scaletta fangosa, fino a una cisterna sotterranea, dall’acqua fresca e azzurrina.

Mentre risalivamo, una donna con una veste turchina ci passò accanto. Ella saliva lentamente gli scalini sdrucciolevoli, portando sul capo una brocca nera e grondante, e tenendo alzate le braccia per sostenerla. Ad ogni passo, le sue anche ondeggiavano e le sue piccole poppe, tonde e dure, si disegnavano sotto la stoffa.

Ella fissò su di noi languidamente le sue pupille di gomma nera, che quasi coprivano la sclerotica dorata. La sua bocca era nascosta da una stoffa nera, legata al velo della testa mediante un cordoncino che passava per un tubetto di rame appoggiato sul naso.

La seguimmo. Ma Mohamed ci fermò con un cenno. Sotto il sole ardente, con gesti cauti e con un dito sulla bocca, egli ci promise la meravigliosa Fatma per quella sera stessa, quando il marito si sarebbe allontanato.

Gli occhi della bella araba, quegli umidi occhi di gazzella, mi perseguitarono per tutto il giorno

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