Roma italiana, 1870-1895/Il 1876
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Il 1876.
Una specie di panico invase Roma e le altre città italiane appena i giornali annunziarono che il Re nel ricevere i generali al primo dell’anno avesse detto: «Ringrazio l’esercito dei suoi augurii. Spero che tutti siano pronti e che nei fatti, che avverranno e ai quali l’esercito non sarà estraneo, esso possa acquistarsi nuova gloria».
Il pubblico non si era accorto che negli ultimi tempi Vittorio Emanuele, più che per il passato, dava a ogni suo discorso una certa intonazione marziale e si sgomentò di quel palese accenno alla guerra, mentre un focolare d’incendio era già nei Balcani. Per due o tre giorni dunque si fecero le più strane supposizioni, finchè la Gazzetta Ufficiale non stampò che le parole del Re erano state erroneamente riferite, e che S. M. aveva detto invece: «Vedo con la massima compiacenza i progressi continuamente fatti dall’esercito; gli auguro come sempre gloria ed onore, ed ho fede che se qualche nuovo fatto ne presenterà l’occasione, l’esercito corrisponderà alla mia fiducia ed a quella del paese».
Fra una versione e l’altra v’era molta differenza, ma è probabile che le parole del Re, dopo l’effetto che avevano prodotto, fossero state un poco variate e che la prima lezione sia la vera.
Peraltro se l’Italia non si trovò impegnata in una guerra micidiale assistè, o meglio, combatte una lotta tremenda di partiti, non scevra di vittime.
Abbiamo veduto l’esito delle elezioni sul finire del 1875. È facile immaginare come il partito, che da quelle riuscì tanto rafforzato, cercasse di rovesciare l’altro, che era al potere da quattordici anni. Il Presidente del Consiglio, per una cecità, che adesso ci appare quasi frutto della fatalità, dopo aver aperta la questione del riscatto delle ferrovie ed aver conclusa la Convenzione di Berna, lascia che per tre lunghi mesi l’opposizione ecciti il paese con il fantasma di quella grandiosa operazione finanziaria, e che la discussione su di essa si apra ovunque, senza portarla subito dinanzi al Parlamento.
Quando il Minghetti riconvocò la Camera il 6 febbraio, un gran lavorio era già stato fatto e la maggioranza, sulla quale poteva fare assegnamento dopo le elezioni, scarsa se si vuole, ma sufficiente, se fossegli rimasta fedele, a far approvare quel disegno di legge, non v’era più. La tremenda e ibrida coalizione dei toscani con la Sinistra era conclusa.
Il Re, nell’inaugurare la nuova sessione, annunziò subito il famoso riscatto e in pari tempo disse che il pareggio era raggiunto, senza aumentare le imposte. Questa lieta novella fu accolta con applausi, e il Minghetti potè illudersi che la Camera commossa da questo fatto, che era un desiderio e un bisogno per tutti, avrebbe approvato il suo piano finanziario. A presidente fu rieletto il Biancheri, sul cui nome si portavano i voti di molti, anche di opposizione, così che il Depretis non riuscì, ma la lista della Sinistra trionfò tutta nella elezione dei vice-presidenti, dei segretari e dei questori, in quella della Giunta per il Bilancio, e l’effetto che quel voto produsse su la convinzione che il Ministero era condannato, perché si era verificata la stessa coalizione fra Sinistra, Destra e Centro che aveva rovesciato il Sella nel 1865, il Menabrea nel 1869 e di nuovo il Sella nel 1873.
Il 16 marzo il Minghetti fece la sua esposizione finanziaria, che durò più di quattro ore. Al capitolo delle ferrovie esaminò il disegno del riscatto, ne fece la storia, annunziò che l’onere per la Società delle Romane sarebbe stato di 5 milioni e mezzo, per le Meridionali nessuno, per l’Alta Italia di 6 milioni. Egli indicò i vantaggi che potevano derivare dalle tariffe e dallo sviluppo del traffico, e sostenne che il Governo dovesse averne l’esercizio. Peraltro esaminò in quale forma si dovesse fare quell’esercizio, se dando alle Meridionali tutte le linee, se cercando nuove società per l’Alta Italia e per le Romane, se esercitando direttamente l’Alta Italia e le Romane, lasciando alle Meridionali il loro esercizio, se riscattando le Meridionali ed esercitando direttamente tutta la rete. Su quest’ultima ipotesi si fermò come sulla più pratica, e aggiunse che il Governo sarebbesi impegnato a presentare entro due anni il progetto di un ordinamento definitivo. Il Presidente del Consiglio concluse dimostrando che il riscatto non avrebbe per nulla alterato il pareggio: «È un grande fatto, disse, questo che ho annunziato all’Italia; è un grande fatto l’aver raggiunto questo sospirato pareggio!.. Guai a coloro che dovessero venire in quest’aula ad annunziare che il pareggio è svanito!»
Due giorni dopo l’on. Morana doveva svolgere la sua interrogazione sull’esazione della tassa del macinato. La tassa era odiosa in se stessa e applicata dal fisco con straordinaria durezza. Il Minghetti, per uscire da una situazione penosa, non volle aspettare la discussione ferroviaria, e si ostinò a porre su quella interrogazione la questione di fiducia. Il Ricasoli, il Sella e il Pisanelli gli suggerivano di dimettersi senza chiedere alla Camera un voto esplicito, che ormai potevasi considerare come dato. Sarebbe caduto il gabinetto, ma il Re avrebbe potuto scegliere nel partito di Destra i nuovi ministri. Il Minghetti non volle cedere a questo consiglio e neppure lo Spaventa. Il Ricasoli allora, vedendo inutili i tentativi da quella parte, si rivolse ai toscani, nelle cui mani stavano le sorti del partito, ma da essi non ottenne nessuna concessione, e così dal Ministero fu affrontata la grande battaglia.
Nella nostra storia parlamentare non v’è memoria di una seduta più solenne di quella del 18 marzo. Tutte le forze dei due partiti erano spiegate per il grande cimento; l’esito della battaglia non era dubbio, ma dalle tribune affollatissime si voleva assistere alle fasi di essa.
L’on. Morana fu molto mite nello svolgere la sua interrogazione, che era questa: «La Camera persuasa della necessità che la tassa sul macinato non sia perturbata, e convinta che il Ministero ne abbia, con le sue esagerazioni, compromessa l’esazione, passa all’ordine del giorno».
L’on. Minghetti rispose che la questione del macinato non era quella predominante; la vera questione esser quella del riscatto e dell’esercizio delle ferrovie, ed accusò il regolamento che aveva, con le sue lungaggini, impedito che una quistione così grave fosse discussa per riflesso. Egli chiese che la discussione della mozione Morana fosse rinviata a quando almeno gli uffici della Camera avessero esaminato il progetto ferroviario. L’indirizzo politico del paese non potersi mutare su una quistione vaga e indeterminata. Per questo non poteva accettare la discussione della mozione Morana. Cosi non poteva andare avanti, perchè da certi sintomi aveva avvertito che l’antica maggioranza, che lo aveva fino a quel giorno accompagnato e sorretto, incominciava a tentennare: «Ebbene, disse, vedrò se posseggo ancora la sua fiducia nel voto di fiducia che le chieggo. Poniamo le questioni chiaramente e nettamente. È necessario che il paese sappia chi va via e perchè va via; chi viene e perchè viene».
L’opposizione non gli dette tregua; il Depretis, qual rappresentante della vecchia opposizione, il Correnti del Centro, il Puccioni, dei dissidenti toscani, non ammisero che la discussione della mozione fosse rinviata.
La Camera era impaziente, agitata; voleva giungere al voto e prestava poca attenzione, e interrompeva l’on. Minghetti, il quale non chiedeva altro che la quistione non fosse spostata e che si votasse sulle ferrovie. «Se in ogni caso - concluse - non avremo più la vostra fiducia, ce ne andremo, ma possiamo dirvi con orgoglio che lasciamo il paese in pace ed in ottime relazioni con tutte le altre potenze; che vi lasciamo le finanze in buono stato col pareggio raggiunto. Abbiamo la soddisfazione di aver fatto lealmente quanto abbiamo creduto e potuto per il bene della patria. Vedremo quello che sapranno fare i nostri successori». Queste parole provocarono un applauso prolungato dai banchi della Destra e dalle tribune, ma il forte lottatore soccombe. La sua domanda di rinvio fu respinta con 242 no, e 181 si. Il Minghetti cadeva e con lui cadeva il governo della Destra.
Vediamo ora quali erano state le ultime cause di quella caduta.
Prima di tutto i dissensi nel campo del partito, che era al governo, le elezioni non favorevoli, poi il progetto di riscatto delle ferrovie, che per una quistione di campanile aveva staccato i toscani, sostenitori della Società delle Romane e i quali, passato il primo entusiasmo per Roma capitale, vedevano Firenze spogliata di tutte le risorse economiche, coll’accentramento in Roma non solo dei ministeri, ma di molti altri uffici, e per ultimo una sequela di piccoli incidenti e di pettegolezzi.
L’on. Puccioni volle, nella seduta della Camera, lavare i suoi amici dall’accusa di essersi scissi per quistioni d’interessi locali, ma la scissura da quelli fu motivati. Il municipio di Firenze era sulla china del fallimento e il Peruzzi, capo della deputazione toscana, era appunto alla testa del municipio.
Nulla dunque di più naturale, che lusingato forse dalle promesse di quelli che sarebbero saliti al governo, egli persuadesse i suoi amici a compiere la ibrida coalizione, senza riflettere alle conseguenze. Oltre che dalla quistione degli interessi i toscani, furono mossi a votare insieme con la Sinistra anche da un ripicco. Firenze, che era sempre stata custode delle libertà, era accusata da un pezzo di guelfismo. Il Peruzzi e il Toscanelli si erano mostrati in tutte le quistioni fra la Chiesa e lo Stato i più guelfi fra i deputati; Firenze aveva accolto i gesuiti, e i deputati di quella città vollero scagionarsi da quella accusa accettando il programma della Sinistra.
Questo il motivo del voto dei toscani, ma gli altri dissidenti oltre che dal progetto ferroviario vi furono indotti dal malcontento, che era vivo in paese, per i pettegolezzi che il Governo non aveva saputo impedire, nè far tacere. Fra questi primo va annoverato quello per la lista civile. Si sapeva da tutti che essa era male amministrata e gravata anche da oneri intollerabili; specialmente da alcuni permanenti per le molte proprietà fondiarie che le erano attribuite; altri per i lavori necessari al Quirinale. Il Minghetti presentò un progetto di legge, che non fu discusso prima delle ferie, col quale chiedeva 1,500,000 lire per la lista civile, e durante le vacanze per decreto reale fece dare alla lista civile 500,000 lire. Fece cattivo effetto quel ripiego; si disse che il Governo aveva voluto impegnar la Camera, mentre la Camera, interrogata, non avrebbe mai negato quell’aiuto, e intanto la faccenda della lista civile si faceva seria, perchè si scoprirono varie cambiali del Re con la firma falsificata.
Poi la quistione dei lavori del Tevere si cambiò in un pettegolezzo. La relazione della commissione del bilancio, udito il rapporto del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, proponeva che si dovesse rinunziare al vasto progetto di Garibaldi e che fosse stanziata nel bilancio la somma di 10 milioni per isgombrare l’alveo del Tevere e rettificarne il corso urbano. La Commissione del bilancio, di cui era relatore il Cadolini, prima però di presentare la relazione, volle il parere dei ministri, i quali dichiararono che fin da principio che si era parlato dei lavori del Tevere, il Governo aveva voluto fare soltanto quelli prettamente indispensabili, ma che in seguito, plaudendo all’iniziativa del general Garibaldi, si risolvette a fare molto più. L’ultimo progetto presentato alla Camera fu redatto con questo intendimento, perchè sapevano che Garibaldi, pur non approvandolo, non vi si sarebbe opposto. Il nuovo progetto invece, erano sicuri che Garibaldi lo avrebbe disapprovato e per questo neppure essi non lo accettavano. Nonostante queste esplicite dichiarazioni, la Commissione volle procedere al voto e si ebbero 14 favorevoli alla relazione Cadolini e 2 contrari, cioè quelli degli on. Nicotera e Lacava, i quali dissero che in questo caso erano ministeriali.
I giornali di opposizione dopo questo voto incominciarono a dire che l’on. Minghetti aveva voluto imporre a Garibaldi di aderire alla politica del Gabinetto, se gli stava a cuore l’esecuzione dei lavori del Tevere; i soliti falsi amici, ai quali il Generale prestava così facile orecchio, gli fecero apparire un giochetto la condotta del ministero ed egli inviò alla Capitale un articolo firmato, del quale riporto questo brano:
«Non siamo più in tempi nei quali l’infallibilità si nasconde nelle berrette elettorali o si dichiara da numi terreni. La verità è una sola, e con essa non può identificarsi l’errore, quand’anche venisse sostenuto da qualsiasi celebrità. La pretesa maggioranza del Consiglio superiore dei lavori pubblici e incorsa in un errore grandissimo, sia per prevenzione, sia per deferenza. Chiunque è d’avviso che il progetto della sistemazione esclusivamente interna sia da preferirsi al mio, discuta pubblicamente e ribatta le mie ragioni. La politica del silenzio e del mistero è la condanna di chi l’adotta.
«Quindi ripeto che ritenendo illegale il giudizio della pretesa maggioranza di quel Consiglio, ho diritto di protestare innanzi alla Nazione e ai poteri dello Stato, affinchè venga studiato definitivamente il mio progetto essendo il più radicale e il più economico di quanti sono stati proposti, e posso dimostrare che costa 55 milioni, mentre quello della Commissione costa almeno 72 milioni e quello del comm. Baccarini per lo meno 103 milioni».
Questo articolo fu seguito da una lettera allo stesso giornale in cui il malcontento contro il Governo si rilevava esplicitamente da questa frase: «Il Governo ha già fatto e farà ancora correre la voce che non si lavora per la mia ostinazione». A un giorno d’intervallo Garibaldi pronunziò un violento discorso, assistendo all’inaugurazione delle lapidi a San Pancrazio, discorso che provocò il sequestro dei giornali, che lo avevano pubblicato, e nel quale era contenuta la frase: «che solo onesti sono i Governi che si dicono repubblicani». In un’intervista con un redattore del Bacchiglione accusa Minghetti e Spaventa di gesuitismo e di averlo raggirato, e il 15 febbraio nella Capitale compare un articolo che smentisce che Garibaldi abbia accettato la pensione di 100,000 lire annue offertagli dal Parlamento, come dono nazionale, con legge del 27 maggio 1875. «Garibaldi non ha accettato, non accetta e non accetterà il dono, che gli vien porto da mani le quali lo rendono inaccettabile», dichiarava il giornale di casa Sonzogno; e la Ragione di Milano stampava:
«A proposito delle insinuazioni di certa stampa la quale assicurava che il general Garibaldi avesse accettato le famose 100,000 lire di rendita vitalizia assegnatagli dal Governo, il Generale stesso ad un amico, che ebbe con lui un colloquio a nostro nome il 13 corrente, rispose queste testuali parole: «Vi autorizzo a smentire formalmente tutte queste dicerie; io non le ho prese, nè le prenderò, e se pensassi a incassare qualche denaro, comincerei col chiedere al Governo il pagamento della mia goletta vendutagli, pagamento che mi venne defraudato dall’incaricato governativo, che trattò l’affare».
Questa pubblicazione avveniva un mese prima del 18 marzo.
Con una lentezza inconcepibile il Governo aveva appunto trascurato di dar corso alla legge quando il generale era in buoni, anzi amichevoli rapporti coi ministri, e ora questa lentezza era sfruttata come arma contro di loro.
Tutti questi fatti, e il malcontento per le leggi scolastiche del Bonghi, accusate di troppa fiscalità, benchè ispirate a un alto concetto, avevano portato alla caduta del partito dal potere. Ma non fu ingloriosa.
Capo della Sinistra era il Depretis, e il Re affidò subito al deputato di Stradella l’incarico di formare il nuovo Gabinetto. Furono intavolate trattative col Correnti, capo del Centro, e col Peruzzi, duce dei dissidenti toscani, ma non approdarono. Dopo 7 giorni il Depretis presentò al Re la lista del nuovo Gabinetto, così composto: Presidenza e Finanza: Depretis; Interno: Nicotera; Esteri: Melegari; Istruzione Pubblica: Coppino; Guerra: Mezzacapo; Marina: Brin; Lavori Pubblici: Zanardelli; Grazia e Giustizia: Mancini; Agricoltura e Commercio: Maiorana-Calatabiano. Tutti i capi della antica opposizione vi erano entrati, meno il Cairoli e il Crispi, quegli il più popolare fra gli uomini di Sinistra, questi il più intelligente. Appena queste nomine furono conosciute, i prefetti, i magistrati fecero pervenire le dimissioni al Governo, il cui indirizzo era così radicalmente cambiato, ma il cambiamento stesso operatosi così pacificamente e con tanta dignità per parte della Destra, mostrò che le istituzioni parlamentari avevano messe salde radici, perchè appunto nei paesi parlamentari è possibile l’avvicendarsi dei partiti politici al potere, senza che le istituzioni ne risentano. Il Re, che alla Costituzione si uniformava sempre, nel ricevere il giuramento dei nuovi ministri, disse:
«Io ho piena fiducia in lor signori e spero che lor signori ne avranno altrettanta in me».
Il 28 marzo si riaprì la Camera e gli antichi ministri ripresero i loro posti di deputati sui settori di Destra. Il Depretis, fra il silenzio della Camera, annunziò la composizione del Gabinetto e fece alcune dichiarazioni assicurando che si sarebbe studiato di propugnare da quei banchi le idee stesse annunziate nel programma di Stradella. Egli aggiunse di voler dare più sincera esplicazione alle riforme costituzionali, specialmente nelle elezioni politiche, di riformare la legge elettorale, diminuire il numero dei deputati-impiegati, dare responsabilità personale e civile ai funzionari, migliorare le condizioni degli impiegati, elevare al più alto grado possibile la dignità e l’indipendenza della magistratura. Toccando le relazioni fra Chiesa e Stato dichiarò che il nuovo ministero non sarebbe mai stato aggressivo, ma non avrebbe neppure accarezzato nessuna illusione conciliativa. Circa l’istruzione annunziò che avrebbe ripresentato il progetto di legge sulla istruzione obbligatoria; nella politica estera avrebbe proceduto con prudenza non minore di quella usata dai suoi predecessori, e avrebbe procurato che l’Italia ritrovasse nelle simpatie dei popoli civili quel consenso che già aveva ottenuto dai Governi. In quanto alle faccende militari e di marina, il nuovo ministero avrebbe seguito la via già tracciata dal generale Ricotti, dall’ammiraglio Saint-Bon; in quanto ai lavori pubblici, il nuovo ministero voleva ristudiare i lavori del Tevere, la cui attuazione doveva esser prova che l’Italia era venuta a Roma per vivervi la vita del cuore. Il Presidente del Consiglio prometteva pure di studiare i trattati di separazione delle ferrovie dell’Alta Italia da quelli dell’Austria e di vedere quello che c’era da fare, senza propugnare l’esercizio governativo, se non parziale e provvisorio. Passando poi alla questione finanziaria riconosceva che dal 1870 in poi, le finanze si avviavano a un progressivo miglioramento grazie alla generosa longanimità del veramente eroico popolo italiano, e prometteva che la esattezza nelle riscossioni e la parsimonia nello spendere, sarebbero stati i cardini della finanza, le cui entrate non sarebbero state diminuite neppur di una lira. Ma nella esazione dei tributi, aggiunse, doveva entrare soltanto la giustizia, non la fiscalità. L’on. Depretis concluse dicendo che il Governo non era un partito, ma che c’era un partito che governava per la nazione.
Vedremo il nuovo partito al governo, che è la vera pietra di paragone dei partiti. Intanto l’on. Biancheri aveva dato le dimissioni, che non furono accettate. La Camera rimase chiusa fino al 23 aprile e quando si riaprì dopo Pasqua si vide un fenomeno strano; si videro cioè gli antichi ministri, tornati deputati, appoggiare i nuovi per difendere insieme con questi l’operato del governo di Destra e si sentì l’on. Nicotera, interrogato dall’on. Paternostro sul divieto di un meeting a Mantova a proposito del macinato, sostenere che i ministri hanno diritto di proibire le riunioni quando hanno scopi contrari allo Stato; e all’on. Massari, rispondendo a una interrogazione sui fatti di Corato, dire che la società democratica di quel paese essendo davvero ispiratrice di seri disordini, come asseriva la voce pubblica, egli aveva iniziato una seria inchiesta e attendeva il risultato di essa per isciogliere la società e mandare all’autorità giudiziaria le carte.
Andata al potere la Sinistra si accorgeva di non poter governare senza far rispettare l’autorità del Governo, e se il Nicotera non voleva prevenire, sapeva peraltro reprimere, come ha sempre fatto.
Erano dunque passati all’opposizione i vecchi ministri, ma non avevano perduto la loro autorità. Quando si trattò di difendere le nuove costruzioni navali, e specialmente il Duilio, il Saint-Bon prese la parola più efficacemente del Brin, e allorché il Nicotera propose solenni dimostrazioni per la morte dell’on. Asproni, il Minghetti, con la sua esperienza parlamentare, seppe richiamarlo all’ordine e se non trionfo fu per la prevalenza numerica degli oppositori, non perchè egli non sostenesse un principio giusto e accettato.
La presentazione del progetto di legge sulla lista civile dette occasione di fare al Depretis, rispondendo al Bertani, una protesta di devota riconoscenza verso la Corona, «di quella Corona che al presente ha la minor dotazione di tutte le altre, di quella Corona che spende la maggior parte della dotazione che riceve, in opere di beneficenza ».
Una interpellanza dell’on. Cavallotti sul Libro Vero dei deputati provoca dichiarazioni del Lanza, il quale combatte la proposta di produrre alla Camera le note che avevano carattere segreto. Il Nicotera, in questa questione non appoggia la interrogazione Cavallotti, ma non ammette pure che il Governo abbia diritto di raccogliere documenti, che hanno carattere privato, nè di conservarli in archivio. L’on. Cavallotti voleva uno scandalo, ma non provocò altro che un battibecco e la Camera non dette ragione all’interrogante.
La discussione più importante che fu fatta al Parlamento, si riferì al progetto ferroviario. Con decreto Reale, il Depretis aveva ritirato il progetto Minghetti e ne aveva presentato un altro, di cui era relatore l’on. Puccini.
A Parigi dal Correnti era stato negoziato con Rothschild un articolo addizionale alla convenzione di Basilea, che portava una economia di 12 milioni sul prezzo stabilito per il riscatto, che ascendeva quasi a un miliardo, e col nuovo progetto il Governo si obbligava a dare l’esercizio provvisoriamente alla Società dell’Alta Italia, e dentro il 1877 a presentare un progetto di legge sull’esercizio delle ferrovie all’industria privata. La legge fu approvata con 334 voti favorevoli e 35 contrari, ma quante animosità non furono sfogate prima che i deputati andassero alle urne!
La Camera votò pure il progetto di legge per la reintegrazione dei gradi militari a coloro che li perdettero per causa politica, l’estensione dei diritti e pensioni ai feriti e mutilati e alle famiglie dei morti combattendo per l’indipendenza d’Italia, quello dei punti franchi, la convenzione fra il duca di Galliera e il Governo per il porto di Genova, la legge sui maestri, quella sul porto di Spezia e l’altra sul permesso di vendita dell’Orto botanico alla Lungara, per riunire a Panisperna tutti gli edifici scientifici della capitale. Questo fu difeso dal Baccelli e dal Sella contro il Toscanelli, che sfogando la sua bile verso il deputato di Cossato, lo rimproverava di voler fare di Roma il cervello d’Italia. L’on. Toscanelli voleva che il cervello fosse egualmente ripartito fra tutte le membra. Questo sproposito scientifico, pronunziato con la petulanza che era propria del deputato di Pontedera, fece ridere l’assemblea.
La Camera prese le vacanze alla fine di giugno, il Senato più tardi.
Vediamo ora come si estrinsecasse in quell’anno la vita di Roma. - Fin dal principio dell’anno il Municipio occupavasi della costruzione dei mercati e specialmente di quello del pesce, o ordinava che fossero presentati dei progetti, uno dei quali fu pure eseguito, ed è quello di San Teodoro, votava di partecipare con 50,000 lire alla costruzione del palazzo delle Belle Arti, accordava 250,000 lire per la ferrovia Roma-Nemi, apriva una scuola elementare a pagamento nel Collegio Romano, con cinque classi, per quegli alunni che volessero continuare gli studi nelle scuole tecniche o nei ginnasi, si occupava degli ospedali, delle costruzioni, ma con lentezza e disordine, per modo che poco si faceva. Una proposta del consigliere Menabrea, peraltro, fu attuata con grande rapidità. Consisteva nel costruire un cavalcavia sulla strada di Sant’Ignazio per riunire la biblioteca Casanatense alla Vittorio Emanuele. Il lavoro fu pronto per il 14 marzo, giorno della inaugurazione della biblioteca. Quella festa, cui assisteva il Principe Ereditario insieme col fiore della cittadinanza romana, dette occasione al Bonghi di pronunziare il suo ultimo discorso come ministro; dotto, elegante ed elevato discorso, che strappò lunghi applausi agli invitati.
L’ultimo atto del Bonghi fu la chiusura della Università Vaticana o Pontificia e del Collegio Scientifico del Palazzo Altemps. Fu una provvida misura, perché quei giovani illusi, ai quali si rilasciavano certificati, che non avevano nessun valore legale, si sarebbero trovati in seguito senza mezzo di guadagnarsi l’esistenza, non potendo servirsi di quegli attestati. Che fosse una misura desiderata anche da essi lo prova il fatto che 60 studenti chiesero al professor Blaserna, rettore dell’Università, di essere ascritti nei corsi di medicina, ma non avendo neppur la licenza liceale, dovettero prenderla.
Roma, oltre la biblioteca moderna, aveva inaugurato con molta solennità le due sezioni della Corte di Cassazione nella sala detta di Pompeo, nel bel palazzo Spada, ov’è ora il Consiglio di Stato. Anche a quella inaugurazione assistè il Principe, al quale il Re affidava sempre la cura di rappresentarlo, e il Vigliani, bel parlatore e dotto magistrato, pronunziò in quell’occasione un discorso, affermando la necessità della Cassazione unica. Rivolto al Principe aggiunse che S. A. dava prova di nutrire sentimenti uguali a quelli del suo avo Vittorio Amedeo, il quale sentenziava due essere i poli dello Stato: le armi e la legge.
In quell’inverno, i ministri di Germania, di Francia, d’Austria, di Spagna, di Russia e d’Inghilterra, aspettavano di essere inalzati al grado d’ambasciatori, come alcuni furono infatti, e dettero molti ricevimenti. Il signor Keudell riuniva la società romana molto spesso al palazzo Caffarelli per udir l’esecuzione di buona musica e per fare onore ai suoi illustri connazionali, il maresciallo Moltke il Mommsen e il Gregorovius. Prima che terminasse l’anno, venne pure Riccardo Wagner e dinanzi a lui suonò il maestro Sgambati ed ebbe vive congratulazioni. Ai ricevimenti al palazzo Caffarelli assisteva sempre la principessa Margherita, che andava pure al palazzo Farnese e all’ambasciata di Spagna, alle serate che vi dava il conte Coello, diplomatico amantissimo dell’Italia, che non abbandonò più Roma e costruì dopo una bella villa nel quartiere dei Prati.
I Principi Reali ricevevano ogni mercoledi, come al solito, e alla fine del carnevale dettero un ballo in maschera a tutti i piccoli amici del Principino di Napoli. Vi erano i Calabrini, i Somaglia, il piccino di Noailles, vestito da guardia di Luigi XIV, i Teano, gli Sforza-Cesarini e altri, tutti graziosissimi.
Riceveva pure e dava concerti l’elegante signora Minghetti, che aveva una bella voce di contralto e cantava con miss Trolopp.
I Teano offrirono un gran ballo alla principessa e al principe di Reuss, ma il carnevale non tu molto brillante. A Gregorovius e al maresciallo Moltke furono fatti molti onori. Gregorovius ebbe la cittadinanza romana dietro proposta di molti insigni cittadini e l’accettò con grande riconoscenza. Moltke era venuto a Roma per riposarsi, ma condusse una vita attiva quasi come nel 1852, quando fece i celebri studi sulla campagna romana. Il Re aveva addetto alla sua persona il maggiore conte Taverna, che era stato all’ambasciata a Berlino e lo conosceva, e a Corte ebbe le più festose accoglienze. I Principi lo invitavano al loro pranzo di famiglia per risparmiargli la fatica dei banchetti ufficiali, ed il maresciallo vi andava volentierissimo, attratto dalla simpatia che provava per il principe Umberto e per la giovane Principessa. Il Sella, presidente dei Lincei, fece assistere il Maresciallo a una solenne seduta del dotto istituto, alla quale erano presenti pure il Mommsen e il ministro degli Stati Uniti, signor Marsh. In quella seduta fecero letture l’Amari, il Fiorelli, il Carutti, il De Petra, l’Helbig e il Ferri, e quindi lo stesso Sella dette in onore di Molthe un banchetto all’albergo del Quirinale, al quale invitò tutti gli accademici italiani e stranieri presenti a Roma. Raramente si è visto una più eletta riunione di scienziati far omaggio, senza distinzione di nazionalità, a una illustrazione della scienza come il Moltke.
Il Gadda, appena cambiato l’indirizzo politico del Governo, aveva dato le dimissioni, e
Da un affresco del Maccari | Fotografia Alinari | |
I FUNERALI DI VITTORIO EMANUELE AL PANTHEON |
In primavera vennero a Roma il principe e la principessa Carlo di Prussia, che furono trattati dalla Corte più come parenti che come amici. Abitavano all’albergo Bristol, preferito sempre di poi dai Principi di Germania. Poco dopo il loro arrivo, giunsero pure da Napoli il Re e la Regina di Grecia insieme con i loro figli, col Principe e la Principessa ereditari di Danimarca e col Principe di Glücksburg, fratello del re Cristiano IX, cioè loro zio. Avevano un seguito numerosissimo e abitavano in piazza di Spagna all’albergo di Londra. La Regina di Grecia aveva allora venticinque anni ed era bellissima ed elegante, e fu molto ammirata al Quirinale in occasione del banchetto che il Re dette in onore di tutti questi ospiti augusti.
Però verso i Sovrani di Grecia la Corte fu soltanto cortese, con i Principi di Prussia si mostrò veramente affettuosa. A loro disposizione erano state poste quattro carrozze di Corte e il principe Umberto e la principessa Margherita li accompagnavano nelle gite, e offrirono loro una colazione sulla via Appia, e quasi ogni sera li convitavano a pranzo. La Principessa era anziana, piccola, tutta vivacità, e si mostrava sempre molto amica dell’Italia. Anche a Berlino andava a ogni ricevimento del conte di Launay e vi conduceva le nipoti. Il Principe, archeologo e artista, compiva il suo quindicesimo e ultimo viaggio in Italia. Dava, come diceva allora, l’addio alla terra classica delle arti. Da ognuno di questi viaggi riportava in Germania preziosi ricordi artistici e ne ornava il suo castello di Glinike, che pareva un museo di antichità. Egli parlava anche italiano e nel visitare gli scavi e i lavori della via Nazionale domandò al Cicerone perchè non vi erano alberi sul secondo tratto. Il brav’uomo non volle rispondergli che il Municipio non aveva voluto, e invento che i proprietari si erano opposti che vi venissero piantati minacciando di non fabbricare. «Bravo il Municipio! — rispose il Principe - accetta così facilmente la legge dai proprietari».
Altri ospiti, non principeschi, ebbe Roma nell’aprile. Venne qui da Torino la deputazione dei Veterani del 1848-49, guidata dal marchese di Villamarina, padre del marchese di Montereno e già ambasciatore a Parigi durante l’alleanza franco-italiana. Quella deputazione recava in dono la bandiera mandata dal Comitato dei Veterani di Torino al Comitato di Roma. La consegna del glorioso stendardo, che ricorda tanti fatti d’arme, si fece in Campidoglio, e appena il popolo lo vide sventolare, intuonò gl’inni patriottici che nel 1848 infiammavano i cuori italiani. Il marchese di Villamarina pronunziò un discorso commovente a nome dei 4000 veterani di cui si componeva il sodalizio torinese. «Questo stendardo - egli disse - è oggi simbolo di pace e di buona armonia con tutti.... pero sta scolpito nei cuori: Guai a chi lo tocca! Se mai venisse a taluno il solletico di volerci togliere la preziosa conquista, che ci costò tanto sangue e tanti sacrifizi.... di toglierci la cara, l’ambita nostra Roma, io non dubito che attorno a questo glorioso vessillo tornerebbe a formarsi l’Italia militare, come già si formò l’Italia indipendente».
Alle parole del marchese di Villamarina rispose il Sindaco, ricordando i sentimenti che legavano Roma a Torino e assicurando che la bandiera dei veterani sarebbe stata custodita con venerazione in Campidoglio, ara santa delle grandi memorie.
Altri parlarono e il popolo interrompeva quei discorsi acclamando a Roma e a Torino, legate dalle memorie del passato e dalla fede nell’avvenire della patria.
Un grande avvenimento si compì fuori di Roma, ma la Corte, il Governo e il Parlamento vi assisterono e fu salutato con giubilo da tutta la nazione. Alludo al varo del «Duilio» la grande nave che iniziava il rinnovamento della marina da guerra, la nave che ha servito di modello a tante altre e che ci fu per molto tempo invidiata dalle altre nazioni.
Dopo che la Sinistra era salita al potere, Garibaldi tornava sulla scena animato da sentimenti benevoli verso il nuovo ministero. Il Bersagliere, che era il giornale del ministro dell’interno, pubblicava il 9 aprile infatti una lettera del Generale, diretta al Depretis. Quella lettera diceva:
«Dopoche Re Vittorio Emanuele ha dato nuova e solenne riconferma della sua fede allo Statuto Costituzionale ed al plebiscito della volontà nazionale, mutando i suoi consiglieri in ossequio al voto del Parlamento, ed attestando la sua fiducia in voi ed in altri miei amici pel governo dello Stato, debbono cessare le mie ripugnanze all’accettazione del dono, che a me fu fatto con spontanea generosità dalla Nazione e dal Re, e che mi porrà in grado di concorrere in prò di Roma alla spesa dei lavori del Tevere.
«Non mi resta dunque che esprimere pubblicamente all’Italia ed al Re la mia gratitudine ed invocare con tutte le forze dell’animo mio un compenso assai più splendido e gradito al poco che ho fatto pel mio paese, quello cioè che l’Italia ben governata, proceda ognora migliorando nelle condizioni di moralità, di libertà e di pubblico bene.
«G. Garibaldi».
Questa lettera non ebbe l’approvazione del partito repubblicano. Federico Campanella, capo di quel partito, pubblicava nel Popolo di Genova, un articolo in cui diceva: «che la sua povertà era un aureola di gloria che stendeva una pietosa nube sulle mancanze del di lui carattere» e più sotto continuava:
«Le furie monarchiche seppero tirar così a lungo, così forte e così bene, che a poco a poco dall’alto piedistallo in cui era, lo fecero scender giù giù, sino al loro livello. Arrivato fino a quel punto, gli fecero recitare un Credo monarchico della più pura ortodossia, lo assolsero dalle sue vecchie peccata repubblicane e, confortatolo con tutti i sacramenti del Bene Inseparabile, gli diedero finalmente la stretta fatale! Indi, straziato com’era, lo presentarono al popolo, esclamando con beffardo sogghigno: Ecce Homo!
«L’assassinio era consumato! Nelle mani di quei manigoldi.... (orribile a dirsi!) l’uomo eccezionale, il Cincinnato moderno, il sublime mendico, era sparito, ed altro non restava.... che...? un pensionato della monarchia!»
Il generale Garibaldi offeso, rispose a quella diatriba con la seguente lettera, diretta, al solito, alla Capitale:
- «Caro Dobelli,
«Vogliate, vi prego, pubblicare le linee seguenti dirette al signor Campanella e compagni:
«Io giammai appartenni ai repubblicani da ciarle, pugnai sempre per le Repubbliche di fatto quindi non v’è defezione.
«G. Garibaldi».
Lo Zanardelli, dal ministero dei lavori pubblici, si dava premura di appagare le vedute del general Garibaldi, rispetto al disegno dei lavori del Tevere, e aveva anche chiamato a conferire al ministero i consiglieri comunali e provinciali amici del Generale, non sappiamo se coll’intento di rimuovere il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici dalla sua opposizione, oppure per indurre Garibaldi ad accettare quello che il Governo poteva accordare. Ma Garibaldi fremeva, istigato com’era dai progettisti, che non gli davano tregua, e tanto per far qualcosa per ingannare l’attesa, mandò la seguente proposta ai deputati suoi colleghi:
«Quando una fortezza assediata, od una nave in ritardo si trovano mancanti di viveri, i comandanti ordinano si passi dall’intera alla mezza razione o meno. In Italia si fa l’opposto: più ci avviciniamo alla bolletta e più si cerca di scialacquare le già miserissime sostanze del paese.
«Io sottopongo quindi alla sagace vostra considerazione e approvazione la proposta di legge seguente:
«Finchè l’Italia non sia rilevata dalla depressione finanziaria, in cui indebitamente è stata posta, nessuna pensione, assegno o stipendio, pagati dallo Stato, potranno oltrepassare le cinque mila lire annue».
Il Governo fece portare dal Prefetto, dinanzi al Consiglio Provinciale, i lavori dei Tevere, affinchè prendesse una risoluzione circa al progetto di Garibaldi e a quello della Commissione conforme ai voti del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Il consigliere Vitaliani, appoggiandosi sui pareri degli uomini d’arte, propose si stabilisse d’incominciar l’opera dal tronco urbano, l’ingegner Partini fu della stessa opinione, ma siccome il consigliere Agosti prese le difese del progetto Garibaldi dicendo che non si doveva dargli con una deliberazione un voto di biasimo, il consigliere Baccelli propose la sospensiva, finchè non si fosse udito il parere degli ingegneri provinciali e finchè il Consiglio non avesse maturamente studiata la questione.
Peraltro il parere non fu udito e lo studio fu breve, perchè il giorno seguente il Consiglio Provinciale votava alla quasi unanimità la proposta della Commissione, che cioè i lavori dovessero incominciare dal tronco urbano, per preservare la città dalle inondazioni, senza danno di quelli che si sarebbero potuti fare a quello suburbano.
Un voto simile era dato dal Consiglio comunale; così l’on. Depretis, che aveva atteso a far presentare alla Camera il progetto di legge, poteva, scevro da ogni responsabilità, deporlo sul banco della presidenza. E infatti il giorno dopo subito l’on. Zanardelli lo presentò chiedendo fosse dichiarato d’urgenza.
Il progetto fu votato dopo pochi giorni dalla Camera e dal Senato, ma tutta quella fretta spiegata all’ultimo momento dal Depretis aveva una ragione.
Garibaldi aveva dato in quel volger di tempo le dimissioni da consigliere comunale e da deputato; le prime non furono neppur comunicate dal Sindaco alla Giunta; le seconde le ritirò dopo le deliberazioni dei due Consigli e quando, alla vigilia della presentazione del progetto di legge alla Camera, il presidente del Consiglio, armato delle due deliberazioni, potè indurlo a calmarsi dimostrandogli che il Governo doveva piegare il capo.
Garibaldi partì ai primi di giugno per Caprera, non certo pago, ma ammutolito, perchè fra i suoi amici contava uomini, che erano al Governo ed era circondato da persone aderenti al ministero. Se fosse avvenuto sotto il ministero Minghetti quello che avvenne allora, si sarebbe proclamato ai quattro venti che Garibaldi era stato giocato, e si sarebbero convocati comizii di protesta.
Gli amici degli amici di Garibaldi erano al potere e la consegna era il silenzio, e difatti il Generale non presiedė prima di partire neppure il comizio dei disoccupati al Corea, perchè il Depretis lo fece consigliare di astenersi.
Se nel fondo del cuore Garibaldi non era contento, neppure il Papa gioiva. Passato il primo momento di dolorosa meraviglia dopo l’annunzio del cambiamento d’indirizzo politico nel Governo, Pio IX aveva sperato che la Sinistra avviasse l’Italia sulla via del disfacimento morale e materiale, ma mentre le cose camminavano per il momento quasi come per il passato, non poteva notare altro che una palese ostilità nei rapporti con la Chiesa, vedendo che il nuovo ministro di Grazia e Giustizia aveva presentato la legge contro gli abusi del clero, e il Nicotera proibiva le processioni, mentre in ossequio al principio della libertà di stampa lasciava che l’Osservatore Romano riproducesse il discorso del cardinal Ledochowski offensivo per l’imperatore di Germania, che lo aveva punito per le sue ribellioni allo Stato.
Monsignor Mermillod, che aveva fatto più male che bene alla Chiesa a Ginevra, e il Ledochowski, erano di continuo al Vaticano. Il primo fece anche alcune prediche niente affatto di carattere politico e neppur molto religiose. Parlava piuttosto come uno di quegli eleganti conferenzieri francesi, che si rivolgono specialmente al pubblico femminino e lo dilettano con la blandizia delle idee, che espongono, sapendo vestirle di forma gentile. Il Ledochowski non era uomo da far conferenze, ma il Papa se lo teneva caro perchè lo informava degli avvenimenti grossi e piccini che costituivano le fasi del «Kulturkampf».
Dopo una lunga assenza tornò anche il cardinal Hohenlohe, con poco piacere di Pio IX. Contrario al dogma della infallibilità, scelto dal principe di Bismarck come ambasciatore di Germania, il cardinale gli rammentava troppo che quella nazione avevalo punito del rifiuto di volerlo accettare sopprimendo la rappresentanza presso il Vaticano e inalzando quella presso il Quirinale al grado d’ambasciata. Il cardinal Hohenlohe non si afflisse della poco festosa accoglienza ricevuta. Egli riprese a menar la vita del gran signore, a protegger gli artisti, a frequentare la società, dividendo il tempo fra gli studi e le conversazioni.
Nell’inverno i pellegrinaggi non erano stati numerosi, come il Papa aveva sperato, ma in primavera, in estate e in autunno i fedeli vennero a frotte da più paesi, anche lontani e portarono doni e danaro in gran copia.
Pio IX potè riceverli, scendere nella basilica Vaticana e far celebrare continue funzioni, senza che l’ordine fosse mai turbato. Il ministro dell’interno esercitava una speciale vigilanza perchè voleva dimostrare che dal Governo della Sinistra, meglio ancora che da quello della Destra, si sapeva far rispettare la legge.
Ma se il Papa ebbe in quell’anno molte gioie, se vide prostrati dinanzi a sè i pellegrini di Francia, di Germania, del Belgio e della Spagna, ebbe anche dolori non lievi. Uno profondo glielo procurò monsignor Di Giacomo, vescovo d’Alife, venendo a sedere al Senato. L’Osservatore andò su tutte le furie per quel fatto, ma le sue invettive non approdarono a nulla. Monsignor Di Giacomo tornò al Senato pochi giorni dopo, e allora il Papa gli proibì di dir messa nelle chiese di Roma. Il senatore mitriato chinò allora la testa e in Senato non si vide più.
In primavera già si diceva che il Ministero avrebbe fatto le nuove elezioni e la Destra sentì il bisogno di riunirsi attorno a una bandiera, e di eleggere un capo. Per voto unanime, benchè egli non volesse, fu eletto il Sella, che pronunziò un notevole discorso all’Associazione Costituzionale Romana. Ma il partito, che aveva preso il nome di Opposizione di Sua Maestà, non si segnalava per eccessiva attività. Come tutti i partiti, che si sono sentiti per molto tempo maggioranza, non vedeva l’utilità della propaganda e della stretta unione. Però, nonostante l’inerzia di cui dette prova per le elezioni parziali amministrative, diversi fra i suoi candidati riuscirono eletti, e fra questi anche don Leopoldo Torlonia, che si professava del partito di Destra. Egli era stato nominato gentiluomo della Principessa di Piemonte e i moderati salutarono la sua elezione come una vittoria. Dopo pochi mesi si dimetteva dalla carica che occup:rva alla Corte e passava con armi e bagaglio al partito, che era al governo.
L’estate passò tranquilla a Roma in attesa delle elezioni politiche; i ministri si assentavano ogni tanto per qualche giro elettorale, ma non quanto quelli precedenti, perchè quasi tutti gli uffici dei loro dicasteri erano alla capitale, ed essi non avevano bisogno di esser sempre su e giù fra Roma e Firenze.
Al contrario del Minghetti, che era patrizio per indole e per educazione, elegante e raffinato di gusti, il nuovo presidente del Consiglio aveva tendenze e consuetudini assolutamente borghesi. Abitava allora in due stanzette in via Belsiana e non le abbandonò quando salì al potere. Pranzava fuori di casa, ma si vuole che facesse colazione con salame paesano, che teneva in una cassa sotto il letto. Quando sposò donna Amalia andò ad abitare in un quartiere ammobiliato nel palazzo Caraffa in via Condotti. Il quartiere non era molto elegante e neppure molto vasto. Siccome il suo matrimonio fu concluso poco dopo che prese la presidenza del Consiglio, si diceva scherzando, che era divenuto consorte.
Egli continuò anche dopo ammogliato la semplice esistenza. Anche assediato dalle cure dello Stato, teneva da sè l’amministrazione di casa. Voleva che il 30 di ogni mese i fornitori gli portassero il conto, e non era passato un giorno che li aveva esaminati e saldati. Aveva piacere di vedere donna Amalia ben vestita, ma non le avrebbe concesso di fare spese pazze. La sua casa era regolata come un cronometro; era una vera casa borghese, senza lusso e senza etichetta.
Ospite quasi fisso di casa Depretis era il comm. Breganze, suo capo di gabinetto; ma del resto non dava pranzi nè ricevimenti. Si coricava presto e leggeva a letto. i dispacci e i rapporti, facendoli aprire da donna Amalia, che aveva per lui cure continue. Non era vecchio quando salì al potere, ma l’andatura grave, la lunga barba incolta, le spalle curve e la poca cura che poneva nel vestire, lo facevano apparire inoltrato negli anni. Non aveva neppure una bella voce e parlava fra i denti con spiccato accento piemontese, per modo che i suoi discorsi si capivano poco, ma era acuto nel dire e non disdegnava di ricorrere ai frizzi quando si accorgeva di poter ottenere una vittoria sull’avversario, facendo ridere la Camera.
Come oratore non poteva competere col Minghetti, che aveva una chiarezza meravigliosa d’idee e le vestiva di forma elegantissima. Il Minghetti era artista anche quando esponeva o esaminava un bilancio; in nessuna discussione, per quanto aspra, egli trascendeva. Umanista sempre e come tale cultore devoto della forma, aveva una calma veramente inglese. Non toglieva mai la mano destra dallo sparato della sottoveste per fare un gesto d’impazienza, non alzava mai la voce quando si sentiva contraddire. Per via diversa questi due campioni della tribuna dominavano le assemblee; il deputato di Destra con l’imperturbabile calma e la stringente e chiara argomentazione, quello di Sinistra con la scaltrezza insuperabile. Dal banco dei ministri si divertiva talvolta a scherzare con gli avversarii, come il gatto con i topolini.
Il Nicotera vinceva forse come prontezza di percezione il presidente del Consiglio, ma la foga meridionale gli nuoceva. Prendeva di petto gli avversarii, mentre il Depretis li circondava e li stancava barcamenandoli. Impetuoso negli affetti e negli odii, aveva tutti i pregi e tutti i difetti dei meridionali. Per questo non seppe serbarsi al ministero. Era forte allora e nel pieno vigore della vita, e sentendosi potente, ne abusava. Aveva rimproverato ai suoi predecessori il Libro Nero sui deputati, ma egli sorvegliava gli avversarii e li faceva sorvegliare da agenti, e nelle elezioni, che il Depretis aveva proclamato dovessero farsi senza ingerenza governativa, s’ingerì moltissimo. Nel suo ufficio al ministero aveva fatto praticare una porta, che metteva su una scaletta segreta. Da quella salivano da lui gli agenti segreti, che non voleva s’incontrassero con i deputati o con le altre persone che lo visitavano. A quella porta vi era un campanello elettrico, che rispondeva nel gabinetto del ministro. Appena il campanello squillava, il Nicotera congedava chiunque fosse da lui e andava da se ad aprire. Così poteva ricevere chi voleva, senza destar sospetti nè far nascer pettegolezzi. Egli voleva saper tutto e vi riusciva. Era informato anche esattamente di tutto quello che avveniva negli altri ministeri e dentro il Vaticano.
Prima delle elezioni, che dovevano farsi in novembre, egli andò a Caserta e pronunziò un discorso, annunziando la riforma elettorale, ma non promise che sarebbe stata attuata subito.
Il Depretis quasi contemporaneamente ne pronunziò uno a Stradella e andò più oltre del Nicotera, forse perchè fra l’uditorio vi era Benedetto Cairoli, che egli non voleva disgustare. Si disse che vi era dissidio fra il presidente del Consiglio e il Nicotera e forse era vero, perchè il Nicotera era intollerante di qualsiasi autorità, e spesso faceva di sua testa, senza curarsi della opinione del Depretis. Quei due uomini avevano educazione troppo diversa per capirsi.
Il discorso di Stradella, ebbe per Roma una singolare importanza, perchè in esso il Depretis annunziò che si sarebbe subito attuato il progetto dei lavori del Tevere, e che il Governo avrebbe aiutato finanziariamente Roma negli altri lavori edilizi. La speranza negli aiuti governativi aveva tenuto da diversi anni sospesa Roma.
Il Sella, nel discorso che fece alla associazione costituzionale romana, difese l’operato del suo partito rispetto a Roma. Egli disse anzi, ripetendo una frase felice, che ne aveva voluto fare il cervello d’Italia e per questo appunto era nata la gelosia del Peruzzi e dei toscani, che aveva portato al voto del 18 marzo.
Le elezioni generali sospesero naturalmente per un certo periodo di tempo la vita italiana. I partiti erano intenti a radunare le forze e nessuno occupavasi d’altro che di ordinarle, affinchè si accingessero alla lotta. Alla vigilia delle elezioni, la Gazzetta d’Italia pubblicò la famosa autobiografia del Nicotera, che essa chiamava beffardamente l’Eroe di Sapri. Il giornale fu sequestrato, sequestrato il Cittadino Romano, che avevala riprodotta. Il ministro dell’interno dette querela alla Gazzetta e scelse per suo difensore l’avvocato Puccioni, uno dei toscani dissidenti di destra, il Pancrazi prese l’avvocato Andreozzi e s’impegnò quella lotta terribile che costò al giornalista di Cortona la prosperità del giornale, che era fino allora il più diffuso d’Italia, e la propria per conseguenza. Il Pancrazi, dopo una serie di dolorose vicende, è morto all’ospedale di Santo Spirito nel 1893, senza che il Nicotera avessegli mai perdonato.
A Roma il partito del Governo portava Garibaldi, Ratti, Guido Baccelli, Ranzi e Pianciani; l’altro Garibaldi pure, Samuele Alatri, Bosio di Santa Fiora, Augusto Ruspoli e il conte Giacomo Lovatelli. La prima lista uscì dalle urne intera e lo stesso avvenne quasi ovunque. La vittoria del ministero fu completa, ma l’ingerenza governativa non era mancata certo; il Nicotera, dopo aver messo a capo di ogni prefettura creature sue, si era ingerito, molto più dei precedenti ministri dell’interno, per il trionfo dei suoi candidati.
Per festeggiare la vittoria si voleva fare a Roma una dimostrazione al grido di «Viva il Re! Viva Garibaldi!» e v’era stato un invito per riunirsi in piazza Venezia recando fiaccole la sera del 13 novembre, ma il Nicotera non vedeva di buon occhio le dimostrazioni, e fece dire da Menotti Garibaldi agli intervenuti di sciogliersi.
Presidente della nuova Camera fu eletto Francesco Crispi. Si vuole che una vecchia ruggine col Nicotera lo avesse tenuto lontano dalla cosa pubblica e che in seguito a una riconciliazione col ministro dell’interno egli fosse stato portato candidato del Governo alla presidenza.
Prima che il Re inaugurasse la nuova sessione, morì a San Remo, consumata da una lenta malattia, la Duchessa d’Aosta. Per questo il Duca, che avevala assistita con immenso affetto e ne piangeva amaramente la perdita, non potè assistere alla seduta reale. Venne invece il principe Eugenio di Carignano, che non era stato ancora a Roma.
Per cura della Casa Reale furono fatti alla Duchessa solenni funerali nella chiesa del Sudario e il Municipio ne ordinò altri alla chiesa dell’Ara Coeli, ai quali assistettero pure i Principi di Piemonte e tutto il corpo diplomatico.
Il Re nell’inaugurare il Parlamento accennò al recente lutto di famiglia, aggiungendo che «cercava la migliore delle consolazioni nel compimento di un dovere». Non mancò nel discorso reale una dichiarazione di piena fiducia ai nuovi ministri, e questo provocò grandi applausi.
1l Papa oltre al dolore cagionatogli di recente dalla pubblicazione del canonico Guglielmo Audisio, del capitolo Vaticano, intitolato Della società politico-religiosa rispetto al secolo XIX, ne ebbe un altro ben più profondo il 7 novembre. Quella mattina alle 7 moriva in Vaticano il cardinale Giacomo Antonelli, già segretario di Stato sotto Gregorio XVI, e che non aveva abbandonato Pio IX neppure nel 1848, quando dovette cedere il potere al ministero presieduto dal conte Mamiani.
Anche negli ultimi giorni della sua vita, il cardinale Antonelli si faceva portare ogni giorno dal Papa e con lui sbrigava gli affari. Due giorni prima di morire riceveva il nuovo ambasciatore di Francia, signor Baude, e il giorno avanti la morte scendeva nel quartiere di Pio IX per dargli conto delle varie somme ricevute dai pellegrini spagnuoli. Mentre parlava col Papa fu assalito da un violento attacco di gotta al petto; i conti rimasero sospesi e il cardinale fu trasportato nella sua camera. Il male era gravissimo; gli furono amministrati i sacramenti, e il Papa volle rivederlo e gli portò la benedizione in articulo mortis. L’agonia del Cardinale fu lunga e penosa. Egli spirò in mezzo alla sua famiglia, che lo aveva assistito con amore durante la malattia; il fratello Angelo anzi gli era costantemente a fianco da molto tempo.
Il cardinale Antonelli, così inviso ai liberali italiani nel periodo del nostro risorgimento, era nato a Sonnino il 2 aprile del 1806 e aveva fatto a Roma gli studi teologici. Monsignor Liverani, celebre per i suoi libelli contro la Corte papale scriveva: «Un solo vanto non si può rifiutare ad Antonelli, è, cioè, l’arte di reggere al comando di un pontefice, che già diè prova di mutare volentieri ministri, e il segreto di arricchire ad ogni costo».
I contemporanei gliene riconoscono un altro molto maggiore; quello cioè di avere impedito, a molti secoli di distanza un’altra fuga ad Avignone. Se Pio IX resistè alle sollecitazioni del de Merode e dei Gesuiti, che lo spingevano a lasciare il Vaticano, è merito esclusivo del cardinale Antonelli, che gli rappresentò sempre quella fuga come una macchia per il Papato. Prontissimo di mente, egli aveva nelle maniere qualcosa di affascinante, come tutti i ciociari, e nascondeva facilmente la tenacia dei propositi sotto il velo di una cortese arrendevolezza. Per questo poté resistere a fianco di Pio IX, che non voleva esser contraddetto da nessuno.
Il Cardinale lasciò un vastissimo patrimonio diviso in tre parti eguali ai suoi tre fratelli, e piccoli legati ai nipoti; legò pure ai fratelli la magnifica collezione di gemme e pietre preziose, che aveva raccolta con passione per molti anni, non con criterio di archeologo, ma che non per questo aveva minor valore. I doni dei Sovrani erano inestimabili e gli anelli che aveva ricevuto da essi arricchirono la sua collezione. Egli aveva pure molte ambre del secolo XVI pregevolissime. Al Papa lasciò un bel crocifisso di lapislazzuli e avorio. Si vuole che il testamento dell’Antonelli sia un documento storico importante.
Il corpo del Cardinale fu trasportato di notte tempo al Campo Verano, ove la cappella della sua famiglia, dalle bronzee porte, era appena terminata. Il Papa fece celebrare in suffragio dell’anima del defunto solenni funerali alla Traspontina e a Santa Maria in via Lata, della quale il defunto era patrono.
Ho taciuto delle avventure galanti del cardinale Antonelli e non solleverei certo quel velo steso sulla sua vita privata se non fossi costretta di accennare al processo intentato agli eredi dalla contessa Lambertini, la bellissima donna che ha fatto parlar tanto di sè a Roma per molti anni. La Contessa si diceva figlia del Cardinale e di una dama straniera. Subito dopo la morte, essa reclamò i suoi diritti alla cospicua eredità e ne nacque un clamoroso processo svoltosi durante molti anni.
Due altri dolori colpirono il vecchio Pontefice. Venne a mancare ai vivi il principe don Giovanni Ruspoli, assistente del Santo Uffizio e fedelissimo al Vaticano, e il vecchio cardinale Patrizi, vicario di Roma, senese di origine, e devoto anch’esso al Pontefice. Il giorno prima che il Cardinale spirasse, il principe Luigi Napoleone e l’ex-imperatrice Eugenia erano giunti a Roma e abitavano alla villa Bonaparte. Il Principe, rammentando che il cardinale Patrizi avevalo tenuto a battesimo, per procura avutane dal Papa, volle vederlo; ma il Cardinale era già entrato in agonia, e il suo desiderio non potè essere appagato.
Il primo incontro fra l’ex-Imperatrice dei Francesi e Pio IX fu commovente. La Sovrana spodestata, che forse rammentava che appunto la sua inalterata fedeltà al Pontefice aveva costato al marito l’impero e la vita, si gettò ai piedi di Pio IX e vi rimase lungamente singhiozzando.
Il Papa si affrettò a nominare un successore al cardinale Antonelli nella persona del cardinale Simeoni, nunzio a Madrid, ne dette subito uno al Vicario di Roma, e fu il cardinale Monaco La Valletta, tuttora vivente, ma che non occupa più quella carica, coperta ora dal mantovano cardinale Parrocchi. L’Amat succedette al Patrizi nel decanato del Sacro Collegio. La salma del Cardinale fu tumulata nella villa Patrizi fuori di Porta Pia per essere trasferita dopo dieci anni, come vuole la legge, nella chiesa di Santa Maria Maggiore.
L’ex-Imperatrice dei Francesi e il figlio andarono dopo il Vaticano al Quirinale e furono ricevuti dai Principi. Il patriziato romano dette in loro onore molti pranzi seguiti da ricevimenti. L’Imperatrice era indisposta e non andò altro che in casa Primoli, nelle cui sale si videro per la prima volta gli ambasciatori presso il potere spirituale e temporale. Il Principe andò anche in casa Roccagiovane, in casa Gabbrielli e dagli Sforza-Cesarini, ove incontrò il principe Umberto col quale parlò lungamente.
Il principe Luigi aveva bello il volto, che arieggiava quello della madre, un tempo bellissima, ma infelice il personale. La redingote, che portava quasi sempre, per il soverchio sviluppo del busto a danno delle gambe, gli formava attorno ai fianchi come una sottana. Ma questo difetto si dimenticava appena egli apriva bocca, perché gli occhi dell’uditore erano attratti verso il volto, che da insignificante si faceva espressivo. Non parlava molto, ma giustamente, però non si mostrava mai preoccupato di far la parte di oracolo. Quello che diceva era spontaneo e semplice, ed evitava sempre di alludere al passato, quasi la sua vita fosse incominciata dal giorno che aveva preso la via dell’esilio.
Egli vide tutto a Roma, e nel dopo pranzo dava sempre una capatina allo Skating Palace, luogo di ritrovo di quel tempo, ove si trovavano riunite le più belle ragazze di Roma, come le Della Rocca, le due Stefani, una delle quali sposò poi l’ing. Pio Piacentini, e l’altra il capitano Aymonino, ora generale. Il principe Luigi non aveva imparato neppure a Firenze a patinare, ove allora lo Shating era in gran voga, e cadeva ogni momento. Un giorno cadde lungo disteso ai piedi di una gaia signorina, che vedendolo in terra non seppe reprimere il riso. Il Principe, ridendo pure, disse: «Per un pretendente al trono di Francia non è un bell’augurio».
La questione d’Oriente fece venire a Roma anche il marchese di Salisbury, inviato dalla regina Vittoria alla conferenza di Costantinopoli. Egli andò al Quirinale e parlò col Re e col ministro Melegari, e pare fossero discussi gli affari orientali e la probabilità di una guerra.
Il Marchese di Salisbury viaggiava insieme con la moglie, la figlia, quattro segretari, due corrieri e numeroso stuolo di domestici. Abitava all’albergo di Alemagna in via Condotti, e a Roma fecero le meraviglie vedendo quanto sfarzo spiegava l’ambasciatore inglese.
Roma aveva subito una perdita irreparabile. In autunno era morta Erminia Fuà Fusinato, la poetessa gentile, che dal sentimento vivo di giovare all’educazione delle giovinette aveva tratta la forza e la pertinacia per creare la Scuola Superiore Femminile. Erminia Fusinato fu molto pianta, ma la sua opera, poichè era nata vitale, le sopravvisse, e anche in quell’anno le iscrizioni alla scuola furono numerose.
Sul principio dell’inverno si ebbe a Roma il Congresso Ginnastico con inaugurazione della Palestra all’Orto Botanico e gran concorso di gente; si ebbe l’inaugurazione del piccolo teatro Manzoni in via Urbana, e si vide terminato il palazzo delle Finanze. La trasformazione di Roma continuava.