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UN ADDIO A FIRENZE.
[Firenze, 27 giugno 1871.]
La ragazza. Io non t’avevo cercato, e tu sei entrato in casa mia con un piglio da padrone, trovando a ridire sopra ogni cosa e affettando dispregio per tutto quello che ho di più caro. Pedante uggioso, che non sei altro! Nella tua città non c’è un quadro e una statua fatta dai tuoi; le case son tutte d’un colore; tu poi, parlando, non pronunzi una lettera doppia a pagartela uno scudo; e credi d’aver fatto tutto tu a questo mondo! E dici che io sono indietro d’un secolo! Sei un tanghero. Il ragazzo. E tu una fiaccona vanagloriosa, che ti gonfi dei meriti dei tuoi vecchi. Nella tua città non c’è modo di mangiare due uova assodate a dovere (storico), non c’è marciapiedi, non c’è il negozio Perotti e Nigra; tu poi, parlando, ti mangi i c, e dici straporto invece di trasporto; e vanti le aure miti del tuo paese, mentre ci tira un vento che sbatte la gente ne’ muri. Ragazza. Io son bella e colta. Ragazzo. Io son forte e onesto. Ragazza. Nientemeno! Ragazzo. Sicuro! Popolo. Si acciuffano, separateli, si possono far del male; badate che la morde nel collo. Un tale (dopo averli separati). Niente paura, sono due impostori bricconi. Non l’ha mica morsa, l’ha baciata. (Risa generali.) (Da una commedia recente, intitolata: Doveva finir così.) |
Un Piemontese che deve andare a Roma tra poco, sentì il bisogno, qualche giorno fa, di mandar un saluto alla città di Firenze, e pensò di mandarglielo dalla cima della collina di Fiesole.