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Questo articolo fu seguito da una lettera allo stesso giornale in cui il malcontento contro il Governo si rilevava esplicitamente da questa frase: «Il Governo ha già fatto e farà ancora correre la voce che non si lavora per la mia ostinazione». A un giorno d’intervallo Garibaldi pronunziò un violento discorso, assistendo all’inaugurazione delle lapidi a San Pancrazio, discorso che provocò il sequestro dei giornali, che lo avevano pubblicato, e nel quale era contenuta la frase: «che solo onesti sono i Governi che si dicono repubblicani». In un’intervista con un redattore del Bacchiglione accusa Minghetti e Spaventa di gesuitismo e di averlo raggirato, e il 15 febbraio nella Capitale compare un articolo che smentisce che Garibaldi abbia accettato la pensione di 100,000 lire annue offertagli dal Parlamento, come dono nazionale, con legge del 27 maggio 1875. «Garibaldi non ha accettato, non accetta e non accetterà il dono, che gli vien porto da mani le quali lo rendono inaccettabile», dichiarava il giornale di casa Sonzogno; e la Ragione di Milano stampava:

«A proposito delle insinuazioni di certa stampa la quale assicurava che il general Garibaldi avesse accettato le famose 100,000 lire di rendita vitalizia assegnatagli dal Governo, il Generale stesso ad un amico, che ebbe con lui un colloquio a nostro nome il 13 corrente, rispose queste testuali parole: «Vi autorizzo a smentire formalmente tutte queste dicerie; io non le ho prese, nè le prenderò, e se pensassi a incassare qualche denaro, comincerei col chiedere al Governo il pagamento della mia goletta vendutagli, pagamento che mi venne defraudato dall’incaricato governativo, che trattò l’affare».

Questa pubblicazione avveniva un mese prima del 18 marzo.

Con una lentezza inconcepibile il Governo aveva appunto trascurato di dar corso alla legge quando il generale era in buoni, anzi amichevoli rapporti coi ministri, e ora questa lentezza era sfruttata come arma contro di loro.

Tutti questi fatti, e il malcontento per le leggi scolastiche del Bonghi, accusate di troppa fiscalità, benchè ispirate a un alto concetto, avevano portato alla caduta del partito dal potere. Ma non fu ingloriosa.

Capo della Sinistra era il Depretis, e il Re affidò subito al deputato di Stradella l’incarico di formare il nuovo Gabinetto. Furono intavolate trattative col Correnti, capo del Centro, e col Peruzzi, duce dei dissidenti toscani, ma non approdarono. Dopo 7 giorni il Depretis presentò al Re la lista del nuovo Gabinetto, così composto: Presidenza e Finanza: Depretis; Interno: Nicotera; Esteri: Melegari; Istruzione Pubblica: Coppino; Guerra: Mezzacapo; Marina: Brin; Lavori Pubblici: Zanardelli; Grazia e Giustizia: Mancini; Agricoltura e Commercio: Maiorana-Calatabiano. Tutti i capi della antica opposizione vi erano entrati, meno il Cairoli e il Crispi, quegli il più popolare fra gli uomini di Sinistra, questi il più intelligente. Appena queste nomine furono conosciute, i prefetti, i magistrati fecero pervenire le dimissioni al Governo, il cui indirizzo era così radicalmente cambiato, ma il cambiamento stesso operatosi così pacificamente e con tanta dignità per parte della Destra, mostrò che le istituzioni parlamentari avevano messe salde radici, perchè appunto nei paesi parlamentari è possibile l’avvicendarsi dei partiti politici al potere, senza che le istituzioni ne risentano. Il Re, che alla Costituzione si uniformava sempre, nel ricevere il giuramento dei nuovi ministri, disse:

«Io ho piena fiducia in lor signori e spero che lor signori ne avranno altrettanta in me».

Il 28 marzo si riaprì la Camera e gli antichi ministri ripresero i loro posti di deputati sui settori di Destra. Il Depretis, fra il silenzio della Camera, annunziò la composizione del Gabinetto