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bia, si mise a scavare una grande buca. Voleva farmi constatare il calore del sole concentrato sotto terra.
Alle sei e mezza, un frusciar d’ali, e le prime quaglie, lanciate come palle di schioppo, piombarono davanti a noi. Erano esauste dalla stanchezza.
I primi colpi fallirono. Non ci si vedeva abbastanza.
Negli intervalli dei voli, Mohamed sgambettava in modo curioso a breve distanza da me, infilzando con un lungo bastone delle quaglie immaginarie, facendo schioccare le labbra e gridando:
— Schouff! (Guarda!) Schouff! Pam! Pam!
Assumeva atteggiamenti eroici, o languidi, con sibili aspirati e grugniti di piacere.
Continuammo la caccia fino alle nove. Alcuni monelli seminudi vennero ad offrirci per qualche piccola moneta dei cestini pieni di fichi freschi e zuccherini. Il sole saliva. Col crescere del caldo, le mosche divennero accanite. Le sabbie, ora, sembravano cenere. Mohamed ci fabbricò abilmente dei ventagli, con delle foglie di palma, poi cominciò a recitarci delle favole di Lafontaine. Mi ricordo ancora della sua voce nasale, e de’ suoi gesti puerili e bizzarri per imitare le bestie. Al ritorno, costeggiammo il Nilo che scorre untuoso e giallastro fra rive feltrate di verde. Fra certi fichi contorti e certi palmizi, io scopro con stu-
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