Satire (Orazio)/Libro II/Satira VIII
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Satira VIII
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Orazio e Fondanio.
Or. Come ti fe buon prò dell’opulento
Nasidien la cena? Io ti cercava
Jer per averti commensale: e intesi
Che là a scialar fin dal meriggio andasti.
5Fond. Non son mai stato meglio in vita mia.
Or. Dinne il cibo primier, se non t’incresce,
Che di tua pancia racchetò i latrati.
Fond. Di Lucania un cinghial, che preso appunto
Fu, diceva il padron, mentre spirava
10Placido l’austro. A lui facean corona
Acide rape, e radiche e lattughe
Buone per aguzzare uno svogliato
Stomaco lasso, ed oltre a ciò carote,
Acciughe e feccia d’un liquor di Coo.
15Tolto il primo servito un garzon lesto
Con un cencio di porpora la mensa
Di grosso acero asterse, e quinci un’altro,
Perchè nulla offendesse la brigata,
Ogni avanzo raccolse, ogni ritaglio.
20Com’attica donzella, allorchè i cesti
Sacri a Cerere porta, il bruno Idaspe
Movendo a lenti passi innanzi reca
Vin Cecubi, ed Alcone un vin di Scio,
Che non aveva ancor provato il mare.
25L’ospite, disse allor: Se più di questi
T’aggrada, o Mecenate, un vino d’Alba
O di Falerno, l’uno e l’altro ho in casa.
Or. O misere ricchezze! Ora fa ch’io sappia
Quali compagni a così bel banchetto,
30Fondanio avesti. Fond. In capo al primo letto
Er’io, vicino a me Visco Turino,
E Vario appresso. Mecenate stava
Nell’altro con Servilio Balatrone,
E con Vibidio ch’ei condotti avea.
35Nasidien nel terzo avea vicino
Da un lato Nomentan, Porcio dall’altro.
Questi ingollando i pasticcetti interi
Movea le risa; e Nomentan col dito
Segnava il buono e il meglio a chi per sorte
40Nol conoscesse. Tutto il resto a tutti
È vivanda comun; ma noi, dicea,
Noi quì mangiamo uccelli, ostriche e pesci
D’un gusto ben dissimile da quello
Che agli altri è noto, e ne fei tosto prova
45Quand’ei d’un pesce Passero, e d’un Rombo
Spalle mi porse non mai più gustate.
Poi m’insegnò, che son più rubiconde
Le mele-nane colte a luna scema.
Tu meglio che da me, da lui saperne
50Potrai il divario. A Balatron poi disse
Vibidio: Se in rovina non si manda
Costui col ber, morrem senza vendetta.
E tosto dimandò tazze più grandi.
L’ospite allor discolorossi in viso,
55Che i forti bevitor teme all’estremo,
O perchè sono allo sparlar più rotti,
O perchè il largo ber fervidi vini
Le tenui fibre del palato assorda:
Vibidio e Balatron con gli allifani
60Nappi dan fondo agli orci. Altri seguiro
L’esempio lor; ma que’ del terzo letto
Non ferono alcun danno alle bottiglie.
Distesa in vasto piatto a noi dinanzi
Compare una lampreda in mezzo a’ granchi
65Nuotanti nella salsa. Ella fu presa,
Disse allora il padron, mentr’era pregna
Che poco o nulla val quand’ha figliato.
La salsa è del migliore olio spremuto
Da’ torchi di Venafro. Entravi dentro
70Salamoja di pesci ispani, e vino
Di cinque anni nostral, finch’è sul foco
(Ma ci vuol quand’è cotta il vin di Scio),
Pepe bianco ed aceto, ma di quello
Che genera infortito il vin di Lesbo.
75Io di farvi bollir ruchetta verde
Ed enula amarognola insegnai
Prima d’ogni altro: fu inventor Curtillo
Di far cuocervi dentro tutti interi
Ricci marini, come aventi un sugo
80Miglior di quel che l’ostrica tramanda.
In questo mentre il baldacchin dal palco
Rovinò giù con tanto polverìo,
Quanto non n’alza dal terren Campano
Furibondo Aquilon. Ma quando accorto
85Si fu ciascun, che da temer non v’era,
Pericolo maggior, ci rincorammo
Nasidieno sol col volto basso,
Qual se immatura morte a lui rapito
Un figlio avesse, si tapina, e piagne.
90E quando mai finito avrìa, se il saggio
Nomentan non si dava a confortarlo?
Ah rea fortuna, qual è mai più crudo
Nume di te, che delle cose umane
Scherno ti prendi ognor? Vario le risa
95A stento può frenar cono la salvietta.
Poi dice Balatron con quel suo viso
Canzonatore: Egli è destin che pari
Non mai la fama al ben oprar risponda.
Quanti pensier per darne un lauto pasto
100Preso ti se’ quanti travagli e pene,
Perchè sia cotto il pan bene a dovere,
Perchè non sien gl’intingoli mal conci,
Perchè i serventi sien vistosi e lindi!
Che val, se, come or quì, caggia dall’alto
105Il baldacchin, se tracollando un mozzo
Di stalla mandi una scodella in pezzi?
Ma i prosperi non già, gli avversi casi
Fan l’ingegno spiccar, come di un duce
Così d’un convitante. A lui risponde
110Nasidieno: Oh buono e dolce amico,
Propizio ogni tua voglia il Cielo adempia:
Poi fa portarsi le pianelle e parte.
Veduto avresti allor l’un nell’orecchio
All’altro susurrar di letto in letto.
115Or. Deh quanto volentier goduto avrei
Sì bella scena! Ma prosegui in grazia
La sollazzosa istoria. Fond. A’ servi cerca
Vibidio, se le bocce anco son rotte,
Che vin più volte ha chiesto, e mai nol vede:
120Mentre pretesti alle dirotte risa
Cerchiamo, e Balatron sostiene il lazzo,
Ecco riede il padron tutto nel volto
Rasserenato, e ben disposto i torti
Della fortuna a riparar con l’arte.
125Veniangli dietro i servidor portando
In un piatto real divisa a brani
Una gru sparsa di gran sale e farro,
D’un’oca bianca il fegato ingrassato
Con grossi fichi, e d’una lepre il tergo,
130Che staccato da’ lombi, egli dicea,
Ha un sapor più soave e delicato.
Vedemmo anco imbandir non so quai merle
Con la pancia abbruciata, e colombacci
Di natiche spogliati, appetitose
135Vivande, se il padron non ci esponea
Lor cagion naturali. Indispettiti
Senza nulla toccar noi lo piantammo,
Qual se Canidia un alito v’avesse
Sparso peggior che quel di serpe e drago.