Saggi critici/Memorie storiche e letterarie di Villemain
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MEMORIE STORICHE E LETTERARIE
di Villemain
Il signor Villemain ha pubblicato due volumi di Memorie. Il secondo principalmente è un libro di partito, una guerricciuola ai Bonapartisti. I partiti non sono spenti in Francia: il vulcano non è chiuso Non manda piú fuoco, ma le colonne di fumo che n’escono a quando a quando sono un ricordo del passato, ed un presentimento dell’avvenire. Il libro del Villemain è di questo genere: è una guerra ad aghi e spilli, che fa ridere gli sciocchi e fa pensare gl’intelligenti.
Il Villemain è un ingegno essenzialmente critico: privo di ogni virtú creativa, senza vigore, senz’alcuna potenza d’azione. Incapace di afferrare un tutto nella sua unitá, e di far un’analisi compiuta de’ suoi elementi, egli brilla per bellezza di pensieri e di stile. Nel suo libro non vi trovi il pensiero, T idea che feconda di sé tutto il resto; ma bene t’incontri qua e lá in pensieri ingegnosi che rimangono isolati, raggi di luce in cielo nuvoloso. Se tutto però non è ben pensato, tutto è ben detto. Il Villemain è proprio un letterato, secondo il senso antico di questa parola: ciò che a lui importa principalmente, è la rettorica, l’arte di ben dire. Nel suó periodo lentamente elaborato indovini diversi strati di formazione inferiore, per i quali è passata la sua frase; ed il suo pensiero, che non esce di getto, che deve entrare in tante frasi successive, quanto guadagna di ornamento, tanto scapita di freschezza e semplicitá. Ond’è che se il Villemain diletta gli spiriti contemplativi con tanta finitezza di eleganza, non ha potuto mai esercitare durabile ed efficace influenza, richiedendosi a questo una certa spontaneitá e calore, di cui egli ha difetto. Aggiungi le qualitá del suo carattere. Il Villemain è un uomo dabbene, ma piú passivo ammiratore, che attore, pronto a lodare i nobili fatti, ma a distanza; del resto ammiratore senza passione e senza impulso.
Tale è l’uomo, che si mescola anch’egli in questa piccola guerra. Non potendo scopertamente assalire il suo avversario, né avendo la scelta delle armi, usa con abilitá quei pochi mezzi che il sospettoso occhio imperiale discerne e non può impedire. Molta moderazione e riserbo nel linguaggio, dire cose ardite temperatamente, assalire facendo un inchino e stringendo la mano, accompagnare una severa osservazione con un complimento o un sorriso che la faccia passare, moltiplicare allusioni, ma tutte delicatissime, offendere con un’aria di «mi perdoni», avanzarsi senza fare sentire il romore de’ passi, colpire e nascondere la mano, mantenere sempre un’aria d’uomo educato e gentile che renda ridicola la collera in colui che tu oltraggi cosí amabilmente, lavorare la frase con ostinata pazienza, ora inviluppata ora trasparente, sempre misurata, dir poco si che si sottintenda molto: in tutti questi artifizi il Villemain è maestro.
Ma ciò non basta. Non basta che ci sieno delle punzecchiature, delle botte maestre. Un libro politico, che si proponga un effetto durabile, deve contenere in sé qualche cosa di sostanziale, indipendente dalle circostanze accessorie, in mezzo alle quali nasce. In che è posta la sostanza, il fondo di questo lavoro?
Il signor Villemain ha l’aria di voler raccontare le sue impressioni giovanili, spettatore de’ cento giorni. Ma non ce la dará ad intendere. Il Villemain giovane è qui modificato ed interpretato dal Villemain del i855. Sono i cento giorni narrati da un legittimista di fresca data, che si converte ad Enrico V, e pretende di rimanere orleanista, che vuole la bandiera bianca e crede alla bandiera tricolore. È l’utopia della fusione, il «Viva la libertá!» gridato dall’aristocrazia e dal clero.
Il Villemain sceglie a campo di battaglia la caduta di Napoleone ed il trionfo del legittimismo in Francia. In veritá non poteva scegliere peggio.
Per riuscire nel suo assunto ha capovolta la storia. Napoleone, l’eroe de’ cento giorni, rimane nell’ombra: di prospetto giganteggia la Camera de’ rappresentanti, che da una parte tiene sotto i piedi Napoleone, dall’altra tende la mano a’ principi alleati. Nessuno vuole Luigi XVIII, non gli alleati, non le camere, non l’esercito: ed il dramma finisce con l’entrata di Luigi XVIII a Parigi.
La Camera de’ rappresentanti è composta di bricconi e di gonzi. I bricconi vogliono Luigi XVIII, e non osano di dirlo, e si studiano di pervenire al loro fine con quelle proposte insidiose, con quell’avviluppamento di frasi, con quella ipocrisia ed equivoco di linguaggio, in che anche oggi alcuni pongono l’ideale dell’uomo politico. Di costoro il più abile ed astuto è il giovane Dupin, fiore di galantuomo, che cominciò con lo scagliare il primo sasso a Napoleone giacente, e terminò con l’abbandonare il suo posto innanzi ai soldati di Luigi Napoleone. I gonzi sognano libertá ed indipendenza: Manuel assume il tuono di Mirabeau; La Fayette vede ritornare i suoi bei tempi antichi; e fabbricano governi in carta, e schiccherano dichiarazioni di dritti, mentre lo straniero si avanza a gran passi sopra Parigi. Bricconi e gonzi erano istrumenti docili in mano di Fouché, di un traditore, che, ministro di Napoleone, corrispondeva con Luigi XVIII ed Orléans, con Wellington e Talleyrand, e nel di stesso mostrava allo straniero la via di Parigi e faceva il giacobino nella Camera. Ora il Villemain per poco non s’inginocchia innanzi ai rappresentanti, e ne fa il protagonista de’ cento giorni, ed ammira come qualche cosa di eroico la loro resistenza a Napoleone. Eppure il loro defitto fu di non avere consentito a Napoleone in quei supremi momenti facoltá di salvare la Francia, e, dopo di averlo costretto ad abdicare, di essersene rimasi a chiacchierare, senza aver preso alcun provvedimento, se non per vincere, almeno per venire a patti degni, o per cadere senza vergogna. Cosi quando essi protestando sono disciolti. nessuna pietá noi sentiamo per questi imitatori letterarii del ’9i, e, torcendo lo sguardo da loro, ci volgiamo pieni di ansietá a Rochefort, via a Sant’Elena.
Lo straniero dichiarò che facea la guerra a Napoleone, non alla Francia. Ed i rappresentanti dissero a Napoleone: — Abdicate. — Napoleone è pericoloso a Parigi, dichiarava lo straniero; ed i rappresentanti mandarono Napoleone alla Malmaison. Non vogliamo ch’egli vada in America; e la via dell’America fu chiusa a Napoleone. Fate ch’egli non evada; e Napoleone è guardato a vista. Consegnatecelo; e Napoleone è consegnato.
— Armiamoci, — diceva Napoleone, — o almeno, se non volete me, armatevi, ed una pace onorevole è possibile. — Togliamo di mezzo Napoleone, dicevano i rappresentanti, ed avremo pace e libertá ed un governo di nostra scelta. — I gonzi sei credevano; i bricconi ne faceano vista. — Sospendete la vostra marcia, e trattiamo, — proposero i commissari del governo provvisorio. I commissari sono rimandati al quartiere generale, dove non son voluti ricevere. E lo straniero si avanza.
— Sospendete la vostra marcia, e c’intenderemo. — Si, c’intenderemo, — e lo straniero si avanza. — Sospendete la vostra marcia, e faremo ciò che volete. — Farete, ma prima noi a Parigi. — È una gara di sciocchezza e di perfidia. Abborriamo i vincitori, dispregiamo i vinti. Patiscono i mah e l’onta della sconfitta senza combattere. I rappresentanti pronunziano le celebri parole: — Solo le baionette ci possono scacciar di qua.
— In Mirabeau era eloquenza; in costoro è rettorica. Il di appresso la sala è occupata, e nessuno degli eroi esce di casa. Non seppero stringersi a Napoleone. Non seppero proclamare a tempo Luigi XVIII. Non seppero resistere con gloria. Quello che potevano e dovevano, lo mostrò la Costituente romana. Allora i Francesi ebbero la stessa forza e usarono le stesse armi degli alleati. — Noi facciam guerra a Mazzini, non a Roma. Non vogliamo imporvi alcun governo. Rispettiamo le vostre libertá. Vogliamo il suffragio universale. Concederemo tutto; ma fateci entrare in Roma. — Fra i Romani non si trovarono né gonzi, né bricconi. Mazzini rimase capo, Roma fu difesa con gloria. E mentre dame francesi battevano le mani a’ Cosacchi, la plebe romana faceva le fiche a’ Francesi. Caddero i Romani, ma lasciando di valore, di concordia, di risolutezza uno di quegli esempli, che vivono nella memoria dei nipoti e preparano la vittoria.
Tale è il terreno sul quale si pone Villemain per celebrare il connubio del governo parlamentare e del legittimismo! Che cosa fu la Camera, avete veduto. E se vi dicessi, che cosa fu il legittimismo! Quali le crudeli vendette nell’interno! Quale l’abbiezione al di fuori! Parlino Ney, e la Spagna. Ma questo è un avvenire a cui non giungono le memorie del Villemain: egli si è arrestato all’ingresso di Luigi XVIII a Parigi. Eppure qual momento egli ha scelto per far brillare innanzi ai Francesi la bandiera bianca! Quella bandiera entra in Parigi, ricordo vivente di tante vergogne, e perfidie e viltá, e della patria venduta e dello straniero applaudito. Il re vi entra a braccetto con Fouché, ministro di Napoleone, capo del governo provvisorio contro Napoleone, ministro di Luigi XVIII contro il governo provvisorio.
Se il Villemain non può innalzare il legittimo, ottiene almeno di abbassare Napoleone? Non ha capito che Napoleone cadente è piú grande che Napoleone despota, vittorioso ed insolente. Il Dio di Napoleone era il successo. Sapeva simulare i piú nobili sentimenti. Ma questo attore a forza di rappresentare la sua parte aveva finito con l’affezionarvisi. La Francia egli l’amava; si era confuso con lei: il grande uomo con la grande nazione. Quando gli giunge all’orecchio il suono del cannone, sella i cavalli e si offre alla battaglia. La sua domanda commove il governo provvisorio. — Ma non capite, esclama Fouché. che se egli vince, noi saremo le prime sue vittime? — Nobile ragionamento, o piuttosto «eloquente», come lo chiama il Villemain! Poco lungi da Rochefort, egli non pensa alla sua salvezza; il suo orecchio sente il rumore della battaglia; il suo occhio è sui giornali; la sua anima è a Parigi. Tutta l’energia di una nazione dibattentesi contro lo straniero in questo punto non è nella Camera, né nel governo provvisorio: è in Napoleone. E gl’istinti del popolo non s’ingannano; dove passa, gli si battono le mani: innanzi allo straniero sentono che Napoleone è la Francia. Questa grande figura sorge in tutta la sublime maestá della sventura anche di sotto alla penna insidiosa o malevola del Villemain. Il quale non ha contro di lui che un perpetuo ritornello: — Perché lasciasti l’esercito dopo Waterloo? Abdicasti come generale, dovevi abdicare come imperatore. — Vedi un po’: il Villemain ci presenta il ritorno di Napoleone a Parigi, quasi come una diserzione! In quel solenne momento la Francia non poteva resistere, se non con una dittatura, con raccogliere sotto una sola volontá tutte le forze vive della nazione. Ecco ciò che senti Napoleone e lo menò a Parigi. La dittatura non fu consentita a lui, non fu presa dalla Camera. Si chiacchierò, finché lo straniero fu a Parigi.
Non solo è falsificata la storia, ma parmi che al Villemain sia pur fallito il suo scopo. Il suo libro è sbagliato, anche come libro politico. Oggi è tattica dei partiti abbassare tanto Napoleone, quanto si è voluto esaltarlo durante il regno di Luigi Filippo. È via senza uscita. Napoleone è oramai una grande memoria storica per il popolo francese. Non la toccate: si vede subito l’interesse che vi move, ed il lettore si mette in guardia. Ferdinando II si vantava spesso discendente di Enrico IV e San Luigi. Che volete farci? Volete dimostrarmi che Enrico IV fu un imbecille, e San Luigi un furfante?
[Nel «Piemonte», a. I, n. 2i2, 7 settembre i855.]