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mesi si dimetteva dalla carica che occup:rva alla Corte e passava con armi e bagaglio al partito, che era al governo.

L’estate passò tranquilla a Roma in attesa delle elezioni politiche; i ministri si assentavano ogni tanto per qualche giro elettorale, ma non quanto quelli precedenti, perchè quasi tutti gli uffici dei loro dicasteri erano alla capitale, ed essi non avevano bisogno di esser sempre su e giù fra Roma e Firenze.

Al contrario del Minghetti, che era patrizio per indole e per educazione, elegante e raffinato di gusti, il nuovo presidente del Consiglio aveva tendenze e consuetudini assolutamente borghesi. Abitava allora in due stanzette in via Belsiana e non le abbandonò quando salì al potere. Pranzava fuori di casa, ma si vuole che facesse colazione con salame paesano, che teneva in una cassa sotto il letto. Quando sposò donna Amalia andò ad abitare in un quartiere ammobiliato nel palazzo Caraffa in via Condotti. Il quartiere non era molto elegante e neppure molto vasto. Siccome il suo matrimonio fu concluso poco dopo che prese la presidenza del Consiglio, si diceva scherzando, che era divenuto consorte.

Egli continuò anche dopo ammogliato la semplice esistenza. Anche assediato dalle cure dello Stato, teneva da sè l’amministrazione di casa. Voleva che il 30 di ogni mese i fornitori gli portassero il conto, e non era passato un giorno che li aveva esaminati e saldati. Aveva piacere di vedere donna Amalia ben vestita, ma non le avrebbe concesso di fare spese pazze. La sua casa era regolata come un cronometro; era una vera casa borghese, senza lusso e senza etichetta.

Ospite quasi fisso di casa Depretis era il comm. Breganze, suo capo di gabinetto; ma del resto non dava pranzi nè ricevimenti. Si coricava presto e leggeva a letto. i dispacci e i rapporti, facendoli aprire da donna Amalia, che aveva per lui cure continue. Non era vecchio quando salì al potere, ma l’andatura grave, la lunga barba incolta, le spalle curve e la poca cura che poneva nel vestire, lo facevano apparire inoltrato negli anni. Non aveva neppure una bella voce e parlava fra i denti con spiccato accento piemontese, per modo che i suoi discorsi si capivano poco, ma era acuto nel dire e non disdegnava di ricorrere ai frizzi quando si accorgeva di poter ottenere una vittoria sull’avversario, facendo ridere la Camera.

Come oratore non poteva competere col Minghetti, che aveva una chiarezza meravigliosa d’idee e le vestiva di forma elegantissima. Il Minghetti era artista anche quando esponeva o esaminava un bilancio; in nessuna discussione, per quanto aspra, egli trascendeva. Umanista sempre e come tale cultore devoto della forma, aveva una calma veramente inglese. Non toglieva mai la mano destra dallo sparato della sottoveste per fare un gesto d’impazienza, non alzava mai la voce quando si sentiva contraddire. Per via diversa questi due campioni della tribuna dominavano le assemblee; il deputato di Destra con l’imperturbabile calma e la stringente e chiara argomentazione, quello di Sinistra con la scaltrezza insuperabile. Dal banco dei ministri si divertiva talvolta a scherzare con gli avversarii, come il gatto con i topolini.

Il Nicotera vinceva forse come prontezza di percezione il presidente del Consiglio, ma la foga meridionale gli nuoceva. Prendeva di petto gli avversarii, mentre il Depretis li circondava e li stancava barcamenandoli. Impetuoso negli affetti e negli odii, aveva tutti i pregi e tutti i difetti dei meridionali. Per questo non seppe serbarsi al ministero. Era forte allora e nel pieno vigore della vita, e sentendosi potente, ne abusava. Aveva rimproverato ai suoi predecessori il Libro Nero sui deputati, ma egli sorvegliava gli avversarii e li faceva sorvegliare da agenti, e nelle elezioni, che il Depretis aveva proclamato dovessero farsi senza ingerenza governativa, s’ingerì moltissimo.