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Eugenio a suo censore; a Lione faceva l’apoteosi di Napoleone, a Pavia gli ricusava perfino le lodi di uso nel suo discorso inaugurale; lo ammirava e lo aborriva, desiderava le sue vittorie e sperava la sua caduta. Come la politica, fu la sua vita privata senza dignitá e temperanza. Cinica natura, dispregiava gli usi sociali, e nella filosofia e nella vita si mostrò indulgente a tutte le passioni. Tutto tra libri, giuoco e donne, non conobbe mai la vita regolata della famiglia; erasi fatta una legge, come Alfieri, di viver celibe sotto la tirannia, bel pretesto politico a coprire disordinati costumi, inchinevole come egli era a vita licenziosa. Era in lui discordia non solo tra i principii e la patria, ma anche ne’ principii. Nella catastrofe del i8i4 si annoiò tutto ad un tratto di politica, egli che, da giovine, aveva fatto professione di stoicismo nella vita pubblica. Gli parve non potersi piú salvare la patria neppure con mille Licurghi: tanto fracidume sanabile solo con la distruzione, e tanta meritata vergogna d’Italia incancellabile, finché i due mari non l’avessero ricoperta1. Un anno dopo, esule dalla Svizzera e di quivi nell’Inghilterra, vide le cose con piú calmo animo, ma con abbandono de’ suoi principii. Irrisore di ogni potere soprannaturale, parlava ora della necessitá della religione e della bontá della religione cattolica, credendo, come alcuni altri italiani di esperienza, sia possibile una purificazione del cattolicismo sotto il papato e la signoria dei preti. Egli giá motteggiatore de’ papi, cosí pieno di fiele, scrivea ora al cospetto d’Italia: «doversi volere fino all’ultima stilla di sangue che il sovrano pontefice, propugnacolo della religione in Europa, principe elettivo ed italiano, non solo sia lasciato esistere e governare, ma governi in Italia, sotto la protezione degli italiani». L’antico repubblicano ora consigliava la monarchia temperata, e voleva, come poi i moderati del ’30, raccogliere in un solo partito la classe media, timido della plebe, poco fidente della nobiltá, ed in sospetto delle mene settarie.

Perché, quantunque egli nel i8i4 non abbia arrossito di ordire congiure militari, per quel suo perpetuo altalenare, ruppe



  1. Foscolo, Opere, Firenze 1850, 6, i5.