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nelle viuzze tortuose e puzzolenti, tutte ronzanti di grosse mosche verdi.

Confesso che la prostituzione di Fatma m’impensieriva. Prevedevo un ripugnante dibattito pel prezzo, e tutta la banalità di un conto pagato principescamente.

Ah se avessi potuto incontrare la bella, o scorgerla a qualche finestra, avrei forse combinate le cose in un modo più romantico!

Esploravo perciò, nel passare, le porte simili ad accessi di tane, da cui uscivano fumi rossicci di nauseabonde fritture, e fetori di escrementi. Ad un tratto, mi sembrò di riconoscerla, sulla soglia di una casetta sì bassa che le galline potevano saltare dalla terrazza nella via.

Non era lei. Ero rimasto solo; mi ero staccato dai miei amici all’ultimo crocicchio, e la mia angoscia andava crescendo.

Su una piazzetta, dei rapsodi ciechi inacidivano il silenzio di fuoco, canticchiando delle nenie accompagnate da un guaire di pifferi.

Dopo una colazione atroce mangiata in fretta in un piccolo caffè greco, uscii, rassegnato ormai a non rivedere Fatma prima che fosse notte alta, dal villaggio per contemplare il tramonto sulle sabbie.

I miei amici mi chiamarono dall’alto di una terrazza. Erano in casa di certi parenti di Mohamed e questi faceva loro, con molti inchini, gli onori dell’ospitalità. Ci fu offerta religiosamente dell’acquavite di Chio, conservata in un otre di pelle di capra incatramata. Nella viuzza davanti a noi, un bettolino silenzioso odorava di liquore d’anice e d’assenzio.


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