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— Purchè Mustafà, suo marito, non sopraggiunga improvvisamente! — mi disse Mohamed.

E il prezzo venne fissato.

La madre ci lasciò per andare a cercare la figliuola. Mohamed s’arrampicò agilmente per una scaletta a piuoli fino alla più alta delle quattro terrazze. Egli voleva spiare il ritorno possibile del marito. Ritto, con le mani a visiera, cantò con voce monotona:

Ilaì, Ilaì, la tua carne è soave,
la tua carne è dolce come la banana,
la tua carne è madreperlacea
come la luna.
Ma la luna è fredda,
e le tue poppe bruciano
sotto i miei baci.
Ilaì, Ilaì, la tua carne è soave!...

Ritto lassù, dominando il villaggio che dormiva accoccolato sulla riva del Nilo, Mohamed cantava ed esplorava il fiume, le cui vaste acque oleose scorrevano pesantemente. Qua e là, quelle acque sembravano sontuosi velluti addentati dalle fibbie d’argento della luna.

Sul Nilo, nemmeno una barca. Altissima, sull’orlo d’una nuvola, la luna sogghignava, faccia viziosa e ingessata, dagli occhi cerchiati di kohl azzurrognolo. Sul capo di Mohamed si incurvava un leggiadro cielo inargentato, intimo e artificiale come i cieli di certi antichi pannelli. Intorno, indefinibili ronzii d’insetti e il miagolìo d’una canzone lontana sul fiume...

Non mi ricordo affatto delle voluttà che mi diede la bella Fatma. Ella fu una femmina qualunque..

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