Satira VI

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Aulo Persio Flacco - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Monti (1803)
Satira VI
V Note
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SATIRA VI.


A Cesio Basso, poeta Lirico.


Che? già il verno t’appressa al Sabin foco,
     Basso, e le corde a grave plettro avvivi?
     Cantor mirando dell’antiche e prime
     Cose al suon maschio di latina cetra,
     5Poi d’amor giovanili, e vecchj egregi
     Con istil casto. A me tepe la Ligure
     Spiaggia, e sverna il mio mar, là dove sporgono
     Scogli immensi, e in gran seno il lido avvallasi.
     Uopo è veder di Luni il porto, amici
     10Ennio il vuol, dacchè in sogno ei Quinto Omero
     Non è più da pavon pittagoreo.
     Quì nè calmi del volgo, nè dell’Austro
     Dannoso al gregge; nè il vicino campo
     Del mio più pingue invidio, e s’anco tutti
     15Arricchiscano i vili, io non vo’ curvo
     Invecchiarmi per questo, e cenar magro,
     Nè in boccal muffo dar nel bollo il naso.
     Altri altro pensi: un astro crea gemelli
     D’umor vario. L’un furbo, il natal solo,
     20Compro un dito di salsa, unge erbe secche
     Rorandole di sacro pepe; e l’altro

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     Sciupa un tesor splendido sciocco. Io n’uso
     Io sì, ma lauto non dò rombi al servo,
     Nè gustar so de’ tordi il sapor fino.

25Spendi quanto è il ricolto, e tutto il macina;
     Che temi? il puoi: lavora; e l’altro erbeggia.

     — Ma chiede aita l’amico che naufrago
     Salvossi ai Bruzj, e i sordi voti e tutto
     Seppellì nell’Ionio. Ei giace a riva
     30Co’ gran Dii della poppa, e il mergo scontra
     Del pin rotto gli avanzi. — Or dunque intacca
     Il capital; sii largo, ond’ei non giri
     Pinto in azzurro. — Ma, se il fo, la cena
     Funebre irato obblia l’erede, e fetide
     35Dà l’ossa all’urna, il cinnamo svanito
     Non curando, e le casie amarascate.
     Dirà: se’ sano, e sprechi? A dritto grida
     Bestio a’ Sofi: ecco il frutto del venutoci
     Con palme e pepe oltremarin sapere:
     40Viziár coll’unto il macco anche i villani.

     — Oltre il rogo ciò temi? Or tu mio rede,
     Qualunque ti sarai, due motti a parte.
     L’Imperador, nol sai? mandato ha il lauro
     Per grande rotta de’ Germani. Il freddo
     45Cener dell’are è scosso; ed armi al tempio
     Cesonia appresta e regj ammanti e rance
     Giubbe a’ prigioni e cocchi ed alti Belgi.
     Per sì bel fatto cento coppie ai numi

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     Offro, e al Genio del Duce. Osa impedirlo!
     50Guai se fiati. Alla plebe olio e pan-carne
     Darò. Il vieti? ti spiega. Abbiam quel campo
     Vicin, vuoi dirmi, ancor sassoso. Orsù.

     Nè cugina io non ho, nè pronipote,
     Nè zia paterna; la materna è sterile,
     55Niun dell’ava riman. Vo’ alle Boville,
     Se mi secchi, e all’Ariccia, e scrivo erede
     Manio. — Un oscuro? — Se mi chiedi il quarto
     Mio padre, a stento troverollo. Ascendi
     Ancor due gradi, e oscuro è il ceppo. Or Manio
     60Può star, che scenda dal maggior mio nonno.

     Tu, più prossimo, a che nel corso or chiedermi
     La lampa? Dio Mercurio a te vengh’io
     Con la borsa: la vuoi, o non la vuoi?

     — Manca alcun chè. — Per me l’ho speso: il resto
     65Qualunque è tuo. Di Tadio non cercarmi
     Il legato, nè farmi il padre adosso,
     Col dir: sparmia la sorte, e spendi il frutto.

     — Ma che resta? — Che resta? Ehi, ragazzo, ungi,
     Ungi più l’erbe. A me, le feste, urtica,
     70E teschio appeso per l’orecchie al fumo?
     E d’oca entragni al mio nipote, ond’egli
     Con palpitante e vagabonda coda
     Pisci in conno patrizio? Io scheltro, ed esso
     Tremante per grassezza epa di prete?

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     75Vendi or l’anima al lucro, e merca e fruga
     Ogni angolo, e niun meglio ingrassi e traffichi
     Dal rigido cancello i Cappadoci.
     Doppia il censo: il doppiai; già è triplo e quartuplo
     E decuplo. Fa punto; e fia trovato,
     80Crisippo, il finitor del tuo sorite.