Saggi critici/La prima canzone di Giacomo Leopardi

La prima canzone di Giacomo Leopardi

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La prima canzone di Giacomo Leopardi
Machiavelli. Conferenze L'uomo del Guicciardini
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LA PRIMA CANZONE DI GIACOMO LEOPARDI


Nel 1818 furon pubblicate in Roma due canzoni di Giacomo Leopardi, appena allora in su’ venti anni, precedute da una lettera dedicatoria «al cav. Vincenzo Monti». Costui o non rispose punto, o rispose, secondo alcuni, con una di quelle lettere generiche di ringraziamento e di lode che non vogliono dir nulla. Il giovine poeta era giá tenuto in molta stima dal Cardinal Mai, principe degli eruditi, e dal principe de’ letterati, Pietro Giordani, e giá destava di sé grande aspettazione per gli studii straordinarii e chiamati miracolosi della sua eroica fanciullezza. Pur non sappiamo che quelle due canzoni levassero dal principio molto grido, ancoraché uscite sotto gli auspicii di un uomo autorevolissimo e a quel tempo incontrastato giudice del buono e del cattivo poetare. Non mancarono i soliti pedanti che vi notarono qualche errore di lingua1; né gli altri piú intollerabili, che lodavano la purezza del dire e l’erudizione e l’odore di classicismo. Vo’ dare un saggio del modo con che si lodava a quel tempo. E cito uomo dottissimo e di non comune levatura, il prof. Pietro Pellegrini, del Giordani, e del Leopardi grande ammiratore. Il quale, volendo lodare la versione di Dionigi, pubblicata nel i8i6, ragiona a questa guisa:

Toccherebbe, ci dicono, il perfetto, chi l’austero e denso Tucidide attemperasse colla soavitá e copia della Musa erodotea; chi [p. 340 modifica]Livio e Sallustio potesse, non giá a luogo a luogo quasi intrecciando mostrare, ma insieme ad un tempo accoppiare: ora, se questi tali pure ci dicono qualche cosa, e se questi contrarii sono possibili ad essere insieme accozzati, senza che l’uno l’altro disfaccia, tu o in quella o in nessun’altra scrittura lo ammiri. E per vero, se hai palato da ciò, non ci senti la dolcezza e copia del Giambullari e la forza del Davanzati? e come una essenza e fragranza del Bartoli anco non ci odori? e della semplicitá e schiettezza dell’aureo Cavalca non ci saporisci? non è un po’ di tutti?... ma, a lasciare queste mischie rettoriche, vi dirò meglio: nessuno somiglia, tutti gli agguaglia.

Né dissimile da questo vuoto fraseggiare è lá dove il dotto professore fa l’elogio di queste due canzoni, nelle quali trova «rapidissimi e bollenti spiriti,... e tanta gravitá, altezza e splendore, con tanta novitá e arte e pietoso sdegno,... i primi lampi» ne’ quali si manifestava «che divin fuoco s’accoglieva nel giovinetto,... ed un dolcissimo e stupendo folgorare».

Pietro Giordani chiama le due canzoni «altissime», e il poeta «sopra tutti sublime e focoso», e l’ingegno «terribile, tanto greco nell’inno a Nettuno, nella canzone di Simonide2, nel canto di Saffo; tanto romano nelle estreme parole di Bruto secondo».

Questa maniera di lodare, che ora è di cosí poco valore, era tenuta allora esempio « piuttosto unico che raro » di critica e di eloquenza; e quella maniera di biasimare, quell’andar pescando qua e lá parole e modi non registrati dalla Crusca e battezzati errori di lingua era piú che sufficiente a procacciarti fama di uomo dotto.

Ma piú che quei biasimi plebei e quelle lodi vacue dovea pesare al Leopardi l’indifferenza e il silenzio pubblico. A diciannove anni stampa nello Spettatore di Milano un saggio di traduzione dell’Odissea, e vi premette alcune modeste parole:

Tradurrò l’Odissea, se i miei compatrioti approveranno il saggio, che presento loro della mia traduzione... Mi resta a intendere il [p. 341 modifica]giudizio che la Italia pronunzierá sopra i pochi versi che ora le offro... M’inginocchio a tutti i letterati d’Italia per supplicarli a comunicarmi il loro parere sopra questo saggio... Deh! possano essi parlarmi schiettamente, ecc.

Povero Leopardi! alcuni trovarono frase ridicola quel suo «inginocchiarsi a’ letterati»; qualche altro urtò nella «chiostra de’ denti»3, e non lesse piú avanti; e dopo si fe’ silenzio. Né altrimenti avvenne e delle due prime canzoni, e degl’ idilli e delle altre canzoni, e delle Operette morali, cadute fra scarse critiche e lodi nell’indifferenza pubblica. Onde cosí conchiudeva un suo discorso il buon professore Pietro Pellegrini:

Se altrove sorgono uomini in qual sia dottrina eminenti, intorno a loro si affolla schiera non poca di chi ajuta, di chi contrasta; grandissima di chi osserva; ed è bellissimo eccitamento, e pure da sé premio nobilissimo. Da noi si levano come giganti cui largo silenzio e solitudine circonda; in ciò forse piú ammirabili, che atleti senza arringo, né gare, né spettatori si mantengono gagliardi.

Cosi avviene che i giovani fra noi debbano durare molta fatica a farsi largo e ad acquistarsi riputazione, e piú i valorosi naturalmente modesti che la sfrontata mediocritá; onde parecchi vengon meno nella via faticosa e si accasciano e si gittano a guadagni meno puri e piú facili.....

La canzone All’Italia e l’altra pel Monumento di Dante non furono note universalmente che molti anni dopo, e quando l’autore avea giá dato alle stampe gli altri canti, ed era giá in voce di scrittor terso e castigato. Piú tardi apparve, qual era, altissimo poeta, e fu tolto di mezzo alla turba degli scrittori mediocri, tra’ quali avea pur dovuto tanto indugiare ad avere un posto. Molto gli giovò l’entusiasmo di Napoli, dove una gioventú numerosa, intelligente, facile all’ammirazione, fu un’eco [p. 342 modifica]appassionata de’ suoi sentimenti. Ricordo con quanta commozione i giovani andavano a Pozzuoli a visitar la sua tomba; non ci era uomo colto che non sapesse a mente i suoi canti; la sua canzone All’Italia era un inno di guerra mormorato a bassa voce.

Ma quando della grandezza di Leopardi non si disputò piú, e fu tenuta come assioma la sua divinitá, anche prima che avesse la sua consacrazione a Parigi e a Berlino, fu fatto un sol fascio di tutte le sue poesie e tutte furono stimate di pari eccellenza. Or questo giudizio, che il Leopardi sia gran poeta e le sue poesie di egual pregio, è come un articolo di fede, che tutti vi si acquetano senza chieder piú oltre, e temono quasi di profanare la puritá e la semplicitá della fede quando volessero rendersene capaci per via di ragionamento. Cosi si è formata a poco a poco intorno al Leopardi una opinione tradizionale e quasi di convenzione che dispensa dallo studio e dall’esame, e avvezza la gioventú ad una ammirazione inconscia, tutta di frasi, che si chiama scienza ed è ignoranza.

Non ci è ancora niente che si possa chiamare una critica del Leopardi; appena hai qualche cosa che ne sia inizio. Preziosi materiali non mancano, e tra questi sono preziosissimi le sue lettere; il Sainte-Beuve ci ha dato notizie molte ed esatte delle sue opere edite e inedite; il nostro egregio Ranieri ci porse il concetto de’ suoi versi e delle sue prose cosí preciso e cosí a fil di logica, che ci dá aria di una di quelle costruzioni «a priori» tanto in voga a quel tempo; Vincenzo Gioberti scrisse parole bellissime intorno alle qualitá generali della sua poesia. E se è lecito aggiungere a cosí illustri il mio povero nome, io ho avuto piú volte occasione di parlarne, ma cosí per incidente, come nel mio lavoro intorno ad una delle sue piú importanti canzoni4, e nell’altro intorno al suo Epistolario, e nel Dialogo su Schopenhauer. Ma tutto questo non è ancora una critica del Leopardi.

Manca innanzi tutto uno studio del suo universo. Perché [p. 343 modifica]il Leopardi, come tutti i grandi uomini, ha avuto un mondo suo, cosí suo, che egli ebbe il torto d’ignorare, o, che è peggio, di porre in gioco tutto ciò che era fuori di quel cerchio, e che pure avea la sua vita e la sua serietá. Inarrivabile quando si chiude nel suo mondo e ne scruta e ne svela i misteri e ne sente le trafitture; quante volte spinge lo sguardo al di fuori e satireggia e ironeggia, tocca appena il mediocre, com’ è ne’ suoi Paralipomeni.

Uno studio dell’universo leopardiano in tutt’i suoi aspetti è la condizione preliminare che ci renda atti a comprendere e gustare questo poeta. Uno studio che dee mostrarci quell’universo non come giá composto e tutto intero innanzi alla mente, ma come si è andato elaborando a poco a poco, come ha preso forma, come si è rivelato. In questa genesi le sue poesie prendono data e valore, e gitti via le insignificanti, e ti spieghi le mediocri, e a ciascuna assegni il posto secondo la sua importanza e il suo pregio.

La canzone All’Italia è tra le piú importanti, e non giá come prima rivelazione di quell’«ingegno terribile», o come lavoro stupendo di un giovane a venti anni, o per il suo lampeggiare e «folgorare», o per lo «sdegno pietoso» e per la gravitá e altezza e splendore, e non so quali altri frasi, cosí sonore come vane. La sua importanza è in questo, ch’ella, tutta pregna di studii classici e di reminiscenze e d’imitazioni, è pur quella che segna il momento in cui il Leopardi esce di scolare, e cerca sé stesso e non si trova, ma pur mostrando cosí potenti facoltá e cosí disciplinate, da far presumere che ei troverá fra breve sé stesso. In effetti, di lá a due anni esce in luce la canzone Ad Angelo Mai, dove appariscono giá i primi lineamenti di un mondo nuovo, appena abbozzato, non ancora rappresentato, ma giá suo. Qui il Leopardi comincia propriamente a trovare sé stesso, il suo mondo, e la sua forma e la sua maniera; e la storia delle sue poesie non è altro che la storia di quel mondo, come si svolge e si atteggia nella sua fantasia.

Che cosa era dunque a lui l’universo, quando scriveva la canzone All’Italia, o l’altra pel Monumento di Dante, le due [p. 344 modifica]sorelle nate ad un parto, e similissime di fisonomia? Era il mondo de’ suoi studii giovanili, la classica antichitá, il mondo di Simonide e Omero e Virgilio. E perciò, se vogliamo spiegarci i difetti e i pregi di questa prima canzone, è lá, in quei primi studii, che bisogna cercar la via.

In Italia non è raro il caso di giovani che si formano da sé e compiono in poco tempo studii maravigli osi. Ricordo Acri, non so oggi cosa divenuto, ma che in un concorso fé stupire i suoi giudici per la varietá e la profonditá delle sue conoscenze. Zumbini a Cosenza, Bovio a Traní, Rapisardi a Catania sono ingegni solitarii, come fu il Galluppi a Tropea, cresciuti fuori del commercio de’ dotti e fuori delle scuole. Non si può dire quali miracoli si possano attendere da un uomo di qualche ingegno, che si chiuda volontariamente in qualche biblioteca, e studii senza distrazione alcuna.

Cosa potea essere la biblioteca di casa Leopardi, si può indovinarlo, chi vegga le nostre biblioteche pubbliche: grammatiche e dizionari e glose e commenti e storie e orazioni e dissertazioni, sparsi e infiniti materiali di erudizione greca, ebraica, latina, medievale, sacra e profana, civiltá e barbarie, secoli aurei e ferrei, cose originali e imitazioni, sommi e mediocri, tutto commisto. Vi si gittò il giovanetto con ardente curiositá, pose il naso in tutto, e di tutto volle far bottino, anche delle cose piú futili; e senza scelta o disegno, come portava il caso o il desiderio.

Cosi lo troviamo a sedici anni seppellito ne’ tempi della bassa latinitá, fra Alessandrini e Santi Padri, tutto dietro a Plotino, a Porfirio, a Dione Crisostomo, a raccoglier frammenti, confrontare testi, emendare, illustrare. Segregato dal mondo moderno e da ogni societá, la sala paterna fu a lui come una Pompei, in cui si chiuse volontario a scavare, dove e come potea, e della quale divenne in breve cittadino. Cosi, in pieno secolo decimonono. Leopardi avea tutte le impressioni e gli entusiasmi e le inclinazioni di un erudito del decimosesto secolo, e scrivea greco e latino, interpretava testi, correggeva, dissertava, investigava, traduceva, imitava. Con un travaglio cosí [p. 345 modifica]concentrato e violento, con cosí svariate esercitazioni, ciascun mese che passa è un anno, e non è meraviglia che tu lo veda rifiutare lavori suoi di due mesi addietro, e giudicare cosí giovane di Omero, di Esiodo, di Anacreonte, con una finezza di gusto che ricorda Poliziano.

La sua mente è tutta piena di commentarii, versioni, frammenti, inni, idillii, canzoni, elegie, odi, poemetti, discorsi. Aggiungi gli studii de’ nostri classici e della nostra lingua condotti innanzi con pari vigore.

Non tardò molto a comparire il frutto di studii cosí ostinati. A sedici anni emendava il testo greco e latino del Commentario di Porfino della vita di Plotino, e il padre scrivea sul manoscritto :

Oggi, 3i agosto i8i4, questo suo lavoro mi donò Giacomo, mio primogenito figlio, che non ha avuto maestro di lingua greca, ed è in etá di anni sedici, mesi due, giorni due.

Seguivano commentarii della vita e degli scritti di alcuni retori, vivuti nel secondo secolo dopo Cristo e sullo scorcio del primo, ed una collezione di frammenti di cinquanta Padri greci del secondo secolo.

L’anno appresso, insieme con questo ardore di emendazioni e d’investigazioni, si sveglia nel giovane la virtú assimilativa, la prima forma sotto la quale si manifesta la produzione giovanile. Prima traduce, poi imita, desideroso di far suo tutto ciò che desta rie! suo spirito gagliarda impressione. Le versioni degli idilli di Mosco, della Batracomiomachia, del primo canto dell’Odissea e poi nell’anno seguente della Torta, della Titanomachia di Esiodo, del libro secondo della Eneide, rivelano giá molta padronanza della lingua, grande abilitá nella fattura del verso ed un gusto severo ed assai esercitato. Tradurre è giá imitare, ritrarre d’appresso l’originale e tenervisi stretto, e tutta l’industria del nostro giovane traduttore è in questo, che la sua versione sia una immagine possibilmente esatta non pur del pensiero, ma dello stile del suo autore: ond’è che si mostra [p. 346 modifica]scontento del Davanzati, e non riconosce Virgilio nella versione del Caro: audacia di giudicare fra tanta superstizione classica e che levò scandalo fra’ puristi, e indusse il buon Giordani a scusare e chiarire la temeraria sentenza5. Questa tendenza tutta obbiettiva, che sforzava Giacomo a trasferirsi nell’autore e dimenticare sé in quello, lo rese cosí potente all’imitazione, che fu creduto versione dal greco il suo Inno a Nettuno, e di Anacreonte le due sue greche anacreontiche, e di un trecentista il suo Martirio de’ Santi Padri.

Fra queste versioni e imitazioni e contraffazioni e discorsi critici e ragguagli di testi tirò il Leopardi sino a venti anni. Tentativi di lavori originali non erano mancati, ma erano rimasti semplici velleitá, senza effetto serio. Notevole è un’elegia o lamento amoroso, di cui un frammento leggesi ne’ suoi Canti, e dove l’imitazione del Petrarca è visibile. Tra le sue carte furono trovati alcuni abbozzi o disegni d’Inni sacri, al Redentore, agli Apostoli, a’ Solitarii, a Maria. Il suo Saggio sugli errori popolari degli antichi, composto a diciassette anni, si conchiude con una commovente apostrofe alla Religione, dove si rivela in una prosa ricca e figurata tutta l’ingenuitá e l’ardore della fede avita, ancora intatta. Ma niente venne a maturitá, e a venti anni ciò che ci era di piú chiaro innanzi al suo spirito, fu Pompei, voglio dire il mondo antico, che all’anima giovinetta avea dato la sua coscienza, il suo sentire, il suo pensiero, la sua immagine : il mondo moderno, la societá che si moveva intorno a lui, era rimasa fuori del suo spirito; egli medesimo era rimaso fuori di sé medesimo, e non si era ancora ripiegato in sé, non fattosi le formidabili quistioni : — Chi sono? onde vengo? ove vado? — . Il mondo antico aveva uno splendore di gloria e di sapienza e di potenza, che gli rendea col paragone piú acerba la miseria de’ tempi suoi, e lo tirava a sé con forza soave. Due immagini erano ben chiare innanzi a lui: la [p. 347 modifica]grandezza antica e la piccolezza presente : e però, dispregiatore sovrano del secolo, il suo studio era di creare in sé la coscienza e il pensiero e le forme antiche. Non acquistata ancora coscienza di sé, tutto in tradurre, imitare e contraffare, egli è schiavo del suo idolo, ma volontario, e si pavoneggia della servitú, e fa pompa delle catene, come ornamenti della persona, e pone il suo vanto in rassomigliare a quello cosí puntualmente, che altri dica: — È desso — . La qual cura di parere altri e non sé lo punge in modo, che talora smarrisce ogni iniziativa, ogni vigore, quasi tema di mescolare di sé in alcuna cosa l’originale, e turbare la puritá de’ suoi lineamenti : come si vede nell’ultimo suo lavoro, che è la versione troppo fedele e perciò infedelissima del libro secondo dell’Eneide.

Con questi propositi e con questi studii Giacomo Leopardi mette mano per la prima volta ad una poesia sua, e pubblica in Roma la canzone All’Italia. Ci trovi messe a fronte le due idee, che sono come la conclusione a cui è giunto finora il suo spirito: la grandezza antica e la piccolezza moderna, l’Italia moribonda e disperata d’ogni salute, e la Grecia nel pieno rigoglio della vita. Le quali due idee sono espresse in due fatti, posti l’uno dirimpetto all’altro; da una parte gl’ italiani che pugnano in estranee contrade, e non per la patria, ma per altra gente, e dall’altra i trecento greci alle Termopili che per la patria pugnano e muojono. Precedono due strofe, quasi funebre preludio, dove si lamenta la peiduta grandezza d’Italia.

Il concetto è cosí semplice, e, sotto un apparente disordine di animo concitato, cosí ben disposto, che la canzone appena letta ti sta chiara e tutta innanzi alla mente. E se ti ci addentri, ci troverai un alto «pathos», un senso altamente tragico. L’Italia è caduta tanto miserabilmente, che il poeta, giunto alla metá del canto, se ne dimentica, e non ci pensa piú, e vive in Grecia e rimane in Grecia, di modo che l’Italia pare una semplice occasione e quasi una introduzione all’inno di Simonide, e Pietro Giordani potè con qualche ragione intitolare la poesia: Canzone di Simonide. È appena chiusa la terza strofa, e giá l’immaginazione non può durare in quello strazio e in [p. 348 modifica]quella vergogna, e cerca scampo nella contemplazione delle antiche etá.

                               O venturose e care e benedette
L’antiche etá!
                         

E va innanzi in questo argomento, e dell’Italia non è piú motto. Vuol parlare d’Italia, comincia a parlarne, e tutt’a un tratto torce il viso da lei, quasi lo prenda disdegno o disgusto, e canta la Grecia. Maggior tragedia di un popolo non è stata rappresentata, che il poeta caccia via dalla sua immaginazione.

E se di questo concetto avesse avuto il Leopardi una chiara coscienza ed un vivo sentimento, se in tanta caduta di un popolo avesse gittato uno sguardo profondo, ed avesse rappresentata la patria sua con quella ricchezza di contenuto che rende immortale l’Italia del Petrarca, avrebbe scritto cosa memorabile fra tante arcadiche poesie patriottiche.

Ma egli era ancora piú erudito e letterato che poeta e patriota, ed entra nell’argomento, traendosi appresso tutto il bagaglio delle sue reminiscenze e forme e abitudini classiche. Nel suo repertorio trovi tutt’i motivi comuni della vita giovanile nelle scuole: l’Italia giá donna, ora ancella, e la sua gloria passata e la presente abjezione, e i miracoli dell’antico patriottismo, e il fatto delle Termopili, materia ampia di descrizioni e imitazioni letterarie. L’Italia è per il nostro Giacomo un soggetto vago, e con un contenuto assai povero, e affatto comune, dato e ammesso senza esame, anziché cercato con tenace e commossa meditazione. Indi nasce che la forma vi rimane estrinseca come splendido abbigliamento, e non come il pensiero esso medesimo che si dispiega naturalmente. Non essendo niente d’ intimo in questa concezione, nessuna profonditá di pensiero e di sentimento, l’anima è tutta al di fuori intorno all’abbigliamento, e pensiero e sentimento vaniscono in figure rettoriche. Ci è Monti, ci è Filicaja, non ci è ancora Leopardi. Abbondano le ripetizioni, le descrizioni, le pitture e le esclamazioni e le interrogazioni: ci è giovanile e superficiale espansione. [p. 349 modifica]

Appunto perché la sua Italia è piuttosto un luogo comune, che una verace persona poetica «pur mo’ nata», ha tutta la ricchezza e l’affettazione di una vita apparente. Al Petrarca bastò il dire:

                               .  .  .  .  .  Piaghe mortali.
Che nel bel corpo tuo si spesso veggio.
                         
E, contento a questa semplice indicazione, va innanzi, tirato dalla gravitá e dall’ importanza delle cose che gli si affacciano. Ma il Leopardi, appunto perché il di dentro è vuoto, sta tutto al di fuori, e non resta che l’Italia non sia divenuta una statua perfetta.
                               Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè, quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio.
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite, dite:
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Si che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
                         
Qui si vede il giovane tutto intento a formare una statua, non fantastica, come pur si dovrebbe, ma reale e compita, con gli ultimi tocchi e le ultime carezze, che raddolciscano l’impressione di quelle ferite e di quelle catene.

Succede uno scoppio di affetti e di sentimenti rapidissimi, accavallantisi gli uni sugli altri come onde furiose e spinti fino a quel sublime obblio, che è cosí vicino al comico

                               .  .  .  .  .  .  L’armi, qua l’armi! io solo
Combatterò; procomberò sol io.
                         

Or tutto questo è un gioco bellissimo di frasi, di movenze, li attitudini, di figure, un gioco che chiamerei rettorico, se [p. 350 modifica]non vi si sentisse per entro la sinceritá di un ardore e di un impeto giovanile, e se tanta pompa e tanta agitazione nel vuoto non fosse qua e colá accompagnata con una squisita semplicitá, venutagli dalla sua familiaritá con la poesia greca. Reco ad esempio questi versi:

                               Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive.
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Ché fosti donna, or sei povera ancella.
                         

E che grazia è in quei due ultimi versetti:
                               Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange!
                         

Non ci è ancora il leone, ma si vedono le unghie.

Sopraggiunge un vero colpo di scena. E una visione fantastica d’armi e d’armati, «come tra nebbia lampi». E il poeta dice all’Italia: — E non ti conforti? Guarda: sono i tuoi figli che combattono. Ma subito esclama:

                               .  .  .  .  .  O Numi, o Numi!
Pugnan per altra terra itali acciari
                         
E l’inno di gioja si converte in un lamento elegiaco sulla tomba del prode, che non può dire morendo:
                               Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo!
                         

Or questi trapassi, queste finzioni rettoriche, queste supposizioni smentite immediatamente, questi movimenti drammatici non generati dal distendersi naturale dell’argomento, ma venuti di fuori e con visibile artificio, questi pensieri e sentimenti vaganti nella loro generalitá, senza niente d’ intimo e di [p. 351 modifica]personale, ci rivelano quale impressione dovè fare sull’animo del giovane Leopardi la fresca lettura delle poesie di Vincenzo Monti, al quale intitolava la sua canzone.

Nondimeno fra tanta rettorica è pure in questa terza strofa una semplicitá e rapiditá di espressione ed un calore naturale che di rado senti in Vincenzo Monti. Perché nel Monti il calore è sempre e tutto in immaginazione e uguale in tutti gli argomenti, come fosse cosa meccanica; dove nel Leopardi il calore è sincero, e viene dalla fede che ha ne’ suoi pensieri, e dalla viva impressione che ne riceve, ingagliardita dal fuoco di gioventú.

Se qualche raggio di vita e di sentimento moderno penetrava in quella sala paterna, divenuta il suo mondo, gli veniva dalla consuetudine famigliare. La sua casa era tutt’altro che giacobina, e il padre professava un sacro orrore di tutto ciò che poteva parere rivoluzionario. Vive esser dovevano ancora in quella famiglia le impressioni de’ guasti e delle prede e degli oltraggi e della superbia straniera. E gli stranieri e gli empii erano i francesi, tenuti nemici della patria e della religione.

Quando Leopardi pubblicava a Roma le due canzoni, era il i8i8. La Francia era abbattuta, la Santa Alleanza vincitrice divideva le spoglie, e Vincenzo Monti, splendida personificazione del volgo, celebrava gli austriaci vincitori e padroni del suo paese con quello stesso furore poetico che li avea vituperati vinti. Sorgeva allora la reazione religiosa e legittimista che invadeva anche le immaginazioni della nuova generazione e inspirava i primi canti di Lamartine e Victor Hugo. Il nemico era la Francia e l’usurpatore e i giacobini e i rivoluzionarii, nemici del trono e dell’altare. Ciascuno di noi può ritrovare in un angolo della sua memoria queste prime impressioni reazionarie, tra le quali fummo cresciuti.

Il giovane Leopardi trovava queste impressioni in casa. Mi ricordo tra le piú vive impressioni della prima etá il racconto che mi si faceva nella casa paterna della ritirata di Mosca, una delle piú immani catastrofi della storia, accompagnata con tutti gli accessorii che sono piú atti a movere l’immaginazione [p. 352 modifica]fanciullesca: i cosacchi, la Beresina, i deserti, le montagne di neve. Di questa catastrofe troviamo l’energico sentimento qui, in questa strofa, dove scoppiano in bei versi ira, indignazione, vergogna, dolore, con una evidenza e semplicitá che testimoniano la sinceritá dell’ispirazione e coprono ciò che vi è di artificiale e rettorico.

Voglio spiegare piú particolarmente questo concetto. I sentimenti qui sono veri, e il palore è sincero: ma la messa in iscena, il procedimento meccanico col quale sono presentati, è artificiale, fondato su di una finzione rettorica, come quel parlare all’Italia e udire suono di armi, e maravigliarsi come l’Italia non si conforti e non guardi colá dove si agitano le sue sorti, e poi un riconoscer l’errore, un esclamare: — O Numi! — , un accorgersi che italiani combattano non per l’Italia, ma per altra gente. Questa è rettorica che però rimane alla buccia e non investe il midollo e non vizia il fondo. Al di sotto della buccia rimane integra la sinceritá dell’impressione e dell’espressione. La cornice è di un oro sospetto e di cattivo gusto, ma il quadro è di Raffaello. E lo senti alla semplicitá e delicatezza di questo lamento :

                               Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii liti e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti, ecco, ti rendo!
                         

Se non che il sentimento appena è nato, e giá nuovi fantasmi occupano l’immaginazione irrequieta e spunta un nuovo sentimento, piú geniale, lungamente educato e accarezzato. Sembra proprio che l’immaginazione, usa da gran tempo e familiare col mondo antico, dopo breve errore in un mondo a lei peregrino, si affretti ad uscirne e torni con diletto ad abitare il mondo di Erodoto e di Simonide. Questo con molta ingenuitá ce lo manifesta il giovine scrittore nella sua lettera [p. 353 modifica]«al signor cavaliere Vincenzo Monti». Dove, in luogo di parlar dell’Italia, discorre lungamente di un inno perduto di Simonide, nel quale è celebrato il fatto delle Termopili, e dalle impressioni cosí ancora vivaci dopo ventitré secoli argomenta quelle del cantore greco e conchiude cosí:

Per queste considerazioni riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza andassero perdute, non ch’io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell’animo del poeta in quel tempo e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl’ ingegni, tornare a fare la sua canzone.

Qui si scopre Leopardi, quale noi lo conosciamo. Egli che avea scritte due greche anacreontiche con tale somiglianza di stile che parecchi le stimarono fattura di Anacreonte, e aveva composto un Inno a Nettuno, spacciandolo versione dal greco, e rendendo l’audace asserzione credibile con la perfetta imitazione; ora tenta rifare la canzone di Simonide, e cerca qualche frammento, qualche parola superstite, che lo aiuti a ricomporre il tutto. In Diodoro trova alcune parole di Simonide, e ne cava il bel motto: «la vostra tomba è un’ara»; parole comprensive e quasi epigrafe del perduto poema, tali che da quelle non difficilmente s’indovina il concetto e il sentimento che anima il tutto. Su questa base riedifica il Leopardi.

Il Giordani chiama greco questo poema di Simonide e l’ultimo canto di Saffo, e chiama romano il canto di Bruto. Se intende del soggetto, non era mestieri dirlo. Ma intende dello stile, del colore, dell’aria del componimento. E qui è facile a dir greco e romano, parole molto abusate, ma non si dice niente di preciso e di scientifico. Certo, il Leopardi volle imitare Simonide, e far cosa tutta greca, e qui non ci è pensiero, o fatto, o paragone, o immagine, che non sia reminiscenza greca. Ma il carattere di un componimento è costituito non dalle membra, ma dallo spirito. Un moderno può riprodurre dall’antico le membra, voglio dire i singoli pensieri e immagini e movenze e costruzioni, e sará un bel cadavere a cui manchi lo spirito, [p. 354 modifica]come è l’Inno a Nettuno, prodigio di erudizione e d’imitazione. Ma se entro a quelle membra vuol soffiare la vita, gli è impossibile rifar la v:ta greca : perché i morti non tornano, la vita non è giá ne’ materiali, ma nella forma che li compenetra e li fa un solo essere. E la forma è generata da un certo modo di pensare e di sentire, il cui insieme dicesi spirito, e che è la personalitá incomunicabile di un individuo, di una epoca, di un popolo. Qui i materiali son tutti greci, ma lo spirito che gl’informa è tutto moderno, ed è perciò non una dotta e fredda imitazione, com’è l’Inno a Nettuno, ma cosa viva.

Ma, per non rimanere sui generali, vediamo piú dappresso l’argomento. La base su cui è fondata questa poesia, è il motto di Simonide, conservatoci da Diodoro: «la vostra tomba è un’ara».

Questo motto è una rivelazione. Per il poeta greco l’amor patrio è un sentimento religioso, e il fatto delle Termopili è un’impresa sacra, e sono veri martiri i caduti e le loro tombe sono sacre, sono are, innanzi alle quali si fanno supplicazioni e sacrificii. Nello spirito greco non è distinto l’elemento civile o laico dall’elemento religioso: gli augurii, gli oracoli, gl’Iddii fanno parte della vita. Giove abita piú in terra che in cielo. Indi quel non so che di sacro e di solenne e quasi di ieratico che trovi negl’ inni, ne’ poemi, nelle tragedie, ne’ canti. Lo spirito non si è ancora del tutto sviluppato dal divino; non ha ancora vita propria e distinta: e perciò gl’Iddii sono troppo uomini, troppo turbolenti, e la faccia dell’uomo è troppo divina, troppo quieta. Quel motto: «la vostra tomba è un’ara», dovea svegliare nel poeta greco una serie di sentimenti e d’ impressioni e d’idee accessorie, che animarono il suo canto e furono come la sua essenza o il suo spirito, uno spirito formato da’ secoli e di cui il poeta aveva intorno a sé l’eco in tutti i greci.

Ma per Leopardi quel motto è un modo di dire, e giá prima l’avea usato e guasto il Vincenzo Monti con la sua rettorica. « La vostra tomba è un’ara » nel poeta greco è vero letteralmente, è legato con sentimenti religiosi; nel Leopardi è una figura, e rimane come un pensiero incidentale, in debole legame con tutto il [p. 355 modifica]canto, ispirato da motiva umani di gloria e patriottismo. La tomba qui non è un’ara se non per cosí dire, e quasi per imitare il linguaggio religioso, a quel modo che chiamiamo figuratamente martiri quelli che muoiono per la patria, e apostoli quelli che propagano il vero.

Né solo qui i sentimenti sono cosí generalizzati, che scappano fuori del contenuto, e l’immaginazione non può chiuderli e immedesimarli con lo scuro Tartaro e l’onda morta, e le stelle che stridono nel mare spegnendosi, e simili altre particolaritá e reminiscenze del mondo greco, ma l’espressione manca di calma e di schiettezza, e di quella ingenuitá e direi quasi bonomia, che è propria di una fede immediata, non ancora assottigliata da un pensiero adulto. Per addurre un esempio, il poeta dice:

                               Nelle armi e ne’ perigli
Qual tanto amor le giovanette menti.
Qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
                         

Questo è artificio rettorico. Perché il poeta sa benissimo quello che domanda ed ha giá detto che essi offrirono il petto alle nemiche lance per amor della patria. Queste forme di maraviglia artificiale sono aliene dalla naturalezza e semplicitá, e rivelano procedimenti ulteriori di un pensiero piú raffinato.

Questa disarmonia tra il contenuto e la forma, questo spirito adulto e moderno, che non consente a lasciarsi incarcerare in un materiale antico, e vi rimane al di sopra, è un difetto certamente, ma uno di quei difetti fortunati, simili a certe malattie, le quali prenunziano non la morte ma lo sviluppo del corpo. £ nova virtú, non piú semplicemente assimilativa, come nell’Inno a Nettuno o nella Torta o nella versione dell’Eneide, ma produttiva; non è piú un contenuto o un materiale antico, che l’erudito studia, esamina, critica e si appropria, ma è il poeta che entra in iscena, lo spirito libero e ancora inconsapevole della libertá, che sta tanto volentieri in quel contenuto, sua grata prigione, e per antica consuetudine [p. 356 modifica]vi si conforma, vi si acconcia e non gli riesce, perché lo schiavo è giá uomo libero e non se ne accorge. Dedalo si crede ancora in prigione, ma giá ha messo i vanni, giá sta spiccando il volo.

Credea di rifare Simonide, e gli è uscita fatta la canzone sua, la prima rivelazione della sua poetica virtú. Se guardiamo all’abilitá tecnica, vi è giá qui quasi tutto Leopardi, quale si è mostrato ne’ piú maturi anni: tanta vi è la pratica della lingua e del verso e la fina conoscenza di tutti i misteri e di tutti gli artificii dello scrivere. Il sapiente intreccio delle rime, la fattura intelligente del verso, e le gradazioni dell’armonia, e la perfetta chiarezza senza volgaritá, e la veemenza senza gonfiezza; una tanta facilitá, che non trovi sulla superficie niente che ti paja aspro, o ti urti, o ti fermi, e giungi senza fatica alla fine soavemente commosso e pensoso, fa concepire quanta larghezza di studii e quante esercitazioni e quant’uso di verseggiare ve lo abbiano apparecchiato.

Non fu indarno tradurre, imitare, contraffare, criticare, e quelle infinite annotazioni ed emendazioni e raffronti di testi non furono fatica arida : con questi studii e con questi esercizii si raccolgono materiali e si pongono le fondamenta.

Ma, se tali studi conferiscono a educare il gusto, disciplinare l’intelletto, scaltrire la mente in tutte le finezze e i segreti dell’arte; se rinvigoriscono, quasi ginnastica, le facoltá poetiche, diventano ingombro, quando vogliono farsi valere come contenuto, e vogliano imporlo all’immaginazione. Avviene allora quello che ne’ romanzi storici, dove si rappresenta un mondo contraddittorio, contenuto antico mosso e animato da uno spirito che gli è alieno.

Questo è pure il difetto o piuttosto il carattere della prima canzone di Giacomo Leopardi. Tutto pieno del mondo antico, e nutrito e cresciuto nell’adorazione di quello, imitatore e copista, qui, credendo d’ imitare, vuol essere Simonide e si rivela Leopardi, un Leopardi ancora novizio, ancora confuso tra quelle reminiscenze, ma confidente, impetuoso, pieno di forza e di baldanza giovanile che spazia in quel mondo con la libertá e la sicurezza di chi si sente vicino a trovare il suo mondo e a [p. 357 modifica]dire : — Io — . Che cosa manca al Leopardi per dirsi poeta? Gli manca la chiara percezione di un mondo generato dal seno delle sue meditazioni e de’ suoi dolori. L’antichitá, materia del suo culto, è per lui un lavoro di erudizione ed uno sforzo d’immaginazione, una riproduzione rettorica. L’Italia e il mondo moderno è una negazione, non ancora studiata, vuota ancora di ogni contenuto, anche essa rettorica. Anche nella sua forma penetra la rettorica, malgrado il gusto castigatissimo, e la naturalezza e la semplicitá attinta allo studio del greco, e qua e colá visibile, specialmente nel canto di Simonide.

La seconda canzone è quasi lo sviluppo e il compimento della prima. La rappresentazione d’ Italia, rimasa li come strozzata all’apparire del mondo greco, qui si ripiglia e si continua, tolta occasione dal monumento che in Firenze si preparava a Dante. La ritirata di Mosca, li appena accennata, qui diviene la parte principale, anzi il corpo della poesia, che non è altro in fondo, se non lo spettacolo che offriva di sé l’Italia sotto la dominazione francese. Nel 1818 questo era linguaggio di Santa Alleanza, e si concepisce come le due canzoni poterono essere pubblicate a Roma, senza alcun veto. Si lasciava parlare di libertá ed anche d’Italia, purché ci fossero tirate contro la Rivoluzione e contro la Francia. Anche la Santa Alleanza voleva la libertá e l’indipendenza dei popoli. Ma quello che la Santa Alleanza diceva a gioco e a inganno, il poeta diceva con la serietá e con la veemenza di animo giovanissimo e sdegnoso e liberissimo. Se la sinceritá e l’elevatezza dei sentimenti bastasse all’artista, questa canzone penetrata di sdegno e sparsa di concetti nobilissimi sarebbe la vera canzone all’ Italia, perché il monumento e Dante non ci entrano se non come via a rappresentare le miserabili condizioni d’Italia. Ma gli alti sentimenti e i concetti novi e arditi e le forme elettissime e la piú consumata abilitá di esecuzione, se esprimono maravigliosamente il primo prorompere di un’anima giovane e indegnata e facoltá poetiche fuori dell’ordinario, non coprono il vuoto e il vago che è nello spirito, rimaso in gran parte estraneo a quel lavoro della memoria e dell’immaginazione. Perciò l’aspetto [p. 358 modifica]generale di questa canzone, com’è detto della prima, è pur sempre quello della vecchia lirica italiana e non s’esce ancora da Vincenzo Monti. Lo spirito, assistendo ad un mondo non creato da lui, è tutto fuori, tutto vita esteriore : movimenti oratorii, figure e lumi rettorici, e descrizioni animate, gravitá e maestá e pompa d’incesso.

Solo due anni dopo, nel i820, il giovane nella canzone Ad Angelo Mai ritrova le prime orme di sé stesso, un centro stabile intorno a cui si rannoda e si eterna la sua esistenza: lá solo appariscono i primi splendori di quel mondo, che fu la sua gloria e il suo dolore.

[Nella «Nuova Antologia», agosto i869.]

  1. Il Leopardi vi rispose con le sue dotte Annotazioni, pubblicate a Bologna il i824.
  2. La canzone All’Italia, dove è l’Inno di Simonide.
  3.                                .  .  .  o figlia mia, quai detti uscirti
    Dalla chiostra dei denti?
                             
  4. Alla sua donna.
  5. Di un giudizio di Giacomo Leopardi circa il Caro e il Davanzati. Nota di Pietro Giordani.