Saggi critici/«Storia del secolo decimonono» di G. G. Gervinus

«Storia del secolo decimonono» di G. G. Gervinus

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«Storia del secolo decimonono» di G. G. Gervinus
Janin e la «Mirra» Memorie storiche e letterarie di Villemain
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«STORIA DEL SECOLO DECIMONONO»

di G. G. Gervinus


È uscito il primo volume di una storia, di cui l’introduzione, pubblicata giá da un pezzo, aveva messa grande aspettazione. Accolta in Germania con favore straordinario, a giudicarne dalle tante migliaia di copie spacciate in poco più di un mese, importa che gl’italiani ne abbiano conoscenza, trattandovisi delle cose loro. Vi è tra l’altro un capitolo, dove l’egregio storico ragiona della nostra letteratura; ed io vo’ tradurlo per dare un saggio di questo lavoro.

LETTERATURA ITALIANA

Alfieri


Le idee del medio evo, vincolo di tutti questi sistemi politici e gerarchici, estetici e filosofici, in Francia ed in Germania, non meno che in Italia ed in Inghilterra, accompagnano la ristorazione e gli anni che la prepararono. In Italia poco si conosceva De Maistre, il savoiardo, i cui disegni erano tutti rivolti verso la Francia e che ambiva di esser fatto Pari da Luigi XVIII; ma teorie e progetti della stessa natura brulicavano in molti cervelli. A questo ricorso di medio evo sarebbe mancato uno de’ suoi elementi essenziali, se non si fosse ridestata ancora una [p. 164 modifica]tendenza guelfa. La quale s’introdusse in Italia col ritorno degli antichi governi, con la signoria ghibellina nell’Alta Italia, con la reazione religiosa ed il romanticismo poetico. Tante e cosí straordinarie vicissitudini aveano potuto solo render di nuovo possibile un tale fenomeno. In Italia, appunto per la vicinanza del papato, il razionalismo francese del secolo decimottavo avea messe profonde radici fra i dotti; su questo campo, in quasi tutti gli Stati italiani, governo e letteratura prima della rivoluzione si avevano data la mano. Aggiungi che tutti i grandi italiani, che congiungevano con l’amor della patria senno ed esperienza politica, erano stati sempre antipapali, come Dante e Machiavelli. L’uno desiderava un capo ghibellino straniero, l’altro era tenero degli ordini veneziani, certo antipapali. Da costui fino ad Alfieri ci ebbe appena in Italia un pensatore politico cosí risoluto. La lettura delle opere di Machiavelli accese in Alfieri quel sentimento politico, di cui s’informarono i suoi lavori letterarii, e che egli travasò tutto in due libri Della Tirannide scritti di un getto nel i777. Se Machiavelli stimò male necessario a’ suoi tempi un dispotismo transitorio, questo destò in Alfieri tutto lo sdegno di un’anima libera, e con la rigiditá di un carattere, che era nemico di tutte le vie mezzane, osò di dire egli primo, che questa tirannide aveva troppo lungamente pesato sulla sua patria. Nella qual tirannide comprese pure il papato, e ciò che un italiano di rado si attentava a dichiarare, non che ad altri, a sé stesso, egli bandi pubblicamente: — Che la religione cattolica è incompatibile con la liberta politica, e che i popoli del nord si apersero via a libertá per avere scosso da sé quel giogo. — [Non] cansò la quistione del modo che si ha a tenere per sottrarsi alla tirannide. Nella sua risposta in brevi parole ci fa presentire le tendenze del secolo decimonono. Il popolo intero dee innanzi tutto «sentire» la tirannia, la quale si conserva solo perché esso la vuole e l’accetta, e solo può essere diradicata quando tutti o i molti non la vorranno e non l’accetteranno piú. Ora egli confessava «piangendo» che quest’essa è sola la via, lenta, ma la sola efficace. Sconfortava perciò dal cospirare prima che l’odio della tirannide non fosse [p. 165 modifica]generale. Ma se alcuno senta si forte quel giogo, che sostenga morire libero anzi che vivere schiavo. Alfieri esaltava insieme con Tacito questo magnanimo sacrifizio, per la sublimitá dell’esempio non del tutto vano. La sua prima sentenza era accetta a quei temperati liberali, il cui metodo era in veritá il piú lento, ma che solo ha condotto ad efficaci tentativi di libertá in Italia: nondimeno costoro venivano derisi col nome di «piagnoni» dagli audaci incitatori di congiure e di rivolte, a’ quali la seconda sentenza non era di sconforto, ma di sprone, e che, perduta ogni illusione sulla sorte che la terza sentenza lor prometteva, caddero alcuni con gloria, altri oscuramente. Il sistema di costoro determinò nel seguito lo spirito della letteratura popolare e della politica in Italia. Al che, nonostante l’assennatezza di quelle due sentenze, Alfieri stesso diè la prima spinta. Come Foscolo nato di madre greca in Zante ed educato ad alti sensi. Alfieri attinse le sue prime idee politiche da Plutarco: caldo di esempli greci e romani, che infino ad oggi frammezzo alla bigotteria e preteria cristiana operano come forza viva sugli spiriti italiani, Alfieri «fremeva di rabbia» di esser nato in tempi, che niente si poteva fare di grande come quegli eroi dell’antichitá. Ambi almeno di «dire» qualche cosa di grande, ed a questo sono indirizzate le sue tragedie, e de’ suoi successori, Monti, Foscolo, Pellico, Niccolini, ecc., le quali rappresentano in forma classica i grandi fatti dell’antichitá e tendono a ridestare l’antico patriottismo; e ce ne ha di Alfieri dettate proprio «da un fanatismo febbrile di libertá». Le quali in tanta putredine di vita pubblica facevano brillare dinanzi a’ giovani le immagini delle repubbliche di Roma e di Grecia, le immagini di quegli eroi, la cui mano fondava e redimeva stati, e delle cui gesta veniva ad essi soli la gloria. I poeti e i loro lettori, per vaghezza di faina sospinti a simili imprese, rimanevano stranieri a quel modesto concorso e lavoro di molti pe’ molti, solo efficace ne’ moderni stati cosí complessi, ne’ quali la estensione, la popolazione e lo stato delle classi inferiori rende necessario di aver l’occhio a’ bisogni delle moltitudini ed attendere con pazienza la loro maturitá. Dimenticarono di [p. 166 modifica]distinguere tra il sentire e la capacita loro e quella del popolo per il quale si travagliavano; e, fattosi profondo l’abisso che in Italia separa le classi infime dalla parte colta. Alfieri e Foscolo, avuta propria esperienza della rozzezza della plebe, la guardarono amendue con disprezzo dalla loro altezza, quasi iloti da trattarsi con la marra, col prete e col boja. Cosi essi rimasero da ultimo estranei agl’interessi politici; quanto piú si affrettarono, e piú indietreggiarono. A’ giovani arrisicati che non avevano la loro esperienza, lasciaron le stesse tragiche disposizioni di porre la loro fama piú su che il benessere del popolo, di cozzare con le vie della natura e con la lentezza del tempo e di volere il loro, o tutto o niente. Nella nuova generazione i destini d’Italia porsero alimento a questa impazienza e dismisura politica. La rivoluzione in Francia, la fondazione di repubbliche italiane sviò violentemente gli animi dalla via giá aperta delle riforme, le tendenze repubblicane signoreggiarono di nuovo, e quasi tutti i piú illustri italiani, non solo i poeti, ma gli Scarpa, i Canova, i Galvani, i Volta, furono di sensi repubblicani. Avendo poi Napoleone deluse le splendide speranze dell’italiana liberta, si vide apparire nella vita intellettuale quei cuori ulcerati, tra i cui sfoghi sorse piú tardi in Europa dal pacifico romanticismo estraneo al mondo politico una nuova letteratura battagliera e rivoluzionaria.Quanto piú gl’italiani durante la signoria francese ondeggiarono fra l’oppressione e la libertá, alteri ed umiliati ad un tempo della gloria de’ loro eserciti per una causa straniera, in servizio di un italiano, che ridestò certo il nome d’Italia, ma se ne valse come di mezzo a fini estranei; tanto piú gli animi tesi ebbero agio di raffrontare quella dura realtá col loro ideale, e consumarsi nelle piú violente passioni.

Ugo Foscolo


Gli scritti ed il carattere di Ugo Foscolo sono qualche cosa di strano in mezzo al movimento de’ patrioti italiani. Il suo sentire poetico e patriottico erasi tutto educato in Alfieri, «il primo [p. 167 modifica]degl’italiani», l’amore della libertá aveva fatto lui, non meno che l’altro, poeta, ed in amendue giunse fino a «febbre di patria e di gloria». E, come Alfieri, fu strano e passionato, scettico, nemico de’ preti e repubblicano. Alla caduta della repubblica di Venezia, la sua piccola patria, fu preso nella sua prima giovinezza da quell’amaro dolore, che giá róse il cuore di Dante, e con trista vaio non meno la sventura che l’onta de’ suoi cittadini, la caduta ed il modo della caduta. In tre anni di miserie e di esilio formò di sé (i802) la materia delle Ultime lettere di Jacopo Ortis che narrano il suicidio di un giovine, il quale insieme colla patria perde una donna amata senza speranza. Pare abbia voluto in forma di romanzo rappresentare la morale di Alfieri intorno alla volontaria morte dell’uomo libero; un Cocceio Nerva si dovea immacolato sottrarre alla tirannide; ma nell’intendimento di Alfieri non vi era certo, che l’eroe dovesse con amore di patria congiungere amor di donna ed il sacrifizio di sé con la vanitá e la gelosia. Del rimanente tutte e due queste passioni erano descritte con una profonda intimitá e con forza, semplicitá e naturalezza; il libro scritto dal poeta col suo sangue fece una viva impressione. Allora era Foscolo caldo di gioventú: quando piú tardi vide nel regno d’Italia la stessa caduta e la stessa onta che giá in Venezia, si ritirò freddamente in sé stesso, e disgustò anche i suoi amici con l’eccesso del suo fatalismo, e con lo guardo scuro che gittò nella storia sulla umanitá e la patria. Ma, se noi vediamo la condotta di Foscolo dopo che il regno d’Italia andò in rovina, non troviamo ragione che lo giustifichi di abbandonarsi ad un cosí severo giudizio de’ suoi compatriotti e crucciarsene cosí amaramente. Né cosa vi è che lo scusi de’ suoi atti antecedenti. Irresoluto come egli era, fluttuante al pari di ogni italiano tra la gratitudine e l’odio a’ francesi, la sua condotta nel regno d’Italia fu una continua altalena. Egli serviva e ricusava il giuramento; serviva nell’esercito e nella universitá e gittava giú l’uno e l’altro uffizio; schivo di obbedienza, come Chateaubriand, ma non parimenti schivo de’ pubblici uffizii; odiava i francesi e biasimava il misogallismo di Alfieri; frizzava nel suo Ajace (i8ii) Napoleone, ed accettava [p. 168 modifica]Eugenio a suo censore; a Lione faceva l’apoteosi di Napoleone, a Pavia gli ricusava perfino le lodi di uso nel suo discorso inaugurale; lo ammirava e lo aborriva, desiderava le sue vittorie e sperava la sua caduta. Come la politica, fu la sua vita privata senza dignitá e temperanza. Cinica natura, dispregiava gli usi sociali, e nella filosofia e nella vita si mostrò indulgente a tutte le passioni. Tutto tra libri, giuoco e donne, non conobbe mai la vita regolata della famiglia; erasi fatta una legge, come Alfieri, di viver celibe sotto la tirannia, bel pretesto politico a coprire disordinati costumi, inchinevole come egli era a vita licenziosa. Era in lui discordia non solo tra i principii e la patria, ma anche ne’ principii. Nella catastrofe del i8i4 si annoiò tutto ad un tratto di politica, egli che, da giovine, aveva fatto professione di stoicismo nella vita pubblica. Gli parve non potersi piú salvare la patria neppure con mille Licurghi: tanto fracidume sanabile solo con la distruzione, e tanta meritata vergogna d’Italia incancellabile, finché i due mari non l’avessero ricoperta1. Un anno dopo, esule dalla Svizzera e di quivi nell’Inghilterra, vide le cose con piú calmo animo, ma con abbandono de’ suoi principii. Irrisore di ogni potere soprannaturale, parlava ora della necessitá della religione e della bontá della religione cattolica, credendo, come alcuni altri italiani di esperienza, sia possibile una purificazione del cattolicismo sotto il papato e la signoria dei preti. Egli giá motteggiatore de’ papi, cosí pieno di fiele, scrivea ora al cospetto d’Italia: «doversi volere fino all’ultima stilla di sangue che il sovrano pontefice, propugnacolo della religione in Europa, principe elettivo ed italiano, non solo sia lasciato esistere e governare, ma governi in Italia, sotto la protezione degli italiani». L’antico repubblicano ora consigliava la monarchia temperata, e voleva, come poi i moderati del ’30, raccogliere in un solo partito la classe media, timido della plebe, poco fidente della nobiltá, ed in sospetto delle mene settarie.

Perché, quantunque egli nel i8i4 non abbia arrossito di ordire congiure militari, per quel suo perpetuo altalenare, ruppe [p. 169 modifica]poi con i fautori dell’indipendenza che egli chiamava fanciulli: indi insieme con tutti gli uomini intelligenti del suo paese accagionava questi cospiratori di ogni male d’Italia, e si guardava di dire pubblicamente ciò che poteva rompere le fila a quelle «teste calde», e certo solo il suo acuto ingegno distinguevalo da costoro, co’ quali aveva comuni le illusioni e l’eccentricitá di uno smisurato amor proprio. Contraddittorio e diverso in parola e in opera, Foscolo è dai suoi cittadini variamente giudicato. Quelli che, come Gallenga, l’onorano quasi un martire, hanno pur dovuto rimproverargli il mutabile umore, e negargli la capacitá e la forza di seguire un regolato cammino d’idee. Monti allontanavasi da quel «Catone cortigiano» ed egli da lui; Tommaseo attribuiva la sua condotta a vanitá, la contessa di Albany a singolaritá, Cesarotti ad impeto di passioni, il conte Pecchio a leggerezza. Esposto a pungenti biasimi, egli si sforzò sempre e dovunque di dimostrare in pubbliche e private difese, logica e costante la sua condotta. Né potendo por fine alle accuse, che egli attribuiva a maldicenza e veleno degl’italiani, li cancellò dal suo cuore ed in Inghilterra se ne tenne discosto; e sarebbe ritornato nella sua greca patria, se non lo avesse colto la morte (i827). Nondimeno il Foscolo, con tutti i suoi tratti di stranezza ed esaltazione, è rimaso il beniamino della gioventú italiana, ben diverso da ciò che nelle stesse condizioni ha avuto luogo in Germania, dove son divenuti sempre piú ideali politici gli Stein e gli Scharnhorst, non mica i Kleist ed i Seume, vittime della patria sventura, simili a Foscolo, anzi piú pure.

Manzoni


Vi è stato dunque un tempo, che Foscolo fu condotto da irresistibili circostanze a concetti politici piú temperati: né questo modo piú calmo di considerare le cose lo aveva mai abbandonato del tutto. Nel suo Ortis avea egli posto in bocca del suo personaggio le assennate parole del Parini contro il fanatismo della gloria, egli aveva pur fatto fare questa importante [p. 170 modifica]osservazione storica: che la sventura di un popolo ha per lo piú la sua cagione nelle necessarie leggi del tutto, nell’equilibrio e contrapposti storici; che perciò l’Italia oppressa soffre ora il contraccolpo del ferreo giogo che una volta impose al mondo. La qual moderazione di giudizio veniva giá su durante la signoria francese in altri contemporanei; ed ebbe la prima volta poetica espressione, quando Ippolito Pindemonte alla celebre poesia I Sepolcri del Foscolo rispose con un’altra dello stesso titolo, la quale alla ardenza della prima contrapponeva un sentire piú soave e pacato. In quel tempo (i8i0) usci fuori Alessandro Manzoni co’ suoi Inni sacri, imitati poi da una intera serie di lirici sacri. Sono inni secondo gli antichi canti ecclesiastici, sgorgati dal santo petto di un uomo placido e contemplativo, che, scosso dai grandi mali morali ingenerati dalla rivoluzione e tolto allo scetticismo per un subitaneo ravvedimento da un predicatore francese, come si dice, ritornò in grembo della chiesa. Primo segno in Italia di quel ritorno alle idee religiose giá manifestatosi in Francia nel Genio del Cristianesimo di Chateaubriand e della entrata del medio evo col romanticismo tedesco. Gl’influssi ravvivatori della nordica letteratura avevano giá fatto loro pruova nelle lettere di Ortis; Foscolo era giá prima un ammiratore di Ossian e di Shakespeare; si giovò in quelle lettere del Viaggio sentimentale di Sterne, da lui tradotto nel i805, e compí quel racconto sotto la fresca e vivace impressione del Werther. Era sua intenzione di ridonare alla prosa italiana vita e semplicitá, e dipinse l’amore con una schiettezza che dall’artificioso Petrarca in qua non si era mai veduta in Italia. A lui si accostò il Manzoni, che lesse con ammirazione i capilavori della letteratura inglese e tedesca, e si propose anch’egli di rimuovere dalla prosa la fredda e pomposa rettorica, e restituire alla poesia l’immediata veritá e semplicitá della natura. Rimase egli per lungo tempo solo, insino a che, dopo la caduta del governo francese, insieme con la pace entrò in Italia la letteratura settentrionale. In questo frattempo Leoni rendea dimestico Milton, dopo la versione giá da lui fatta anni prima, precursore di Bazzoni e Sormani, di otto tragedie di Shakespeare; similmente [p. 171 modifica]Pompeo Ferrario voltò in egregia prosa i drammi di Schiller, prima della traduzione in versi del Maffei. Nei primi anni della ristorazione Byron e Scott divennero noti nelle traduzioni di Pellico e Borsieri; Berchet alimentava la disputa teoretica tra romanticismo e classicismo, pubblicando una traduzione di due ballate di Bürger. Manzoni col suo nome fece in Lombardia pender la bilancia in favore del romanticismo, e per opera de’ suoi seguaci lo trapiantò pure in Toscana, che insieme con Roma rimaneva inchiodata agli antichi. Al qual trionfo conferí piú ancora lo spirito patriottico della scuola romantica di Milano, la quale in quella sua prima freschezza e vivacitá formò valida opposizione all’emula scuola classica. L’organo letterario di questa, La Biblioteca Italiana, era diretto insieme con Acerbi da Vincenzo Monti, a cui gl’italiani non hanno mai perdonato la sua incostanza politica. In ogni mutazione egli si accomodava a tutte le vicissitudini della vita pubblica. Come quasi ogni poesia della scuola arcadica a cui apparteneva, la sua era quasi sempre poesia d’occasione; talora co’ grandi fatti del tempo alzavasi a grandezza di stile, alternando però sempre i colori secondo i tempi. In Roma poeta papale cantò il viaggio di Pio VI a Vienna;’ infiammato da Alfieri, scrisse due tragedie, calde di liberta, e però lodate dal Foscolo; la sua Basvilliana al contrario, fatta ad occasione dell’assassinio di Ugo di Basville agente francese in Roma, venne bruciata da’ democratici di Milano; Monti, come confessa egli stesso, fu per paura poeta rivoluzionario, partecipe delle altrui follie; poi prestò la sua penna all’impero francese, e sotto la dominazione austriaca cantò il ritorno di Astrea, e scrisse altre poesie cortigiane stategli commesse. Manzoni al contrario tennesi lontano dalla corte, ma senza ostentazione, calmo e mansueto, ma indipendente e stimato come Parini, e come lui, amante di liberta e di patria, ma come lui, convinto, che la libertá può cosí poco essere acquistata con le sollevazioni e le congiure, come soffocata per via di tirannide, e che una letteratura di rettorici sfoghi, o ispirata dalla disperazione e dalla noia della vita, anzi che agevolarla, può metterla a repentaglio. Intorno a lui si raccolsero gli scrittori del [p. 172 modifica]Conciliatore, organo letterario de’ romantici, le cui tendenze operose vedremo piú tardi nella storia lombarda. Manzoni non vi si mescolò; ma d’altra parte caldeggiava le loro idee letterarie, le quali, sotto lo sguardo sospettoso del governo austriaco, lavoravano al risorgimento dello spirito nazionale. Le due sue tragedie, il Carmagnola e l’Adelchi (i8i8), che prime si discostarono dal modello alfieriano, con una tendenza ad imitare le forme di Schiller, e che a noi tedeschi ricordano piuttosto i drammi di Uhland, conservavano quello spirito patriottico nella materia e nella condotta: l’ultima rappresenta con molte allusioni la caduta dei Longobardi per le intestine discordie. Ma insieme con l’abito dell’antica tragedia aveano esse posto giú anche quel ruvido e vantatore eroismo; animate da uno spirito di soavitá, confortano il misero a pazienza e speranza, essendo la felicitá cosí poco eterna compagna dell’oppressore, come dell’oppresso: i denti ringhiosi del Foscolo si mutano qui in labbra supplichevoli.

Il celebre romanzo, i Promessi Sposi, che pubblicò dieci anni dopo (i827), dettato dallo spirito di rassegnazione, combatte quel vendicarsi o farsi giustizia da sé nell’offesa e nell’ingiuria. Può parere che l’autore qui si sia messo al tutto fuori della politica; ma qui pure l’argomento è tolto da una storia della patria oppressa, e per rispetto all’impressione ricorda una sentenza del Foscolo: che i poeti, anche esortando a rassegnazione, riaprono le ferite del cuore, commovendolo sempre con troppa violenza. Nondimeno il fine del Manzoni era tutto conciliativo. Descrivendo le cittá lombarde sotto l’oppressione spagnuola, vi era giá qualche cosa che riconciliava col presente, tristo che fosse: ed al di sopra della vita politica poneva la morale, di cui mostravasi possibile la piú alta perfezione in ogni stato sotto qualsiasi forma di reggimento, ed insieme a corona la vita religiosa, la salutare fidanza in Dio, della cui provvidenza questo racconto è una energica manifestazione. Ma questo tenersi lungi con rassegnazione da ogni fine politico, secondo lo stile del romanticismo tedesco, reale o apparente che fosse, fu trovato da quasi tutti i patriotti italiani in contraddizione con la tradizione [p. 173 modifica]nazionale. Non conoscevano essi altro interesse, che quello della patria e dell’emancipazione politica, ed anche i piú temperati si levarono con solenni richiami contro questa predica di codarda sottomissione in nome di Dio. E quella glorificazione della morale virtú della religione, che vi è descritta senza contrasto con la superstizione e con l’abuso, è vero, ma pure come effetto di amore, veniva da loro combattuta, quasi fosse un ritorno al cattolicismo con tutte le sue sconvenienze: dei quali biasimi si rimane attoniti, vedendo come in questa terra la corruzione della religione ha reso schivi anche i migliori di una pura religione. Appariva cosí strano nelle lettere italiane un lavoro di arte senza una decisa tendenza politica, che se ne volle cercare in Manzoni una occulta, e gli si attribuí l’intenzione di dar nuova vita al guelfismo. I suoi piú risoluti avversari negavano una tale intenzione. Eppure questa politica guelfa era giá nell’Adelchi espressamente raccomandata, e giá nel Foscolo mostrammo la stessa idea, ed il governo austriaco guardava dapprima nei suoi Stati italiani con molto sospetto questa tendenza guelfa, la quale ha avuto da quel tempo una storia e continuazione letteraria e politica. Per tacere di De Maistre, di cui è conosciuta l’opposizione contro il politico equilibrio ghibellino di Vienna, questa tendenza seguirono Balbo e Carlo Troya, politici laici; il sacerdote Antonio Rosmini, che, spronato dalla filosofia inglese e tedesca, ideò un sistema metafísico, ritornò sotto diversi aspetti alle scuole cristiane del medio evo e condusse la sua applicazione a’ problemi morali e sociali fino ad un sistema gerarchico, il quale egli, il favorito di Roma, non potea immaginare che guelfo e papale. Gioberti lo combattè, piú tardi, volendo egli adoperare a nazionale progresso quel guelfismo, che De Maistre e Rosmini usarono a reazione, e fu, senza volerlo, l’appoggio di quel partito, che volea fare di Pio IX il suo strumento: di questi era Azeglio, genero del Manzoni. Solo partito che abbia avuto in Italia se non un assoluto trionfo, almeno gran séguito: pure gli schiamazzatori si ponevano dal canto de’ suoi avversarii in letteratura ed in politica. La natura e la storia del popolo italiano non gli consentirono una durevole signoria del puro [p. 174 modifica]ideale artistico, dello spirito scientifico, nella temperanza religiosa e politica, come è proprio del nord. Come nella pittura quelli stessi che seguono il romanticismo, non si sono potuti pienamente francare dalla maniera classica; cosí le piú intime qualitá della poesia nordica poterono appena trovar luogo in una terra, le cui memorie classiche non riconducono alla natia semplicitá della natura nello stato e nella societá, ma ad una civiltá morta, presso di un popolo, che non sente profonda inclinazione alla natura, alla vita campestre, alla solitudine, e nel quale il senso religioso fino dalla prima giovinezza è venuto meno sotto la corruzione gerarchica. È sempre difficile a mantenere la misura ed il freno necessario della libertá: e però i classici inglesi e tedeschi furono solo per poco tempo i modelli del romanticismo italiano. Ed anche sotto questo aspetto la letteratura tedesca era discesa assai giú. Egli è vero che il pacato contegno de’ romantici tedeschi per rispetto alla vita esteriore non poteva fin dal i794 allignare fermamente in Italia, dove in quelle vicissitudini di signorie straniere tutti gli spiriti operosi venivano attirati in quel solo scopo, e l’indipendenza nazionale era divenuta una questione di vita e di morte. Piú tardi la letteratura italiana venne meno sempre piú a questa maniera romantica, la quale in Francia ed Inghilterra partendo da quella degenerazione della forma tedesca, riuscí in una opposizione cruda e perciò anch’ella degenere. Byron fu il suo tipo, il cui moderno radicalismo dava la mano all’antico di Alfieri, e fu insieme con Foscolo il favorito della gioventú liberale, infino a che amendue furono sostituiti da Victor Hugo e Mazzini.

[Nel «Cimento», a. IlI, vol. VI, agosto i855.]

  1. Foscolo, Opere, Firenze 1850, 6, i5.