Saggi critici/L'uomo del Guicciardini
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L’UOMO DEL GUICCIARDINI
La pubblicazione delle Opere inedite del Guicciardini fu uno di quei fatti che avrebbe dovuto dare grande impulso a’ nostri studii storici. Sono di tali scoperte che basterebbero da sé a creare un intero ciclo di critica storica: tanta copia vi si trova di notizie, con quelle riflessioni e impressioni che le rendono vive e irraggiano di nuova luce tutto un secolo.
E si tratta di un secolo intorno al quale si è piú scritto e meno compreso: di un secolo chiamato del risorgimento, e che fu pur quello della nostra decadenza. Il problema storico di quell’epoca non mi pare sia stato ancora posto e discusso e svolto con grande esattezza.
Il problema è questo. L’Italia a quel tempo era salita al piú alto grado di potenza, di ricchezza e di gloria, e nelle arti e nelle lettere e nelle scienze toccava giá quel segno a cui poche nazioni e privilegiate sogliono giungere, e da cui erano allora lontanissime le altre nazioni, ch’ella chiamava con romana superbia «i barbari». Eppure, al primo urto di questi «barbari», l’Italia, come per improvvisa rovina, crollò, e fu cancellata dal numero delle nazioni.
E i barbari gittarono di nuovo il grido selvaggio: — Guai a’ vinti! — . E non solo li calcarono, ma li dileggiarono, trattandoli come non fossero uomini e riempiendo il mondo di querele e di rimproveri della perfidia e della viltá italiana.
E sin d’allora si restò intesi che i perfidi e i codardi fummo noi, che il torto fu tutto nostro, che fummo ripagati della nostra moneta, che ben ci stette, e che i barbali ci fecero un segnalato favore a metterci un po’ di nuovo sangue nelle vene.
A questi giudizii degli storici oltramontani si aggiungono i lamenti de’ nostri, i quali attribuiscono l’inaudita catastrofe alle nostre discordie, che ci tolsero ogni virtú di resistenza.
Il buon Sismondi, che parla con tanta simpatia delle cose nostre, trasformando il rimprovero in elogio, assicura che il sentimento nazionale mancò agl’italiani perché erano mossi da un sentimento piú alto, si sentivano cosmopoliti e furono benefattori dell’umanitá con l’olocausto di sé stessi.
Né la catastrofe giunse improvvisa, anzi ce n’era un inquieto presentimento, e non mancarono le solite profezie. Tutti rammentano con che eloquenza il Savonarola annunziava dal pergamo la venuta de’ «barbari», e quale impressione fece allora la profezia di un francescano, che fra l’altro annunziava il sacco di Roma. Sinistri segni sono mentovati dagli storici. La folgore cade a Firenze sul tempio di Santa Reparata; in una notte oscura fuochi sanguigni illuminano la villa Careggi. Gli spettri degli antichi re di Aragona annunziano al loro successore la caduta del regno di Napoli. Le statue sudano sangue. I popoli spaventati credono vedere nel cielo eserciti che combattono. Una segreta inquietudine incalzava i cittadini fra le delizie e le voluttá di una vita scioperata.
Ci era dunque la coscienza oscura di una dissoluzione sociale e di una catastrofe prossima. E piú che i giudizii degli stranieri e de’ posteri è utile investigare le impressioni e i giudizii dei contemporanei.
I frati e i preti, e anche parecchi storici, pongono la fonte del male nella rilassatezza de’ sentimenti religiosi e de’ costumi.
Non si crede piú a Cristo, dice Benivieni. Anzi si crede che tutto procede dal caso, massime le cose umane. Alcuni stimano che sieno regolate da influssi celesti. Si nega la vita futura, si schernisce la religione. Alcuni la reputano un trovato di uomini. Tutti, uomini e donne tornano agli usi pagani, e si dilettano dello studio de’ poeti, degli astrologi e di ogni superstizione.
Altri stimano al contrario che il male è principalmente nella Corte di Roma e nelle pratiche e nelle consuetudini religiose, che hanno sfibrato gli animi e resili piú disposti «a perdonare le offese che a vendicarle». E non vedono altra via a rinvigorire le istituzioni e gli uomini, che seguire gli esempi lasciatici dall’antichitá.
Di questo erano tutti persuasi, che il paese era corrotto; salvoché alcuni derivavano la corruzione dall’indebolito sentimento religioso, e gli altri ponevano appunto la sua sede nella religione cosí com’era interpretata e praticata dalla Corte di Roma. Quelli vedevano il rimedio «nel ritirare la societá a’ suoi principii», con una riforma religiosa e morale che valesse a restaurare le credenze religiose ed emendare i costumi: la quale riforma, incalzati i preti da frate Savonarola e più tardi da frate Lutero, attuarono a modo loro nel Concilio di Trento. Gli altri al contrario vedevano il rimedio nella emancipazione della coscienza da ogni autoritá religiosa, ciò che traeva seco l’abolizione del papato, che essi giudicavano il principale nemico della libertá e dell’unitá nazionale.
Erano due scuole che con diversi nomi si continuano anche oggi, e che oltrepassavano ne’ loro fini e ne’ loro mezzi l’Italia, ed abbracciavano l’Europa cattolica. Si può dire che la loro storia è tutta la storia moderna, non finita ancora.
Nella quale storia l’Italia rappresentava una parte molto secondaria. Certo, i primi concetti e i primi tentativi vennero da lei, ma rimasero concetti e tentativi isolati e scarsi di effetto; e quando l’incendio si dilatò e le contrarie opinioni accesero in tutta Europa ostinatissime contese e divisioni e guerre di popoli, tra noi non mancarono cittadini di molta virtú che con la penna o con le forti opere o co’ martirii mantennero la loro fede; ma fu moto di pochi e divisi, che s’impresse appena alla superficie, sotto alla quale rimasero in calma sonnolenta e stupida le popolazioni. Anche oggi sono di quelli che credono il cattolicismo e il papato salute o perdizione d’Italia: ma sono opinioni oziose, che non lasciano traccia durabile sulle moltitudini: il Concilio ecumenico, che pure in altre parti di Europa solleva cosí vivi odii e speranze, presso di noi non suscita né energiche opposizioni, né gagliardi consensi.
La corruttela de’ costumi era l’apparenza piú grossolana del male che travagliava l’Italia e rendeva inevitabile la catastrofe. Quell’apparenza fu presa per il male esso medesimo, e gli uni ne davano colpa al paganesimo e agli studii classici, gli altri alla Corte di Roma, pietra di scandalo, e non pensavano che quella corruttela del papato e quel paganeggiare delle classi intelligenti e degli stessi papi erano anche parte del problema: fenomeni ed effetti che non spiegavano nulla, e volevano essere spiegati loro.
Ma gli uomini politici vedevano la quistione sotto aspetto piú determinato. Poca speranza avevano ne’ tardi frutti che potessero venire da una riforma religiosa e morale, e non credevano a papa né a Cristo, e schernivano i profeti «disarmati». A loro era chiaro che l’Italia divisa e debole d’armi mal poteva resistere a’ barbari: qui era il pericolo, e qui ci voleva il rimedio. Molto li preoccupavano le discordie intestine fra’ cittadini, fra le citta, fra gli Stati, e cercavano un sistema di «equilibrio», che desse sátisfazione a tutte le classi, mantenendo ordine e concordia al di dentro, e legasse i grandi Stati italiani con reciproca malleveria contro gli assalti che venissero dal di fuori. Fa stupire quanti sottili trovati pullulassero in quei cervelli acuti per ordinare in modo lo Stato che si ottenesse il desiderato equilibrio, quando giá lo straniero era a casa e lasciava per sua misericordia disputare se i partiti si avessero a vincere per le piú fave o alla metá delle fave. Né erano meno sottili i giudizi sulle condizioni e sulle forze degli Stati, sulle inclinazioni, le passioni e gl’interessi de’ principi, e sulle varie combinazioni delle alleanze, con una finezza di osservazione e di analisi che desidero in molti documenti della diplomazia moderna. Strazia veder tanta sapienza con tanta impotenza. Vedevano le nazioni vicine salite a grande potenza per «i buoni ordini e le buone armi», e soprattutto per avere raccolte tutte le membra dello Stato sotto un solo indirizzo. E tentarono qualcosa di simile in Italia. Indi la serenissima lega di Lorenzo, e le leghe e controleghe di Giulio, e, fallito il tentativo di stringere in una forza sola gli Stati italiani, e avendo giá lo straniero dentro, per cacciar via uno, chiamare gli altri. Indi le proposte di milizie nazionali per uscir di mano a’ condottieri, e certi «ordini di governo misto» che tenessero in qualche equilibrio gli ottimati e il popolo. Ciò che presso le altre nazioni era il naturale portato della storia, in Italia erano combinazioni artificiali d’ingegni sottili. E nulla riuscí. Leghe italiane poco stabili, perché leghe di principi, e sulla base mobile degl’interessi. Leghe con forestieri fecero dell’Italia il campo chiuso di tutte le cupidigie e di tutte le insolenze, ed ebbero quella fine che dice il Guicciardini, al quale pare ragionevole «che in qualcuno sia per rimanere potenza grande, il quale cercherá di battere i minori e forse ridurre Italia sotto una monarchia». A milizie nazionali si pensò troppo tardi, quando i condottieri erano giá i padroni, e il paese era corso da fanti svizzeri e spagnuoli e da lanzichenecchi e stradioti e gente d’arme. Né i «buoni ordini» poterono ottenere tanta concordia de’ cittadini, che le fazioni smettessero di chiamar gli stranieri, si che, miserabile spettacolo, tutti li odiavano, e tutti li chiamavano. Perciò nessuna propria e nazionale resistenza fu possibile, e l’Italia, come si disse, fu «conquistata col gesso».
Il problema dunque ti ritorna innanzi lo stesso. Mai non si vide tanta sapienza e cosí alta intelligenza quanta trovi allora nei grandi uomini che avevano in mano le sorti del paese, politici, filosofi, letterati, artisti, le cui opere riempiono anche oggi il mondo di ammirazione.
L’Italia, scrive il Guicciardini nel principio della sua Storia, ridotta tutta in somma pace e tranquillitá, coltivata non meno ne’ luoghi piú montuosi e piú sterili, che nelle pianure e regioni sue piú fertili, né sottoposta ad altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze, ma, illustrata sommamente dalla magnificenza di molti principi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime cittá, dalla sedia e maestá della religione, fioriva di uomini prestantissimi nell’amministrazione delle cose pubbliche, e d’ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa, né priva, secondo l’uso di quell’etá, di gloria militare; e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.
Le paiole del Guicciardini si riferiscono proprio al momento della crisi, quando Lorenzo de’ Medici, Ferdinando d’Aragona e Innocenzo VIII scomparivano dall’orizzonte ed entravano in iscena i Borgia, Alfonso d’Aragona e Ludovico il Moro, e Carlo VIII calava dalle Alpi, iniziando un moto che dovea finire con la soggezione d’Italia a signoria straniera. E dapprima non mancarono le illusioni. A Venezia si diceva che Carlo veniva «a vedere» l’Italia. I nostri scaltrissimi uomini di Stato confidavano di potere con l’ingegno e con l’astuzia vince; e quella forza barbara, e, alla peggio, opporre stranieri a stranieri, e rintuzzare gli uni contro gli altri. Tutti vedevano il pericolo, tutti proponevano i rimedii, e non si venne a capo di nulla. Non mancarono le idee, mancò la volontá e la forza di attuarle. Arguti i discorsi, stupendi gli scritti, fiacche le opere: tutto si ridusse In tentativi infelici e isolati, senza eco, senza espansione. Atti eroici non infrequenti, ma di singoli individui e di singole citta: nulla che rivelasse vita collettiva e nazionale. E cosí non ci fu riforma, e non lega italica, e non milizie nazionali, e non «buoni ordini» e non «buone armi», e tutto restò nelle parole e negli scritti. Discutendo, scrivendo, l’Italia fini facile preda dello straniero.
Questa singolare impotenza italica In mezzo a tutte le apparenze della grandezza e della potenza certifica un male piú profondo che non pareva a’ contemporanei, e non è parso poi Biasimiamo pure il tradimento di Ludovico, o la perfidia de’ Borgia, o la spensieratezza di Leone X: il biasimo non spiega nulla; il male era si grave, che bontá o perversitá d’individui ci potea poco. Diciamo pure che il senso morale era oscurato; che i costumi erano corrottissimi, soprattutto del clero; che le armi erano mercenarie; che gli odii tra classe e classe, tra cittá e cittá erano irreconciliabili; che i principi e i partiti chiamavano essi lo straniero. Con questa lugubre descrizione dei fenomeni di una malattia che il Machiavelli chiamava «la corruttela italiana», il problema non si scioglie, ma si allarga, rimanendo sempre a sapersi per quali cause l’Italia, sotto le forme della piú rigogliosa sanitá, era pure in tale dissoluzione e corruttela che al primo cozzo coi barbari perdé tutto, anche l’onore, e per piú secoli scomparve dalla storia con si profonda caduta, che anche oggi è dubbio se la sia risorta davvero.
L’analisi di questa corruttela italiana, de’ suoi elementi, della sua universalitá, della sua intensitá, delle sue cagioni, del suo sviluppo, de’ suoi effetti, il carattere e la fisionomia che diede alla nazione, e i suoi vestigi visibili anche oggi e che ci vietano l’andare innanzi, è materia non ancora bene considerata e degnissima di studio. Attendiamo il Machiavelli o il Montesquieu che ne scriva acconciamente, netto delle passioni contemporanee. Né a questo basta sagacia e diligenza di storico; si richiede occhio metafisico, che sappia cogliere tra la varietá degli accidenti i tratti essenziali.
Chi guarda con quest’occhio in quei tempi, vedrá subito la differenza capitale tra l’Italia e le nazioni che dovevano sceglierla a campo delle loro lotte, la Francia, la Germania, la Spagna, la Svizzera. Queste, dopo lunga elaborazione, giungevano pure allora ad uno stabile assetto politico, uscendo dalle lotte interne unificate, ordinate e piú forti dove l’Italia si era giá costituita parecchi secoli indietro, ed aveva avuta tutta una civiltá, frutto di quella precoce costituzione. Fin d’allora che i Comuni si vendicarono a libertá, trovò essa il suo assetto, che in tanta diversitá di casi si mantenne inalterato ne’ suoi lineamenti sostanziali, e produsse quei miracoli di prosperitá, di grandezza e di coltura che furono senza riscontro in tutte le altre parti di Europa. Nel Regno, dov’era prevalsa la forma monarchico-feudale, il movimento fu superficiale e solo in alto, mentre le basse classi rimanevano in una condizione stagnante di ignoranza e di bestialitá: pure la coltura italiana non era senza eco e senza corrispondenza in quelle parti. Ma nel rimanente d’Italia la liberta aveva messo in moto tutte le forze, tutti gl’interessi, tutte le passioni, e in parecchi Comuni avea fatta sentir la sua azione ne’ piú bassi strati della societá. Questo cumulo e concentrazione di forze messe in moto da stimoli cosí gagliardi accelerava e insieme consumava la vita italiana, logorandovisi tutte le classi, sí che in breve giro di tempo si compiè la sua storia, maravigliosa per l’instancabile attivitá, per lo straordinario concitamento delle passioni politiche, per l’ardore e la ferocia delle lotte, per la larga partecipazione di tutte le classi alla vita pubblica, per l’infinita produzione nelle industrie, ne’ commerci, nell’agricoltura, negli studii, nelle opere di erudizione e d’ingegno. Fu la vita di Achille, gloriosa, ma breve. Il Medio evo fu per le altre nazioni lunga e faticosa elaborazione; per l’Italia fu civiltá, tutta quella civiltá che esso potea portare. Al tempo di cui parla il Guicciardini, questa civiltá toccava giá quell’ultima perfezione che si manifesta nel lusso e nell’eleganza, con quella idolatria delle belle forme, con quel senso e gusto dell’arte, con quella grandiositá e sontuositá delle feste, con quella voluttá de’ godimenti, con quella delicatezza e leggiadria nello scrivere e nel conversare, ne’ modi e nei costumi, che sono segni non dubbii di prosperitá, di agiatezza e di coltura. Quella ricca e allegra e fiorita produzione in tanta varietá di forme della vita materiale, intellettuale e artistica era non il principio, ma il risultato, la splendida conclusione, quasi la corona di una grande civiltá, che, nel suo rapido corso, consumava rapidamente sé stessa: era il frutto di un capitale accumulato da un’attivitá anteriore, il cui stimolo era mancato. Questa bella vita, in cosí ricca apparenza di sanitá e di forza, aveva giá secche le sue radici, venute meno nella coscienza tutte le ideereligiose, morali e politiche, che l’avevano condotta a quella prosperitá: l’impero, il papato, la libertá comunale, la grandezza feudale; sicché, mentre mandava cosí vivi splendori, la societá politicamente e moralmente era sciolta. Cosi fu a’ tempi di Pericle, e nel secolo di Augusto e in quello di Luigi XIV. Mancati all’Italia tutti gli stimoli spirituali di cui era pur conseguenza quel suo ultimo fiore di civiltá, in breve appassí anche questo, rimasta sola forza motrice degli uomini gli interessi materiali. Mancarono al papato, al Comune, al principe tutti gli alti fini, per i quali si appassionano e vengono grandi i popoli: la tempra nazionale s’infiacchí e si abbassò il carattere. E cosí mancarono insieme tutte le virtú della forza, l’iniziativa, la generositá, il sacrificio,; il patriottismo, la tenacitá, la disciplina; e vennero su le qualitá proprie della fiacchezza morale accompagnata con la maggior coltura e svegliatezza dello spirito, la dissimulazione, la malizia, la doppiezza, quello stare in sull’ambiguo e tenersi nel mezzo e lasciarsi dietro l’uscita, la prudenza e la pazienza. Le teorie, i principii, le istituzioni erano pur sempre quelle, accettate nella parte esteriore, meccanica e letterale, magnificate nei discorsi pubblici, divenute un linguaggio di convenzione in casa ed in piazza, e negate e contraddette nella pratica; ipocrisia abituale anche ne’ piú noti per la libertá del pensiero. Mancava la forza e di accettare con sinceritá e di negare con audacia, divenuta la vita una bassa commedia, tutti consapevoli. Come contrapposto o protesta di una societá non rassegnata ancora a morire, appunto in questi tempi d’infiacchimento abbondarono i grandi individui, patrioti fortissimi, pensatori arditi, riformatori saldi sino al martirio, cittá eroiche, fatti ammirati e non imitati, rimasti solitarii e di poca o nessuna efficacia nella moltitudine. Né bastò la presenza dello straniero nel paese, e le offese alle sostanze, alla vita, all’onore, che pur rendono arditi i piú vili, a destare in quei popoli una favilla di risentimento e di vergogna; anzi li svigorí affatto quello spettacolo inusitato di selvaggia energia. Come si fa ne’ grandi mali e nelle improvvise catastrofi, tutti si abbandonarono dell’animo, ogni vincolo si sciolse, ciascuno provvide a sé stesso, non pensando a’ vicini, anzi pensando a trarre frutto dalla rovina di quelli, insino a che furono rovinati tutti. E non mancava la chiaroveggenza e non l’opportunitá de’ rimedi, e mai l’ingegno italiano non si mostrò cosí fecondo in ogni maniera d’industrie e di sottili accorgimenti e di espedienti e di progetti ingegnosi: non mancava l’ingegno, mancava la tempra. L’Italia era simile a quell’uomo che nella maturitá dell’ingegno si sente giá vecchio per avere abusate le forze. E non è l’ingegno, ma è il carattere o la tempra che salva le nazioni. E la tempra si fiacca quando la coscienza è vuota, e non muove l’uomo più altro che l’interesse proprio.
Queste cose pensando e mulinando da gran tempo, mi vennero alle mani le opere inedite del Guicciardini, e trovai nella Storia fiorentina, e nelle Proposte, e ne’ Carteggi, e ne’ Discorsi, e ne’ Ricordi tale un tesoro di notizie ed osservazioni, che mi maraviglio non sia l’edizione giá tutta spacciata1, per il gran numero de’ nostri professori e cultori della storia. E mi fecero molta impressione soprattutto i Ricordi da compararsi a quanto di meglio è stato fatto in questo genere. Ciò che la naturale prudenza e la lunga pratica delle cose del mondo e la dottrina e la solitaria meditazione e il salutare raccoglimento ne’ tristi e buoni accidenti della vita potea suggerire ad un sagacissimo osservatore, tutto trovi qui condensato e scolpito con rara energia di pensiero e di parola. E mai non ho capito cosí bene, perché l’Italia fosse allora si grande e si debole, che in questa lettura, dove lo storico con perfetto abbandono dipinge sé stesso, e sotto forma di consigli ti scopre i suoi pensieri e sentimenti più intimi, o, per dirla con parola moderna, il suo ideale politico e civile dell’uomo.
L’uomo del Guicciardini, quale crede dovrebbe essere l’uomo «savio», com’egli lo chiama, è un tipo possibile solo in una civiltá molto avanzata, e segna quel momento che lo spirito giá adulto e progredito caccia via l’immaginazione e l’affetto e la fede, ed acquista assoluta e facile padronanza di sé.
In questo regno dello spirito il nostro uomo savio spiega tutte le sue forze. Molto ha imparato ne’ libri, maraviglioso di erudizione e di dottrina; ma non gli basta. Sa «quanto è diver a la pratica dalla teorica; quanti sono che intendono le cose bene, che o non si ricordano o non sanno metterle in atto»2, e come non dee confidare alcuno «tanto nella prudenza naturale, che si persuada quella piú bastare senza l’accidentale della esperienza». Perciò la naturale prudenza e la dottrina accompagna con l’esperienza, ovvero «osservazione delle cose». E non gli basta ancora. Sa pure che «la dottrina accompagnala co’ cervelli deboli o non li migliora o li guasta»; e però anche il naturale dee essere buono, tale cioè che non sia offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. E quando hanno queste buone parti, la prudenza naturale, e l’esperienza, e la dottrina, e il cervello non debole, gli uomini sono «perfetti e quasi divini» Nel nostro savio e nel nostro uomo perfetto si incontra dunque ]’«accidentale col naturale buono», la dottrina e la esperienza col cervello «positivo» e prudente. Ma egli ha una qualitá ancora piú preziosa, senza la quale tutte le altre sono di poco frutto, ed è la «discrezione» o il discernere. Su’ libri trova le regole; ma «è grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e per dire cosí per regola perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione, e queste distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte in su’ libri, ma bisogna lo insegni la discrezione». Senza la discrezione adunque non giova la dottrina e non l’esperienza. La dottrina ti dá le regole, l’esperienza ti dá gli esempli; ma «è fallacissimo il giudicare per gli esempli: con ciò sia che ogni minima varietá nel caso può essere... causa di grandissima variazione nello effetto; e il discernere queste varietá, quando sono piccole, vuole buono e perspicace occhio». E perciò, «quanto s’ingannano coloro che a ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una cittá condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale a chi ha le qualitá disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo». Ma il nostro uomo non capita a prendere un asino per cavallo; perché ha da natura «buono e perspicace occhio», e legge pesso un libro suo, che il Guicciardini chiama «il libro della discrezione».
Questo è l’uomo perfetto del Guicciardini, tutto spirito e armato di cosí forti armi, naturali e accidentali. Né è colpa sua che abbia corcienza della sua superioritá, e disprezzi i «vulgari», e, come italiano, stimi barbari tutti gli altri popoli, e, quantunque fortissimi e valorosissimi, confidi di poterli vincere e farli suoi istrumenti con la forza dell’ingegno e della coltura. Chi studii con qualche attenzione in questo tipo intellettuale, cosí com’è uscito dalla mente del Guicciardini, e che risponde generalmente allo stato reale dello spirito italiano a quel tempo, vedrá perché i nostri uomini di Stato giocavano quasi con gli stranieri, a cui si sentivano tanto soprastare per intelligenza e per coltura, e, non che averne paura, confidavano di poterli usare a’ loro fini e a’ loro interessi particolari. — Voi v’intendete di armi, ma non v’intendete di Stato, — dicea con orgoglio Niccolò Machiavelli a un potente straniero.
Il nostro uomo, dotalo di tante forze intellettive, e cosí disciplinale, con quel suo occhio buono e perspicace vede il mondo altro da quello che i volgari sogliono. Non crede agli astrologi e ai teologi e ai filosofi e a tutti gli altri che scrivono le cose sopra natura o che non si veggono, e «dicono mille pazzie: perché in effetto gli uomini sono al bujo delle cose, e questa indagazione ha servito e serve piú a esercitare gl’ingegni che a trovare la veritá». Parla con ironia di «Santa Maria Impruneta», che «fa piova e bel tempo», e delle devozioni e de’ miracoli, e de’ digiuni e orazioni e simili opere pie, «ordinate dalla Chiesa o ricordate da’ frati» e dell’aiuto che Dio dá a’ buoni, e del buon successo delle «cause giuste»3. Stima che «la troppa religione guasta il mondo, perché effemina gli animi,... avviluppa gli uomini in mille errori e divertaceli da molte imprese generose e virili». Crede che, «dalle repubbliche in fuora, nella loro patria, e non piú oltre, tutti gli Stati, chi bene considera la loro origine, sono violenti», né v’è potestá che sia legittima: «né anche quella dell’imperatore, che è fondata in sull’autoritá de’ romani, che fu maggiore usurpazione che nessun’altra»; e non quella de’ «preti, la violenza de’ quali è doppia, perché a tenerci sotto usano le armi temporali e le spirituali».
Innanzi a quest’occhio «perspicace» tutto l’antico edificio crolla, e del Medio evo non rimane nulla. Il regno celeste rovina e si trae appresso nella caduta papa e imperatore. Lo spirito, adulto e per virtú propria emancipato, si ribella contro il passato dal quale è uscito e che lo ha cresciuto ed educato, caccia via da sé tutte le credenze e i principii, fattori di quella civiltá della quale egli è la corona e l’orgoglio, e si chiude nella terra, o nella vita reale, nel mondo naturale, cosí com’è e non come è immaginato, e pone la sua gloria nell’interpretarlo, nel comprenderlo e nel valersene a’ suoi fini.
Se il nostro savio ammette «con le persone spirituali» che la fede conduce a cose grandi, gli è non per alcuna assistenza soprannaturale o provvidenziale, ma perché «la fede fa ostinazione», e chi dura, la vince4. Quanto a lui, non gli è bisogno la fede, perché a vincere bastano le sue armi proprie, la naturale prudenza, e la dottrina e l’esperienza e quel suo terribile occhio «buono e perspicace». E non ci è latebra del cuore umano che stia nascosta a quell’occhio, e non apparenza e nebbia cosí fitta che gli chiuda la via, e non vanitá d’immaginazione o impeto di passione. Quelli che si lasciano signoreggiare da vane immaginazioni, sono «cervelli deboli». Quelli che si gittano nelle imprese senza considerare le difficoltá, sono «uomini bestiali». E «chi governa a caso, si ritruova alla fine a caso». E sono «matti» quelli che operano secondo passione, ancorché nobile e generosa. E sono «sciocchi» quelli che seguono il «comune ragionare degli uomini» e le «vane opinioni del popolo». «Chi disse uno popolo, disse veramente uno pazzo! perché è un mostro pieno di confusione e di errori; e le sue vane opinioni sono tanto lontane dalla veritá, quanto è, secondo Tolomeo, la Spagna dalla India.» Né è bene «stare al giudicio» di quelli che scrivono, e in ogni cosa «volere vedere ognuno che scrive: e cosí quello tempo che s’arebbe a mettere in speculare, si consuma in leggere libri con stracchezza d’animo e di corpo, in modo che l’ha quasi piú similitudine a una fatica di facchini, che di dotti».
Il nostro uomo savio e perfetto non ha fede che nel suo giudicio proprio, nel suo «speculare», e nella evidenza del fatto, che scopre ogni fallacia di apparenza; «quanti dicono bene che non sanno fare; quanti m sulle panche e in sulle piazze paiono uomini eccellenti, che adoperati riescono ombre!». Egli crede che i fatti umani sieno determinati dalle inclinazionie passioni e opinioni degli uomini, e che ci sia perciò un’arte della vita pubblica e privata, fondata sullo studio e la cognizione del cuore umano, scienza affatto sperimentale. E qual maestro in quest’arte! Nessuno è piú addentro di lui ne’ motivi piú occulti e con piú cura dissimulati delle nostre azioni; né piú sicuro in determinare gli effetti piú lontani, o quella lenta successione di cause poco sensibili e poco osservate, le quali spiegano quei «moti delle cose», che al volgo pajono rovine subitanee. Fra tanta varietá di accidenti e di opinioni e di passioni nessuna cosa lo sorprende e lo sgomenta o lo turba, perché considera ogni cosa «etiam minima», e di tutto sa trovare il bandolo, e nei piú diversi casi della vita prevede e provvede, da’ piú alti negozii dello Stato alle piú umili faccende della famiglia. Il suo sguardo, ne’ casi piú improvvisi freddo e tranquillo, è quello di un Iddio, alto e sereno sulle tempeste, ma di un Iddio leggermente ironico, inclinato a pigliarsi spasso degli uomini e voltarli a modo suo.
Questo tipo del Guicciardini è la «pianta uomo», come s’era piú o meno sviluppata in Italia; è la fisonomia rimasa storica e tradizionale dell’uomo italiano com’era in quel tempo; è quella superioritá e padronanza dello spirito, alla quale i popoli non giungono se non dopo molti secoli d’iniziazione e di civiltá, e dove l’Italia giunse con tanta celeritá di cammino, che vi lasciò per via gran parte delle sue forze. Onde avvenne, che in cosí visibile progresso dello spirito, in cosí varia e ricca coltura, in tanta prosperitá, fra tanti capilavori, quando coglieva il piú bel fiore di una vita breve e affaticata, e aveva in vista nuovi orizzonti, si trovò esausta, e i giorni piú allegri e piú belli della sua esistenza furono i giorni della sua morte.
L’Italia era molto simile a quest’uomo del Guicciardini, che ha fatto piano di tutto il passato, e rimasto solo col suo spirito, si gitta nella vita pieno di confidenza nel suo ingegno, nella sua dottrina, nella sua esperienza, nel suo occhio perspicace, e tratta l’uomo, come la natura, quasi suo servo, e suo istrumenri e nato a utile suo, e guarda con uno sguardo fra l’ironico e il compassionevole; e in veritá il piú degno di compassione è lui.
Perché infine qual è l’uso che di tante forze intellettive fará quest’uomo? qual è per lui il problema della vita? Vivere è voltare tutte le cose divine e umane, spirituali e temporali, animate ed inanimate, a beneficio proprio. Ecco l’ultimo motto di questa scienza e arte della vita.
Seguiamo la storia di quest’uomo secondo il tipo del Guicciardini, disegnato con tanta maestria in questi implacabili Ricordi.
Egli ha sciolto tutti i vincoli col passato, è uscito dalla barbarie del Medio evo, ed è giá l’uomo nuovo o l’uomo moderno, che si beffa del soprannaturale, e di tutti gli «occulti» e le «vane cogitazioni» dell’astrologia e della magia, de’ teologi e de’ filosofi, e non ha fede che nella scienza, e vi pone a fondamento l’esperienza e il giudizio proprio, lo «speculare»: tipo intellettuale italiano, divenuto dopo grandi lotte il tipo, la físonomia di tutta l’Europa civile. Questa potenza ed energia intellettuale produsse lavori che fruttificarono in altre terre, ajutarono al progresso umano, e rimasero sterili dove nacquero. Galilei, Colombo, Vico, e molti altri potenti intelletti, che tanta parte ebbero nella civiltá europea, non ebbero quasi virtú o efficacia nella civiltá del loro paese, dove non era piú materia atta a ricevere e generare. Il Guicciardini dice che le cittá non sono mortali, come gl’individui, perché la «materia si rinnova», e se periscono, è per gli errori di quelli che governano. Superbia di statista: perché non ci è scienza di statista, la quale possa fare che viva una cittá a cui tutte le forze spirituali sono mancate, e dove la materia che si rinnova è fiacca e corrotta e senza succo generativo. Né alla vita basta la sparsa cultura e l’intelligenza sviluppata: perché «sapere non è potere», come vedremo, continuando la storia del nostro uomo.
Il quale, cosí potente d’intelletto e di dottrina e di esperienza e di discrezione, è altresi un patriota ed un liberale, con tali opinioni che lo certificano lontanissimo giá dal Medio evo e personaggio affatto moderno. Imperatore e Papa, guelfi e ghibellini, dritto feudale e dritto di conquista, lotte di ottimati e di popolani, tutto questo è giá roba vieta, cancellato dalla sua coscienza. Italiano, cittadino di Firenze e laico, le sue opinioni si riassumono in queste memorabili parole:
Tre cose desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito, ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella cittá nostra; Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo dalla tirannide di questi scellerati preti.
Bellissime sentenze, che, come egli presentiva, furono un testamento, divenuto oggi bandiera di tutta la parte liberale e civile europea: una libertá bene ordinata, l’indipendenza e l’autonomia delle Nazioni, e l’affrancamento del laicato. Questo desiderava allora il nostro uomo, e con lui tutta la parte colta del popolo italiano, cosí a lui simile.
Ma altro è desiderare, altro è fare. Il nostro uomo farebbe, se potesse far solo, ma lo sgomenta «la compagnia de’ pazzi e de’ maligni». Molti, è vero, gridano libertá, ma «in quasi tutti prepondera il rispetto dell’interesse suo». Essendo il mondo fatto cosí, e dovendo l’uomo savio pigliare il mondo «com’è e non come dovrebbe essere», la scienza e l’arte della vita è posta in saper condursi di guisa che non te ne venga danno, anzi la maggiore comoditá possibile. «Conoscere non è mettere in atto.» Pensa come vuoi, ma fa’ come ti torna.
Perciò la principal mira del nostro savio è di procurarsi e mantenersi riputazione, perché allora «tutti ti corrono dietro»; e quando non si stima l’onore, quando manca questo «stimolo ardente, sono morte e vane le azioni degli uomini». E non c’è cosa, benché «minima», che non si debba lare, chi vuole acquistarsi riputazione. Quantunque «sapere sonare, ballare, cantare, e simili leggiadrie,... scrivere bene, sapere cavalcare, sapere vestire accomodato pare che diano agli uomini piú presto ornamento che sostanza»; pure è bene averne cura, perché «questi ornamenti danno degnitá e riputazione agli uomini etiam bene qualificati..., e aprono la via al favore de’ principi, e sono talvolta principio e cagione di grande profitto e esaltazione». Il nostro savio non è uno stoico, né un cinico; anzi è piuttosto un amabile epicureo. Si guarda d’ingiuriare e di offendere, e, quando vi sia sforzato, fa quello solo che necessitá o utilitá vuole. Fa volentieri il bene, non perché ne attenda cambio, essendo gli uomini «facilissimi a dimenticare i benefizi:», ma perché gli cresce riputazione. È largo di «cerimonie» e di lusinghe e di «promesse generali», perché ne acquista grazia presso gli uomini, quando pure le buone parole non sieno seguite da’ buoni fatti. Si studia di tenersi bene co’ fratelli, co’ parenti, co’ principi, di procacciarsi amici, di non farsi nemici, ché «gli uomini si riscontrano», e te ne può venir male. Procura di trovarsi sempre «con chi vince»: perché glie ne viene parte di lode e di premio. Ha «appetito della roba», non per godere di quella, che sarebbe cosa bassa, ma perché gli dá riputazione e la povertá è spregiata. È persona «libera e reale, o, come si dice in Firenze, schietta», perchè piace agli uomini e perché, quando sia il caso di simulare, piú facilmente acquisti fede. E nega arditamente, quando anche «quello abbia fatto o tentato... sia quasi scoperto e pubblico; perché la negazione efficace, quando bene non persuada a chi ha indizi o creda il contrario, gli mette almanco il cervello a partito». È stretto nello spendere, ancoraché la prodigalitá piaccia: perché «piú onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi». Fa ogni cosa per «parere buono»: perché il «buon nome vale piú che molte ricchezze’». Cerca «non meritarsi nome di essere sospettoso»; ma perché piú sono i cattivi che i buoni, «massime dove è interesse di roba o di stato», e «l’uomo è tanto cupido dello interesse suo, tanto poco respettivo a quello di altri,... crede poco e si fida poco».
Sarei infinito se volessi continuare in queste citazioni. E forse mi sono steso troppo. Ma dice cosí bene, cosí preciso, in un linguaggio e in uno stile cosí oggi dimenticato, che nessuno me ne vorrá male. E sarò contento, se avrò potuto invogliare molti a leggere questo codice della vita scritto in stile lapidario e monumentale e pieno di alti insegnamenti per i cultori delle scienze storiche e morali.
Quest’uomo savio, secondo l’immagine che ce ne porge il Guicciardini, è quello che oggi direbbesi un gentiluomo, un amabile gentiluomo, nel vestire, nelle maniere e ne’ tratti. Il ritratto è cosí fresco e vivo, cosí conforme alle consuetudini moderne, che ad ogni ora ti par d’incontrarlo per via, con quei suo risetto d: una benevolenza equivoca, con quella perfetta misura ne’ modi e nelle parole, con quella padronanza di sé, con quella confidenza nel suo saper fare e saper vivere. Tutti gli fanno largo; molti gli sono attorno; e se ne dice un gran bene. Quelli che sono da piú di lui, non ne hanno ombra, perché si guarda di entrare in concorrenza, ed anche di far lega co’ potenti, memore del proverbio casigliano: «il filo si rompe dal capo piú debole». I principi lo hanno in grazia e lo colmano di onori e di ricchezze, perché «mostra di avere loro rispetto e riverenza, e in questo è piú presto abbondante che scarso». Ha il favore del popolo, perché «fugge il nome di ambizioso, e tutte le dimostrazioni di volere parere, etiam nelle cose minime e nel vivere quotidiano, maggiore o piú pomposo o delicato che gli altri». Nessuno gli ha gelosia o sospetto, perché fugge la «troppa cupiditá», per la quale l’uomo è il «peggior nemico di sé stesso». Qual è la miglior cosa del mondo? e il nostro savio risponde: — È misura — . Aborre dal troppo e dal vano; e non sforza la natura, e si rassegna al fato, a quello che ha essere, citando l’aureo detto: «Ducunt volentes fata, nolentes trahunt». Se non può «colorire tutti i suoi disegni», non se ne sdegna e sa attendere: perché «i savi sono pazienti». È buono cittadino, perché si mostra «zelante del bene della patria e alieno da quelle cose che pregiudicano a un terzo»; ma riprendere i disprezzatori della religione e dei buoni costumi è «bontá superflua di quelli di San Marco5, la quale o è spesso ipocrisia, o quando pure non sia simulata non è giá troppa a uno cristiano, ma non giova niente al buono essere della cittá». Vuol provvedere alla sua grandezza, ma non se la propone per idolo, come fanno comunemente i principi, i quali «per conseguire ciò che gli conduce a quella, fanno uno piano della coscienza, dell’onore, della umanitá e di ogni altra cosa». Tutto è previsto e misurato; a tutto ci è un «ma», che toglie ogni esagerazione e «tien fermo» il nostro savio» nella via del mezzo». «Aurea mediocritas»: il soperchio rompe il coperchio, e la miglior cosa del mondo si è misura.
Gli intelletti elevati trascendono il grado umano e si accostano alle nature celesti», ma «senza dubbio ha migliore tempo nel mondo, piú lunga vita, ed è in uno certo modo piú felice chi è d’ingegno piú positivo». E questo è esser savio e saper vivere.
Senza dubbio il nostro savio ama la gloria, e desidera di fare cose «grandi ed eccelse», ma, ingegno positivo, com’egli è, a patto che non sia con suo danno o incomoditá. Gli cascano di bocca parole d’oro. Parla volentieri di patria, di libertá, di onore, di gloria, di umanitá; ma vediamolo a’ fatti. Ama la patria e se perisce gliene duole non per lei, perché cosí ha a essere, ma per sé, «nato in tempi di tanta infelicitá». È zelante del ben pubblico, ma «non s’ingolfa tanto nello Stato», da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertá, ma quando la sia perduta non è bene fare mutazioni, perché spesso mutano «i visi delle persone non le cose», e come non puoi mutare tu solo, «ti riesce altro da quello che avevi in mente, e non puoi fare fondamento sul populo» cosí instabile, e quando la vada male, ti tocca la vita spregiata del fuoruscita. Se tu fossi «di qualitá a essere capo di Stato», passi; ma, cosí non essendo, è miglior consiglio portarsi in modo che quelli che governano non ti abbiano in sospetto, e neppure ti pongano tra i malcontenti. Quelli che altrimenti fanno, sono «uomini leggieri». Nel mondo sono i savii e i pazzi. E pazzi chiama quei fiorentini, che «vollero contro ogni ragione opporsi», quando i «savii di Firenze arebbono ceduto alla tempesta»6. A nessuno dispiace piú che a lui l’«ambizione, l’avarizia e la mollizie de’ preti e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o sanza vizii, o sanza autoritá»; ma «per il suo particulare» è necessitato amare la grandezza de’ pontefici, e operare a sostegno dei preti e del dominio temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma quanto a lui, «non combatte con la religione; né con le cose che pare che dependono da Dio; perché questo obbietto ha troppa forza nella mente delli sciocchi». Cosi il nostro savio si nutre di amori platonici e di desiderii impotenti. E la sua impotenza è in questo, che a lui manca la forza di sacrificare «il suo particulare» a quello ch’egli ama e vuole: perché quelle cose che dice di amare e di desiderare, la veritá, la giustizia, la virtú, la libertá, la patria, l’Italia liberata da’ barbari, e il mondo liberato da’ preti, non sono in lui sentimenti vivi e operosi, ma opinioni e idee astratte, e quello solo che sente, quello solo che lo move, è «il suo particulare». La lotta era accesa in Germania per la riforma religiosa e si stendeva nelle nazioni vicine, e non mancavano «pazzi» tra noi che per quella combattevano e morivano; in Italia si combattevano le ultime battaglie della libertá e dell’indipendenza nazionale; il paese si dibatteva tra svizzeri, spagnuoli, tedeschi e francesi; e il nostro savio non pare abbia anima d’uomo, e non dá segno quasi di accorgersene e non se ne commove, e libra, e pesa, e misura quello che gli noccia o gli giovi. La vita è per lui un calcolo aritmetico.
L’Italia peri perché i pazzi furono pochissimi, e i piú erano i savii. Cittá, principi, popolo, rispondevano all’esemplare stupendamente delineato in questi Ricordi. L’ideale non era piú Farinata, erano i Medici; e lo scrittore di questi tempi non era Dante, era Francesco Guicciardini. La societá s’era ita trasformando: pulita, elegante, colta, erudita, spensierata, amante del quieto vivere, vaga dei piaceri dello spirito e della immaginazione, quale tu la senti ne’ versi di Angiolo Poliziano. Ogni serietá e dignitá di scopo era mancata a quella insipida realtá. Patria, religione, libertá, onore, gloria, tutto quello che stimola gli uomini ad atti magnanimi e fa le nazioni grandi, ammesso in teoria, non aveva piú senso nella vita pratica, non era piú il motivo della vita sociale. E perché mancarono questi stimoli, i quali soli hanno virtú di mantener vivo il carattere e la tempra delle nazioni, mancò appresso anche ogni energia intellettuale ed ogni attivitá negli usi e ne’ bisogni della vita, e il paese fini in quella sonnolenza, che i nostri vincitori con immortale scherno trasportarono ne’ loro vocabolarii e chiamarono il «dolce far niente».
Un individuo simile al nostro savio può forse vivere; una societá non può. Perché a tenere insieme uniti gli uomini è necessitá che essi abbiano la forza di sacrificare, quando occorra, anche le sostanze, anche la vita; e dove manchi questa virtú o sia ridotta in pochi, la societá è disfatta, ancoraché paja viva.
Questa forza mancò agl’Italiani, simili in gran parte a quel romano ricchissimo, che non volle spendere cento ducati per la comune difesa, e nel sacco di Roma perdette l’onore delle figliuole e gran parte della sua fortuna. Questa forza mancò, perché le idee che mossero i loro maggiori erano esauste, succeduta la stanchezza e l’indifferenza, e in tanta cultura e prosperitá la tempra, la «stoffa dell’uomo» era logora, mancala quella fede e caldezza di cuore che «conduce le cose grandi che può comandare ai monti, come dice l’Evangelo, o, se vi piace meglio, può rendere facili e dolci i piú duri sacrificii. Che cosa rimaneva? La saviezza del Guicciardini. Mancata era la forza; supplí l’intrigo, l’astuzia, la simulazione, la doppiezza. E pensando ciascuno «al suo particulare», nella tempesta comune naufragarono tutti.
Come erano rimpiccoliti gl’Italiani e in quanta fiacchezza erano caduti, quali erano i disegni, i desiderii fra tanta tempesta, può far fede la descrizione che fa il Guicciardini dell’animo de’ suoi concittadini, ne’ quali era pur rimasta tanta virtú che valse a farli cadere con lode.
La consuetudine nostra, fa dire a loro lo storico, non comportava che s’implicassi nella guerra tra questi principi grandi, ma... attendessi a schermirsi e ricomperarsi da chi vinceva secondo le occasioni e le necessitá. Non era uficio nostro volere dare legge a Italia, volerci fare maestri e censori di chi aveva ad uscirne: non mescolarci nelle quistioni de’ maggiori re de’ cristiani: abbiamo bisogno noi d’intrattenerci con ognuno, di fare che i mercatanti nostri, che sono la vita nostra, possino andare sicuri per tutto: di non fare mai offesa a alcuno principe grande, se non costretti e in modo che la scusa accompagni l’ingiuria, né si vegga prima l’offesa che la necessitá. Non abbiamo bisogno di spendere i nostri denari per nutrire le guerre di altri, ma serbargli per difenderci dalle vittorie; non per travagliare e mettere in pericolo la vita e la cittá, ma per riposarci e salvarci7.
Questo linguaggio di servitori e di mercanti mostra qual era allora la saviezza de’ popoli italiani, e che cosa è l’uomo savio del Guicciardini. Non c’è spettacolo piú miserevole di tanta impotenza e fiacchezza in tanta saviezza.
La razza italiana non è ancora sanata da questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e di simulazione. L’uomo del Guicciardini «vivit, imo in Senatum venit», e lo incontri ad ogni passo. E quest’uomo fatale c’impedisce la via, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza.
[Nella «Nuova Antologia», ottobre i869.]
- ↑ Anzi mi si dice che gli editori non ne abbiano ancora cavate le spese, e che perciò sieno assai poco disposti a far nuova spesa pubblicando la Storia d’Italia, conforme ad un autografo del Guicciardini che si trova presso di loro. E chi pensi quanto scorretta e in varie parti alterata o interpolata è l’edizione presente, e che scempio ne abbia fatto il professor Giovanni Rosini, per volerla ridurre, come dice lui, a miglior lezione, vedrá di che vantaggio saria aver l’opera tutta di mano del Guicciardini, non purgata dalla censura medicea, e non imbarbarita dal professor Rosini. Ma lo stampare, se in altri paesi più fortunati e piú civili arricchisce, fra noi è impresa cosí rischiosa da pensarci su due volte, anche quando gli editori fossero i nobili eredi dello storico, i conti Piero e Luigi Guicciardini, e l’edizione fosse commessa alla diligenza e alla dottrina di quell’egregio uomo che è il Canestrini.
- ↑ Le parole tra virgolette sono testuali.
- ↑ p. 118.
- ↑ p. 83.
- ↑ Savonarola e i Piagnoni.
- ↑ Allude all’assedio di Firenze, illustrato dall’eroica resistenza di quelli che il Guicciardini qualifica «pazzi».
- ↑ Ricordi autobiografici, pag. 2ii