Saggio di racconti/XI/XII
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ossia l’Adolescenza d’un Artista nel secolo XVI
Una visita
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In un’osteria di Borgo nuovo a Roma era un giovine non troppo bene in arnese, ma benissimo provvisto d’appetito, in modo che l’oste s’era soffermato pieno di compiacenza al suo desco a veder fare onore al pasto ch’ei gli aveva imbandito. Le scarpe del giovine erano polverose e consunte, ed aveva accanto a sè un piccolo sacco e un bastone, segno che era venuto a piedi da qualche paese lontano. Quand’ebbe soddisfatto al suo appetito, pagò l’oste, e si accinse ad alzarsi; ma subito non potè, cosa che accade a chi è stato fermo dopo aver camminato per lungo tempo. «Ahimè! disse egli sorridendo, non si va più innanzi. Come farò io adesso a girar per Roma e cercarlo? chi sa dov’è? Roma e tanto grande! Se trovassi un alloggio in questa strada per istanotte sarebbe proprio a proposito.» E dimenava intanto i piedi stirando le gambe per rimetterle in moto a poco per volta. «Venite di lontano davvero! disse l’oste; e scommetto io, scusate l’ardire, ma scommetto che siete un pittore. — Eh! ci hai dato dentro. E da che lo conosci? — Vi dirò; cioè, voi lo sapete come me; i pittori vogliono contemplare a loro agio le bellezze dei luoghi, e viaggiano a piedi; e poi ne conosco parecchi. Oh! ne son venuti molti di fuori via da qualche tempo in quà; e più che altro dopo l’assedio di quella sventurata città di Firenze! — E voi li conoscete quelli che son venuti da Firenze? — Per nome no, fuorchè uno che abita appunto in questa strada, e che potrebbe, cred’io, darvi l’alloggio che voi bramate. — Benissimo; e come si chiama? — Cecchin Salviati. — Cecchin Salviati! non lo conosco. E dite che è venuto proprio di Firenze?. — Così mi diceva egli stesso, e gli si legge in faccia che deve aver patito le strettezze di un assedio. Qualche volta viene a cena da me, una cena che a voi non toccherebbe un dente; e vuole anzi che gli dia contezza di tutti i pittori che si fermano all’osteria. Gli parlerò anche di voi, se mi dite chi siete. — Ebbene! conducetemi a lui; mi vedrà da sè; e intanto, mi conosca o no, la sua stanza sarà a proposito per riposare un poco le mie povere gambe. Tanto, fra noi siamo tutti fratelli, e l’ospitalità dei pittori è passata in proverbio. — Vi ci accompagnerei volentieri se non fossi solo, rispose l’oste; ma non importa. La casa ove dovete andare è l’ultima che fa cantonata a un vicolo dalla mia parte, andando in su a destra. — Ho capito; e il pittore si chiama...? — Cecchin Salviati. — E giovine? — Avrà qualche anno più di voi; e macilento, accigliato... — Addio, gli disse il pittore,» e barcollon-barcolloni uscì dall’osteria.
Giunto alla casa additata picchiò, e un garzoncello venne ad aprirgli. «Sta qui, disse, Cecchin Salviati? — Sta qui; ma è fuori.» Eppure mi è entrata la smania di conoscere questo nuovo pittore fiorentino, disse fra sè. «Posso aspettarlo? — Siete padrone.» Il garzoncello lo introdusse nella stanza dove il suo maestro lavorava, e il giovine si buttò a sedere sopra una panca davanti al cavalletto considerando un quadro quasi finito. «Cospetto! esclamò allora meravigliato, che bel quadro è mai questo! e la maniera io la conosco. E uno scolaro d’Andrea; si direbbe che avesse studiato con Francesco de’ Rossi. Ma chi sa se Francesco potrà esser giunto a tanta perfezione! E un gran pennello anche il suo; ma questo lo supera: Oh! lo supera dicerto. È un’opera da maestro finito. Se Andrea del Sarto fosse a Roma, la piglierei per sua.» Dopo aver osservato a lungo ed essersi lambiccato il cervello in congetture, vinto dalla stanchezza e dal sonno, si addormentò sulla panca. Alla fine arrivò il pittore che teneva quelle stanze, e con sua meraviglia visto il giovine addormentato: «Oh! Giorgio, esclamò, ah! sì; è lui, è lui;» ed era fuor di sè dalla contentezza. Le sue grida svegliarono Giorgio, che impensatamente si trovò nelle braccia dell’amico. «Oh! che fortuna! seguitava Francesco; quanto tempo e che t’aspetto! A quanti ho domandato di te, e nessuno sapeva nulla! E come hai fatto a trovarmi?» — «Ora non posso parlare, rispondeva Giorgio tutto commosso; poi ti dirò tutto» — «Oh sì, devi essere stracco; va subito sul mio letto; levati queste vesti polverose...» — «No, lascia, lascia che io mi goda questi momenti; ch’io ti tenga nelle mie braccia qui, qui davanti a un capo d’opera che mi ha fatto meravigliare. Ora non ho più sonno; veglierei tutta la notte per discorrer teco; quante cose ho da dirti! Ma prima di tutto, come va che hai mutato nome? io son qui per caso. — Ti dirò; non l’ho mutato già io; queste stanze sono del cardinal Salviati, ed è un pezzo che lavoro per lui; a’ nostri compagni è saltato il capriccio di darmi il suo cognome. — Dunque hai lavoro, te la passi bene?...» Cecchino abbassando il capo e fregandosi la fronte; «Lasciamo andare questo discorso per ora.» — «Ahimè! disse Giorgio, pur troppo ti leggo in viso che non sei contento!» — «Amico, rispose Francesco, aspettavo te per isfogare tutto il dolore della mia anima. Dacchè non son più a Firenze e questa la prima volta che mi sento un po’ consolato. Lasciamo stare le cose dell’arte. A suo tempo ne parleremo. Tu sai che ho una sorella!» — «Poveretta! me ne ricordo, esclamò Giorgio sospirando dolorosamente. E un pezzo che non hai notizie di lei?» — «Sì, rispose Francesco; questa volta ha indugiato a rispondermi. Ma non fa specie. Ella, tu lo sai, ella si volle dar tutta alle opere di carità; forse ora non le lasciano neppure il tempo di scrivere. Durante l’assedio diventò subito la suora più attiva dello spedale. Oh! se tu l’avessi vista in quei giorni terribili! era la consolazione dei nostri feriti. Non solamente gli assisteva, ma gli riempiva di nuovo coraggio. Usciti dal loro letto dove erano stati confortati dalle sue parole, tornavano a combattere come leoni, pieni di fiducia, quasi fossero sicuri della vittoria. Ma oh Dio! Quando poi tutto fu perduto nel tradimento, allora ella non uscì più per lungo tempo dalla sua cella. Una crudel malattia mi tenne in forse della sua vita. Ma ora ho saputo che sta meglio, che ha ricominciato ad assistere gl’infermi. Povera mia sorella! quando la lasciai pareva una larva; ora conversa coi moribondi, con quelli che patiscono più degli altri; e cerca di confortarli con una santa rassegnazione. Per loro è eloquente; per sè, non ha, non vuole avere una sola parola di conforto. Quando mi scrive, mi dice sempre ch’io mi prepari a non ricevere più notizie di lei; mi dà sempre l’ultimo addio!» — «Poveretta! Ma e tu come te la passasti nel tempo dell’assedio?» — «Male, amico mio, male assai. Tu la conosci pur troppo la storia delle nostre sventure! Anch’io rimasi ferito, e sarebbe stato meglio ch’io fossi morto... Ora non mi toccherebbe a vedere tanto avvilimento!...» E nascondendosi la faccia con un fremito di tutta la persona, stette alcun tempo in silenzio. Giorgio disse allora: «Te lo diceva io? ogni sforzo era inutile; se tu avessi dato retta alle mie parole...» — «E che? interruppe Francesco, credi tu che senza il tradimento del Malatesta non avessimo potuto salvarci? Ah! Giorgio, non mi rammentare quel tuo consiglio. Io sento che non posso fare a meno di amarti; ma pensa ch’io son lo stesso. Anzi non tocchiamo più questo tasto. La memoria dell’empietà del Baglioni potrebbe accecarmi. Parliamo dell’arte. Dopo l’amore della sorella io non ho altra consolazione che questa; ma oh Dio! pur troppo anche l’arte patisce delle sventure d’Italia. L’arte decade insieme coi popoli; pare anima illanguidita in corpo snervato. Io eccomi qui... ogni giorno coi pennelli, ma a servizio d’un uomo. E le speranze eran grandi; ma il fatto per ora non corrisponde. Nondimeno se non vien di fuori un giovine pittore aspettato da M. Marco da Lodi, avrò da fare lavori più grandi. Non penso al guadagno; vorrei solo provarmi in altre opere che non in quadretti, in ritratti, e che so io... E tu? ora che ti sei riposato, parlami un poco di te.» — «Io, rispose Giorgio un po’ confuso, io... cosa posso dirti? son qua... naturalmente ci son venuto anch’io per lavorare... vedrò...» — «Amico! esclamò Francesco pigliandolo per la mano, rammentati che siamo fratelli; finchè non ti si offre miglior fortuna, viverai meco; dividerai con me il bene presente e quello maggiore che aspetto.» Giorgio accettò con riconoscenza l’invito; s’abbracciarono teneramente, e si divisero per andar ciascuno a riposarsi nella sua stanza. Il dì dopo Giorgio rimasto solo alcun tempo, rifletteva alla singolarità del suo caso, dicendo: «Vedete che strana combinazione! M. Marco da Lodi mi aspetta per accomodarmi col cardinale Ippolito (dei Medici); se io non fossi venuto, per certo quest’occasione toccherebbe al mio amico. Oh! non sarà mai ch’io ne lo privi. Dunque che fo? bisogna tornar via di questa Roma, dove da tanto tempo agognava di venire. Sì; non potrei starvi celato. Qualcheduno dei Medici o dei loro aderenti mi riconoscerebbe; e allora... Ma come lasciarti, Francesco mio, come lasciarti? Sei l’amico più caro ch’io m’abbia; e se resto, ti fo danno. Ebbene, partirò per poco tempo, e tornerò quando in mancanza mia sarai stato scelto pel cardinale. Sì, questo è il miglior partito.» Francesco tornando troncò le sue riflessioni, e voleva condurlo seco a girare per Roma. «Vieni, vieni, diceva; andiamo al Vaticano; ho bisogno di distrarmi; voglio conferire con te delle cose dell’arte. Incontreremo altri giovani pittori di tua conoscenza.» Ma Giorgio non rispondeva; era pensieroso, e disse a Francesco che per ora lo lasciasse stare, e non palesasse a nessuno ch’egli era in Roma; voleva rimanersene alcun tempo ritirato; godersi in pace la sua compagnia, e girare piuttosto la campagna che la città. A Francesco, che meditava condurlo a messer Marco, parve strano il partito; ma rispettando la volontà dell’amico, per quel giorno lo lasciò stare, proponendosi di parlare da sè a messer Marco. Ma intanto fu fatto chiamar novamente da questo medesimo cavaliere, il quale gli disse, che non essendo giunto il giovine aspettato, era tempo di prendere il posto che la fortuna gli aveva offerto.» Ma in grazia, domandò Francesco, poss’io sapere chi sia il giovine che dite, e colui che mi piglierebbe in sua vece?» — «Non occorre che voi sappiate del giovine; ma è naturale ch’io vi dica il nome dell’altro, poichè dovete vederlo; è il cardinale Ippolito de’ Medici. So che non siete pallesco, e questo nome potrebbe dispiacervi; ma ora le cose hanno cambiato; il cardinale, come vi è noto, favorisce i fuorusciti, conosce il vostro amore per la patria, e non passerà molto tempo che i suoi disegni saranno più apertamente palesi.» — «Vedremo, disse Francesco, vedremo; ma intanto, ditemi un poco: il giovine, che doveva esser giunto, sarebbe forse Giorgio Vasari?» — «E se fosse?» rispose messer Marco, senza volersi spiegare di più. «Ho capito, soggiunse Francesco. Dite al cardinale Ippolito che io lo ringrazio della sua offerta; ma che lo conforto ad aspettare il suo Giorgio, il quale verrà; anzi dirò a voi che è venuto; è con me; oggi ve lo conduco.» E lasciando messer Marco maravigliato di quel generoso procedere, corse tutto lieto a cercar l’amico. Non era più in casa, e in sua vece trovò questo scritto. «Perdonami, Francesco, se ti lascio per poco tempo senza averti prevenuto, e senza dirti addio. Una singolare cagione mi obbliga a partirmi da Roma; tornerò in breve, e ti dirò tutto. Non temer nulla di male, e fa ch’io ti trovi più tranquillo, e meglio collocate di quello che ora non sei. — Il tuo Giorgio.» — Appena letta la carta, conobbe il partito preso da Giorgio; e udito dal garzoncello ch’ei se n’era andato di pochi istanti, cercò subito di un cavallo; vi montò sopra, e andò galoppando per quella via che gli fu detto esser da lui stata presa. Poco stette a raggiugnerlo, che già col sacco sopra le spalle n’usciva di Roma. Allora sceso giù dal destriero lo abbracciò e lo rattenne, parte riprendendolo della fuga, parte la generosità sua encomiando. «Ho scoperto tutto, diceva; no, non m’inganno. Il cardinale ti aspetta; sei tu stesso il giovine mandato a chiamare per lui, e vorresti nasconderti per lasciar il campo libero a me. Ma ora non si va più via.» E con dolce violenza lo conduceva seco. Giorgio non gli si potè opporre; lo seguì, e fu ricevuto con festa dal cardinale.
Così attendevano ambedue di compagnia con molto profitto alle cose dell’arte, non lasciando nè in palazzo nè in altra parte di Roma cosa alcuna notabile la quale non disegnassero. E perchè quando il papa era in palazzo non potavano così stare a disegnare, subito che S. Santità cavalcava, come spesso faceva, alla Magliana, entravano per mezzo d’amici in dette stanze a disegnare, e vi stavano dalla mattina alla sera, senza mangiare altro che un poco di pane e quasi assiderandosi di freddo1.
Una mattina Francesco non si ritrovò con Giorgio nel solito luogo; e questi, non ne sapendo immaginar la ragione, andò a cercarlo in sua casa. Ah, povero Francesco! Era in uno stato da far pietà. Sedeva immobile e a capo basso, con una lettera in mano, col viso bianco, e dagli occhi fissi nella lettera sgorgavano amare lacrime. «Oh Dio! esclamò Giorgio, che t’è intravvenuto, Francesco?» Egli riscosso con un tremito di tutta la persona, lo guardò languidamente, e gli dette a leggere il foglio. La madre Priora del convento di S. Maria Nuova gli faceva sapere: «Come l’Anna de’ Rossi dopo aver voluto assistere con zelo esemplare i malati essendo travagliata da una febbre di consunzione, alla fine aveva dovuto rimettersi a letto. Allora il male l’aveva assalita con tanta violenza da non lasciarle respiro per iscriver due versi al fratello. Ma anche nell’agonia si rammaricava acerbamente di non poterlo rivedere, e deplorando le cagioni del suo esilio, era morta dopo averlo raccomandato con pietose preci al Signore. Com’era stata virtuosissima nella breve e travagliata sua vita, così pareva un angiolo moribonda ed estinta. Le suore la piansero e la piangono tuttavia. Ma si confortano d’averla in Paradiso a interceder per loro. Laonde sperava che anch’egli dovesse trovar pace in quel pensiero, e sopportare con rassegnazione il dolore di mai più rivederla sopra la terra.» Ah! quella rassegnazione era troppo ardua per lui che perdeva il solo bene che gli fosse rimasto; e Giorgio, atterrito dalle conseguenze di sì dolorosa notizia, faceva di tutto per confortarlo; ma egli con languida voce rispose: «Oh amico mio! tutto è finito per me. Io sperava di riabbracciar lei, di riveder Firenze men desolata... Ma no! senza patria e senza sorella! Giorgio... è inutile ogni conforto; lasciami, lasciami; non ho più motivo di desiderare la vita.» In poco tempo Francesco si ridusse a così mal termine, che Giorgio cominciava a disperar davvero di sua salvezza, ne aveva voluto più abbandonarlo. Ma una mattina il vecchio Jacopo Nardi2 fuoruscito fiorentino, che soleva spesso conversar con Francesco, udito parlare del suo misero stato, e saputane la cagione, andò a ritrovarlo. Francesco all’aspetto dell’esule illustre e del vecchio venerando parve rianimato, e mossosi ad incontrarlo con un leggero sorriso sopra le labbra: «Padre mio! egli disse, il Cielo v’ha mandato per confortarmi. Io credeva di dover morire senza saper più nulla della nostra Firenze. Questa visita mi fa sperare che forse non sia perduta ancora ogni cosa; avete voi qualche buona notizia pei miseri fuorusciti?» — «Figlio mio, l’altro rispose, l’Imperatore è sbarcato a Napoli, e pare che non isdegni di udire le nostre lagnanze. Abbiamo preso la risoluzione di andar tutti colà, e accusare apertamente Alessandro. Il cardinale Ippolito è per via, e ci fa sapere che è tempo di raggiungerlo. Io ti aveva scelto per il bastone del mio viaggio...» — «Davvero! esclamò Francesco abbracciandolo rispettosamente. Ebbene! vi seguirò; oh! sì; il mio è un dolore grande, indicibile, perchè non v’era umana dolcezza che potesse agguagliarsi all’amore di una sorella come la mia; nonostante è un dolore privato, e la speranza di riveder libera la patria può compensarlo. Ecco, ecco; non son più tanto abbattuto, e non mi mancheranno le forze di seguirvi dove vorrete.» Infatti pochi giorni dopo congedatosi teneramente dall’amico, andò ad accompagnare a Napoli il Nardi colla sollecitudine di un figliuolo amoroso.
Molti altri fuorusciti s’erano incamminati animosamente per Napoli con loro ed innanzi a loro; ma giunti a Itri, seppero che il cardinale Ippolito v’era morto di veleno per opera d’Alessandro. La sorpresa e l’afflizione furon grandi, perchè perderono in lui un valido appoggio. Tuttavia non abbandonarono l’impresa, e da ogni parte convennero al cospetto dell’Imperatore, per chiedere la libertà di Firenze secondo i patti della resa, e per querelarsi dei gravi e numerosi delitti e dell’insopportabile tirannide d’Alessandro. Ma egli stesso dopo molta esitanza, poichè lo ratteneva il rimorso di tante scelleraggini, andò a scolparsi, ed ebbe a difensore... lo storico Francesco Guicciardini! — Il Nardi parlò pei fuorusciti; ma le parole di un debole vecchio, comunque intrepido oratore di giusta causa, non furono intese o non curate dallo straniero. I ministri dell’Imperatore, ed egli stesso sedotto dall’oro d’Alessandro3, gli venderono la repubblica, e la vita e l’onore dei cittadini; e l’eloquenza di messer Francesco sostenuta dalle mire politiche dei nemici della libertà fiorentina, convalidò una tirannide vituperosa ed acerba. Sicchè infine l’Imperatore pronunziò la sentenza a favor d’Alessandro, obbligandolo nel tempo stesso a rimettere in Firenze gli esuli, a restituire i loro beni, e ad obliare le inimicizie; ma frattanto invitava gli esuli a dichiarare se accettavano il benefizio e a promettergli fedeltà. Essi delusi nelle loro speranze rifiutaron tutto, e risposero: «Che non erano la venuti per domandare a Cesare con quali condizioni dovessero servire il Duca, o ad impetrare da quello il perdono; ma perchè rendesse loro la libertà solennemente promessa dallo stesso Imperatore nella Capitolazione, e dai suoi esecutori perfidamente violata: onde vedendosi delusi nella speranza, non potevano altro che aspettare che S. M. fosse meglio informata per adempiere ai loro desiderj, essendo risoluti di vivere e morir liberi.» Questa generosa risposta fu applaudita per tutta Italia; ma il Duca tornò vittorioso ad opprimere con più baldanza e con più ferocia la misera Firenze; e il Guicciardini s’acquistò il soprannome di quell’abietto e scellerato Messer Cerrettieri che fu ministro delle iniquità del duca d’Atene.
I fuorusciti, sdegnata la misericordia dei nemici, e rinunziando ai domestici lari ed alle sostanze, comecchè fossero disagiati e poveri, tornarono a patir le amarezze dell’esilio, fatte più acerbe dal veder sempre schiava la patria. Alcuni dei principali tra di essi morirono non senza sospetto di essere stati avvelenati come il cardinale Ippolito, e i più si sparsero chi qua e chi là per l’Italia, campando miseramente la vita.
Cecchin Salviati tornò a Roma con lo sconforto nell’anima, vivendo miseramente oppresso da tetra melanconia, e nulla più gli valsero le dolcezze dell’amicizia di Giorgio. Si pose a dipingere, ma con sì poco animo, che paragonando i suoi nuovi lavori a quelli fatti nell’adolescenza, niuno avrebbe creduto che fossero della medesima mano. Gli balenò un’altra speranza quando seppe l’uccisione del duca Alessandro fatta per mano di Lorenzino; ma subito dopo gli fu annunziata l’elezione di Cosimo I4 a suo successore, e udì come una sola libera voce, quella del senator Palla Rucellai, avesse protestato, ma invano, non voler più in Firenze nè duchi, nè principi, nè signori.
Allora datosi in braccio a una mesta rassegnazione, lasciò languire un ingegno, che se non fosse stato compresso da tante calamità insieme riunite, sarebbe stato maraviglioso. Giorgio tentò ogni via per ispronarlo a risorgere, usò di tutte le sollecitudini dell’amicizia, di tutti gli allettamenti dell’arte; ma il cuore di Francesco era troppo amareggiato; il suo temperamento divenne acre, debole la salute, e fu più volte assalito da pericolose malattie.
Fra i suoi quadri ve n’è uno che dopo tante sciagure egli dipinse non senza profondo accorgimento. E una donna di belle e robuste membra e nuda in gran parte; ma le poche vesti neglette e ingemmate significano che per l’innanzi doveva essere stata coperta di ricchissimi adornamenti; il sinistro piede è avvinto a una grossa catena, celata in parte dai fiori e confitta in uno scoglio su cui è posto un vaso di squisito lavoro. Il vaso stesso versa rade ma continue gocce sull’anello della catena; un ramo d’ellera e tenacemente abbarbicato allo scoglio, e la sfera, simbolo del tempo, campeggia sul vaso. Quella donna guarda con occhio fisso e con aria di dignitosa e tranquilla rassegnazione le gocce che cadono sull’anello... L’Italia era sempre bella e ricca, quasi augusta matrona che esce da una festa, allorchè fu messa in catene e condannata al dolore... Forse fu questo il pensiero del Salviati; questa almeno e l’interpretazione d’un mio amico, e che io volentieri adotto, per la stima in che egli e tenuto dai più chiari ingegni del nostro tempo.
Note
- ↑ Vasari, Vita di Cecchin Salviati.
- ↑ Lo storico, e quello stesso che salvò i difensori del palazzo della Signoria coll’additar loro le pietre da lanciare sui soldati nemici.
- ↑ La maestà Cesarea dell’imperator Carlo V si tolse per sè 200,000 ducati che erano stati offerti ai suoi principali agenti per favorire Alessandro. Varchi, Lib. XIV; Rosini, pref. al Guicciardini ec.
- ↑ Figlio di Giovanni delle Bande Nere.