Ricordi del 1870-71/Un addio a Firenze

Un addio a Firenze

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UN ADDIO A FIRENZE.

[Firenze, 27 giugno 1871.]


La ragazza. Io non t’avevo cercato, e tu sei entrato in casa mia con un piglio da padrone, trovando a ridire sopra ogni cosa e affettando dispregio per tutto quello che ho di più caro. Pedante uggioso, che non sei altro! Nella tua città non c’è un quadro e una statua fatta dai tuoi; le case son tutte d’un colore; tu poi, parlando, non pronunzi una lettera doppia a pagartela uno scudo; e credi d’aver fatto tutto tu a questo mondo! E dici che io sono indietro d’un secolo! Sei un tanghero.

Il ragazzo. E tu una fiaccona vanagloriosa, che ti gonfi dei meriti dei tuoi vecchi. Nella tua città non c’è modo di mangiare due uova assodate a dovere (storico), non c’è marciapiedi, non c’è il negozio Perotti e Nigra; tu poi, parlando, ti mangi i c, e dici straporto invece di trasporto; e vanti le aure miti del tuo paese, mentre ci tira un vento che sbatte la gente ne’ muri.

Ragazza. Io son bella e colta.

Ragazzo. Io son forte e onesto.

Ragazza. Nientemeno!

Ragazzo. Sicuro!

Popolo. Si acciuffano, separateli, si possono far del male; badate che la morde nel collo.

Un tale (dopo averli separati).

Niente paura, sono due impostori bricconi. Non l’ha mica morsa, l’ha baciata. (Risa generali.)

(Da una commedia recente, intitolata: Doveva finir così.)


Un Piemontese che deve andare a Roma tra poco, sentì il bisogno, qualche giorno fa, di mandar un saluto alla città di Firenze, e pensò di mandarglielo dalla cima della collina di Fiesole. [p. 2 modifica]

Una di queste sere, poco prima del tramonto, prese la via di porta a Pinti, solo soletto, come un pellegrino, e tirò innanzi a capo basso, almanaccando. La strada era deserta. Egli, che vi era passato molte volte nei giorni di festa, quando vanno e vengono tante famigliuole di operai, e brigatelle di giovani, e coppie d’innamorati, e villeggianti, e carrozze, quella sera, non vedendo anima viva, si sentiva prender dalla malinconia. Andava su a passo lento, si fermava dinanzi ai cancelli chiusi delle ville, dinanzi alle chiesuole, ai tabernacoli, ai muri scarabocchiati col carbone; girava tratto tratto uno sguardo sulla campagna dai punti più alti; per tutto era quiete e silenzio. Incontrò qualche povero, inciampò in una vecchia addormentata sullo scalino di una porta, arrivò a San Domenico, e su, per la strada più corta.

Per tutta la salita non si voltò mai a guardar Firenze. Non voleva sciuparsi l’effetto del colpo d’occhio più bello da godersi lassù, dinanzi al convento. — Poichè è l’ultima volta che la vedo, — pensava, — la voglio veder bene, tutt’a un tratto, come al cader di un velo. E faceva tra sè quei ragionamenti fanciulleschi che si fanno in tali occasioni, quasi per darsi un’illusione di sorpresa: Cosa si vede di lassù? Che città c’è nel piano? Dove sono? Dove vado?

Arrivato in cima, accanto al muricciolo, prese fiato, e poi si voltò tutto a un tratto verso Firenze.

Lo spettacolo quel giorno era più stupendo che mai. Il cielo lucido e quieto di una pace allegra; una striscia di nuvole color d’arancio all’orizzonte; il resto puro; le cime delle colline lontane pareva che fendessero l’azzurro; una freschezza primaverile spirava nell’aria. Sotto, tutto quel saliscendi di poggi e di vallette, simile a un solo immenso prato depresso qua e là, lievemente, come dal premere d’una mano carezzevole, mossa da una fantasia capricciosa; tutto un verde leggiero, variato sui punti eminenti dal [p. 3 modifica]verde cupo dei cipressi, disposti a file e a corone; interrotto da prati fioriti; listato di strade, di viali, di sentieri bianchi, che s’incrociano, si inerpicano sulle cime, precipitano dal lato opposto, e spariscono e riappariscono in distanza; casette, gruppi di case, ville su tutti i rialzi, nette, spiccate, che par che i colli le buttino innanzi per porgerle; oltre la città un vastissimo piano, coperto d’una nebbia leggiera, traverso alla quale biancheggiano le case lontane, come vele sul mare; e su tutta questa sterminata corona di colli, di villaggi, di ville, di giardini, ogni cosa che par che guardi a Firenze, e voglia scendere e precipitarle nel seno; l’ossatura d’una città immensa che non si può traveder compiuta senza un senso di spavento; uno spettacolo pieno di bellezza che fa pensare, e di maestà che sorride.

— Mah! — esclamò il giovane con un sospiro, sedendosi sul muricciuolo colle spalle volte a Firenze, per raccoglier meglio i suoi pensieri; è pure una dura legge che, quando s’abbandona una città, oltre al dispiacere di separarsi dagli amici e di rompere molte abitudini che erano diventate care, uno si debba accorgere che vi sono ancora da sciogliere altri legami; dei legami che lo tengono attaccato ai muri delle case, ai piedestalli delle statue e agli alberi dei viali.... Cinque anni! Mi par d’essere arrivato a Firenze ieri. Era una brutta giornata, nevicava, non c’era anima viva per le strade. Mi parve una città malinconica. Uscito appena dalla stazione, infilai via dei Panzani; diedi un’occhiata, passando, a via Tornabuoni: con quelle case di colore scuro mi fece l’effetto d’una strada tetra; andai oltre, vidi il Duomo, mi affacciai a via dei Servi: mi parve un corridoio di convento; tirai innanzi fino a via San Sebastiano: peggio. Mi sentivo soffocare in quelle stradette, mi pareva che vi mancasse l’aria e la luce; m’uggivano tutte quelle casuccie, addossate le une all’altre, strette come persone che si pigino, con quelle [p. 4 modifica]porticine che paion buche; una casa alta come una torre, una bassa come una capanna, una grossa, una mingherlina, una avanti, una indietro, tutte di sghimbescio, come buttate là a caso..... Piovve per molti giorni. Io stavo in via Pietra Piana, verso la porta, e passavo dell’ore alla finestra, guardando nella strada, solo e pensieroso. Ad ogni sbatter di porta, la casa tremava tutta come se volesse cadere. — Ci restassi sotto! — dicevo — tanto ho da crepare di malinconia....

Poi venne il bel tempo, e col bel tempo l’umore allegro.

Passarono tre o quattro mesi.

Un bel giorno osservai che per andare da casa all’ufficio ero passato ogni mattina per la stessa via; mi meravigliai di non aver pensato a prenderne un’altra, me ne domandai la ragione. — Forse, dissi tra me, è l’effetto di quella tal casa che vedo di scorcio sulla cantonata, appena son fuori della porta. Sarà fors’anco la chiesa che c’è di rimpetto. O son le finestre del palazzo accanto a casa mia, che guardo sempre. O i bassorilievi del palazzo più piccolo ch’è vicino alla chiesa. O sono tutte queste cose insieme. — Poi, fermandomi in mezzo a una piazza, mi venne fatto di domandarmi che cosa fosse che mi tratteneva, in quel certo punto e in quel certo modo, coll’aria e col sentimento di chi sta in casa sua; perchè mi pigliasse la voglia di appoggiare le spalle al muro e di finire il mio sigaro in pace; come non mi potessi trattenere dal chiamar gli amici che passavano, e attaccar discorso, e far crocchio, e sciupare in chiacchiere una mezz’ora. Cercai di spiegare a me stesso il perchè avessi contratto l’abitudine di rallentare il passo a quella tal svoltata, di guardare intorno su quel tal crocicchio, di andar oltre col viso in aria.....

Una mattina mi accorsi con sorpresa di avere nel capo, distinte una ad una, le immagini d’una cinquantina di case di strade diverse, delle quali avrei [p. 5 modifica] saputo dire, senza rischio di sbagliare, il colore della facciata, la forma delle finestre, il disegno degli ornati. Guardai meglio quelle case, ripassandoci davanti; e più le guardavo, più mi pareva che avessero tutte un’aria propria, che so io? un significato, un qualcosa che mi faceva pensare. L’una sentivo che l’avrei scelta di preferenza per invitarvi degli amici a cena, e menarvi una vita allegra: mi pareva che sorridesse. In un’altra ci sarei stato più volentieri a studiare, solo, raccolto, con una gran biblioteca: aveva un aspetto grave. In una terza pensavo che non ci si potesse vivere che facendo all’amore: tanto aveva le forme snelle e la tinta gentile. Gli architetti di quelle case bisognava che fossero giovani simpatici; dovevano aver voluto dir tutti qualche cosa con quei disegni; s’erano fatti tutti capire. Man mano che passavo per quelle vie, mi si affollavano alla memoria versi, scene di romanzo, episodi storici, ariette d’opera. E alzando gli occhi ai palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi grandiosi, mi cominciava a parere strano che, in luogo d’ispirare quell’ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi, costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole l’effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi che s’usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel ninnolo, come: — Gentile, carino. Guardando quelle torri, quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo uno stranissimo desiderio, come di fare scorrere la mano su quei contorni, di palpare quei rilievi; e con questo desiderio, una specie di sollecitudine gelosa per quelle moli enormi di pietra, come se temessi che la menoma forza le potesse offendere e sciupare; e con questa sollecitudine, un bisogno vivo e continuo di correrle e di ricorrerle con quello sguardo d’amante che avvolge, e striscia, e lambe, e si stanca sulle forme care.

— Ma queste linee si muovono, — esclamavo tra [p. 6 modifica] me — v’è qualche cosa che si stacca e va su; c’è della vita in quelle forme! — Cominciai a capire certi amori ardenti per le glorie artistiche del proprio paese, e mi compiacqui nel sorprendere sul viso degli stranieri, che si fermavano sulla piazza, la prima espressione della meraviglia e del diletto. Presi l’uso di passare e di fermarmi tutti i giorni, a quell’ora, in quei luoghi. Mi accorsi che ogni giorno quella contemplazione di pochi istanti mi metteva in un corso d’idee alte e belle; sentii poi che la facoltà di quella maniera di diletto si rafforzava e s’estendeva ad altre forme dell’arte; che quel gusto del semplice e del grande s’insinuava anche un po’ nel sentimento e nel giudizio mio riguardo a cose che coll’arte non avevan che vedere, a fatti, a persone, a costumi; mi parve d’essere riuscito, per effetto di quel culto gentile, a domare certi moti impetuosi e quasi selvaggi dell’animo mio, a dare alla mia indole un che di più liscio e di più morbido, a migliorarmi in qualche cosa. Per questo presi ad amare quelle linee, quelle forme, quei colori; e non mi pareva più pazzo il Pieruccio dell'Assedio di Firenze che, povero e abbandonato, trova ancora un palpito di gioia segreta, sollevando gli occhi pieni di lacrime ai monumenti della sua cara città natale....

Questo seguì a me ed a molti. Ma per chi sia venuto qui nel fiore della giovinezza, con quell’irresistibile bisogno di aprire il proprio cuore e di gridare: — Guardate! — che ci assale appunto negli anni in cui si comincia a esser uomini e si è tuttavia un po’ fanciulli; — per chi sia venuto qui coll’intima coscienza di esser atto a qualcosa, senza saper che, nè come, nè quando; con un presentimento confuso, con un desiderio inquieto, con quella forza dentro che s’agita, e tenta e non rinviene l’uscita; per chi, essendo venuto qui in quello stato, abbia sentito, al lume di questo cielo e all’ombra di questi monumenti, squarciarsi come un [p. 7 modifica] velo che gli avvolgeva l’ingegno, tutte le facoltà ravvivarsi con impeto e ordinarsi con armonia, e dal tumulto, prima infecondo, della mente e del cuore, prorompere per la prima volta, rozzi, ma ardenti e liberi, gli affetti, i pensieri, le immagini; — per chi sopratutto abbia raccolto qui, con lungo amore, le forme e le parole in cui potesse significare ed espandere l’animo suo, affratellandosi col popolo per sorprendergliele sulle labbra, ricominciando qui, per così dire, un’altra infanzia, rinnuovando quasi la sua natura, aspirando continuamente, avidamente, quest’aura vergine della vita italiana, per farsene sangue, e informarsene il cuore e il cervello, superbo oggi d’esservi riuscito, disperato domani di non riuscirvi, ma sempre risoluto, ostinato e appassionato; per costui non ci sarà nè parola nè omaggio che basti a significare l’affetto e la gratitudine che deve sentire per Firenze, sua ispiratrice e maestra.

Quando, a tarda notte, nel silenzio della sua cameretta, dopo un lungo lavoro condotto con furia febbrile egli sentiva il bisogno di smorzare il fuoco che gli ardeva le fibre, Firenze gli diceva: — Vieni! — e gli offriva la splendida pace delle sue notti serene, l’Arno colorato di fuoco e il bel colle di San Miniato illuminato dalla luna; e in quello spettacolo gentile e solenne, l’anima sua si quetava. E quando, dopo aver lungamente faticato e sudato invano per dar forma e vita a un concetto riposto o a un’immagine bella che gli appariva in barlume alla mente, egli buttava la penna sconfortato e si slanciava fuori di casa, Firenze, offrendogli allo sguardo i miracoli dell’arte affollati nella sua piazza famosa, gli diceva: — Ecco la bellezza! — ed egli in quella bellezza confortava e appagava l’animo, pensando ch’ella era italiana, e il suo orgoglio umiliato d’artista moriva senza dolore nell’orgoglio legittimo e santo di cittadino. E quando egli in certi momenti di sfiducia desolata e di abbattimento mortale piangeva la sua provata impotenza [p. 8 modifica] e le sue speranze deluse, Firenze gli diceva: — Migliaia di giovani, e quanto migliori di te! io vidi, fra le mie mura, lasciar cadere la mano disperata sopra un foglio bagnato di lagrime o sopra un marmo spezzato; dolori che straziano il cuore, e gettano anzi tempo nella tomba, io conobbi e nascosi; ed erano anime grandi. E tu, miserabile, che pretendi, e chi accusi? — E allora egli si ravvedeva e taceva, e da quella confusione salutare traeva nuova forza e nuovo coraggio per combattere, perseverare e soffrire.

A questo punto, preso da un’ispirazione diversa, il nostro amico si voltò improvvisamente alla campagna ed esclamò in atto drammatico, non senza un leggiero accento di tristezza: — Addio, dunque, bel colle di Settignano! addio Pratolino! addio Sesto! addio vallette verdi, chiesuole solitarie e casuccie quete, che ci avete fatto dire tante volte: — Beata la pace! — Stanchi d’una baldoria carnevalesca, annoiati degli altri e di noi, tristi, umiliati, noi ci siamo levati molte volte innanzi l’alba, e slanciati con desiderio smanioso alla campagna, come l’assetato alla fonte; e correndo di colle in colle, di valle in valle, e bevendo a lunghi sorsi deliziosi l’aura pregna di vita, abbiamo sentito sparire tristezze e rimorsi, e rinascere, coll’appetito vigoroso e la gaiezza campagnuola, la forza e l’ardor del lavoro! Addio contadini cortesi, vecchierelle allegre e ragazzotte col damo negli occhi, che sedeste tante volte a tavola con noi, come vecchi amici; buona gente cordiale, che spalancavate gli occhi meravigliati, vedendoci cavar di tasca il portafoglio per notare le ingenue grazie del vostro celeste linguaggio; e addio voi pure bambinelli scalzi, di cui ci chinavamo a raccogliere le parole come le note d’un canto sommesso, addio a tutti! Nessuno di noi vi ricorderà senza rimpiangervi! Dalle sponde del Tevere, rivolando col pensiero alle sponde del Po, ci soffermeremo sempre in riva all’Arno, per mandarvi un saluto, sempre!.... [p. 9 modifica]Qui l’amico si fermò, si turbò, e stette qualche minuto immobile, col capo basso, occupato da un pensiero tristo. Poi alzò la fronte corrugando le ciglia, coll’aspetto di chi afferra il filo di una reminiscenza lontana, e riprese a bassa voce:

— ... Piazza Castello pareva un mare di teste; c’era mezzo il popolo di Torino. Migliaia di voci cantavano l’inno di Goffredo Mameli. L’entusiasmo toccava il furore. Centomila visi erano rivolti alle finestre dove stavano i deputati della Toscana. La gente gridava loro cose, là sotto, che faceano venir freddo; tendeva le braccia come s’essi avessero a gettarsi giù, e li volesse prendere. Si voleva vederli, e vederli ancora, e poi tornare a vederli. — Fuori! — si gridava con accento di preghiera; — vada qualcuno a pregare che si mostrino ancora una volta! Pregateli che ci parlino! Li vogliamo conoscer bene! — I loro nomi correvano di bocca in bocca; alcuni erano di famiglie antiche ed illustri, imparati già nelle storie, o intesi nelle scuole, nomi solenni, che si pronunziavano con riverenza; altri non saputi mai, ma pur cari per quel suono, per quell’impronta paesana, che li faceva riconoscere alla prima. Si cercavano nella folla i pochi Toscani ch’eran venuti coi deputati, si correva intorno a loro con una curiosità infantile, si voleva sentire il loro accento decantato, si ripetevano le loro parole, si scambiavano i lei e i chiel con una dimestichezza che pareva antica.

Il nome di Fiorenssa, come si diceva, questo nome al quale il popolo, benchè l’avesse sì poco famigliare, era pure sempre usato ad unire l’immagine di qualcosa di gentile e di augusto, si ripeteva allora con amore; Firenze, già creduta tanto lontana, pareva che si fosse avvicinata ad un tratto, che fosse lì, ai confini, colle sue belle cupole e le sue belle torri; Dante! Michelangiolo! Machiavelli! e gli altri grandi nomi rivenivano alla mente e sulle labbra, anche dei popolani, con un senso nuovo, quasi come nomi di gente viva, di cui que’ [p. 10 modifica] deputati ci avessero portato un saluto o un ricordo. Firenze! Si travedevano colla mente, a questo nome, delle legioni di scultori, di pittori e d’architetti, che ci gridavano: — Viva! — da lontano, agitando scalpelli, tavolozze e corone. Oh come si conoscevano tutti senz’averli mai veduti! E come si sentiva la solennità di quell’istante, la fusione di quei due popoli e di quelle due storie! Era il Piemonte, il vecchio soldato, abbronzato dal sole e coperto di cicatrici, che deponeva un bacio sulla fronte bianca e splendida della madre delle arti; della quale dieci anni prima, a Curtatone, aveva potuto stringere appena, e di sfuggita, la mano insanguinata. Erano due grida sublimi, uno partito da Santa Croce e l’altro da Superga, che si mescevano in un solo: — Ecco il giorno! Oh non c’erano freddezze allora! non ci erano rancori!

— Freddezze? — riprese di lì a poco, quasi meravigliato d’essersi lasciato sfuggire quella parola; — rancori? Ma che! — continuò scrollando il capo e sorridendo, — ma chi lo crede? chi ne parla più? chi se ne ricorda ancora? Le famiglie piemontesi, forse, che si vedono, per le case e per le vie, mostrarsi le une alle altre i loro bimbi di cinque anni, che parlano il più puro e argentino toscano che si sia inteso mai, ridendone come d’una cara sorpresa e parlandone con una compiacenza non scevra d’alterezza? O le loro donne di servizio che quando c’è confusione in mercato dicono che «non ci si raccapezzano?» O i rivenditori di giornali della stessa provincia, che rifanno il verso ai nuovi venuti, perchè non gridano ancora coll’accento paesano? Sogni! interrogateli. — «Signore! — vi risponderanno: ella ritorna molto addietro; qui son nati i nostri figliuoli e i nostri fratelli più piccoli; in questa lingua e in questo accento ci chiamarono la prima volta e ci dissero le prime parole; qui ci abbiamo amici, fidanzati, parenti; in Santa Croce c’è il nostro Alfieri; che domande la ci fa? Questa è Italia, signore! La città dove siam nati ci è sacra; ma anche Firenze è cara, e l’amiamo.» [p. 11 modifica]

Questo diranno; e vi soggiungeranno anco molti, che non partono col cuore lieto, che prevedono dei giorni e dell’ore in cui si ricorderanno di Firenze con una tenerezza piena di malinconia e di desiderio; perchè qui si son stretti dei cuori, molti, e con nodi tenaci, come segue sovente fra chi s’è tenuto il broncio un bel pezzo. Rancori? non è vero, è una calunnia per tutti: per chi parte e per chi resta; lo so di certo, io, lo vedo ogni giorno, lo sento ogni momento. Come? chi è che brontola laggiù? chi è che alza le spalle? avanti, se c’è ancora qualcuno da questa parte o dall’altra; spingiamoli in mezzo, a vedere se osano dirselo in viso; e che le donne e i ragazzi, che amano, perdonano e dimenticano, li costringano a levar le mani di tasca, e a tenderle di qua e di là, e gridino: — Stringete! — Animo, giù il cappello, ancora una volta, davanti a Santa Croce; un ultimo sguardo alla cupola, e un saluto intorno alle colline, e addio, e via, col cuore riconoscente e sereno. Per Dio! chi ha ancora un po’ d’amaro nell’anima, non è un galantuomo....

Ed ora do il mio ultimo saluto a Firenze anch’io.

Così dicendo, s’alzò, si voltò verso la città, e mise una voce di sorpresa. S’era fatto buio senza ch’egli se ne accorgesse, e tutta la valle era popolata di lumi. Provò quell’impressione stessa che si prova talvolta, girando per la campagna di notte, quando si guarda giù, senza pensarci, dall’orlo d’un’altura, e si vede la china, di cima in fondo, sorvolata da una moltitudine immensa di lucciole, che la fan parere tutta accesa. Così tutti quei lumi, a socchiudere appena gli occhi, si confondevano in un solo strato luminoso, che rendeva l’immagine d’un gran lago di fuoco. Dalle lunghissime file dei fanali della cinta, simili a ghirlande tese intorno alla città, altre file di lumi si stendevano dentro e fuori, diritte, curve, incrociate; altre interrotte qua e là, altre continue come un raggio di luce, altre nascoste quasi affatto dagli alberi, dietro a cui [p. 12 modifica] si vedeva uno splendore diffuso, come d’incendio; altre vicine, che parevano a pochi passi; altre lontane, visibili appena, or sì or no; e nel piano e sui colli, per tutto fiammelle, e gruppi di punti luminosi, e tremoli bagliori; un bellissimo cielo stellato, pareva, riflesso da una vasta acqua cheta.

— Ah! — esclamò il nostro amico dopo qualche istante di mutua contemplazione agitando una mano verso Firenze; — .... seduttrice!

Poi mise un sospiro e mormorò:

— Addio, Firenze!

E scese ch’era buio fitto.