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340 | saggi critici |
Livio e Sallustio potesse, non giá a luogo a luogo quasi intrecciando mostrare, ma insieme ad un tempo accoppiare: ora, se questi tali pure ci dicono qualche cosa, e se questi contrarii sono possibili ad essere insieme accozzati, senza che l’uno l’altro disfaccia, tu o in quella o in nessun’altra scrittura lo ammiri. E per vero, se hai palato da ciò, non ci senti la dolcezza e copia del Giambullari e la forza del Davanzati? e come una essenza e fragranza del Bartoli anco non ci odori? e della semplicitá e schiettezza dell’aureo Cavalca non ci saporisci? non è un po’ di tutti?... ma, a lasciare queste mischie rettoriche, vi dirò meglio: nessuno somiglia, tutti gli agguaglia.
Pietro Giordani chiama le due canzoni «altissime», e il poeta «sopra tutti sublime e focoso», e l’ingegno «terribile, tanto greco nell’inno a Nettuno, nella canzone di Simonide1, nel canto di Saffo; tanto romano nelle estreme parole di Bruto secondo».
Questa maniera di lodare, che ora è di cosí poco valore, era tenuta allora esempio « piuttosto unico che raro » di critica e di eloquenza; e quella maniera di biasimare, quell’andar pescando qua e lá parole e modi non registrati dalla Crusca e battezzati errori di lingua era piú che sufficiente a procacciarti fama di uomo dotto.
Ma piú che quei biasimi plebei e quelle lodi vacue dovea pesare al Leopardi l’indifferenza e il silenzio pubblico. A diciannove anni stampa nello Spettatore di Milano un saggio di traduzione dell’Odissea, e vi premette alcune modeste parole:
Tradurrò l’Odissea, se i miei compatrioti approveranno il saggio, che presento loro della mia traduzione... Mi resta a intendere il
- ↑ La canzone All’Italia, dove è l’Inno di Simonide.