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un addio a firenze 5


saputo dire, senza rischio di sbagliare, il colore della facciata, la forma delle finestre, il disegno degli ornati. Guardai meglio quelle case, ripassandoci davanti; e più le guardavo, più mi pareva che avessero tutte un’aria propria, che so io? un significato, un qualcosa che mi faceva pensare. L’una sentivo che l’avrei scelta di preferenza per invitarvi degli amici a cena, e menarvi una vita allegra: mi pareva che sorridesse. In un’altra ci sarei stato più volentieri a studiare, solo, raccolto, con una gran biblioteca: aveva un aspetto grave. In una terza pensavo che non ci si potesse vivere che facendo all’amore: tanto aveva le forme snelle e la tinta gentile. Gli architetti di quelle case bisognava che fossero giovani simpatici; dovevano aver voluto dir tutti qualche cosa con quei disegni; s’erano fatti tutti capire. Man mano che passavo per quelle vie, mi si affollavano alla memoria versi, scene di romanzo, episodi storici, ariette d’opera. E alzando gli occhi ai palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi grandiosi, mi cominciava a parere strano che, in luogo d’ispirare quell’ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi, costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole l’effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi che s’usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel ninnolo, come: — Gentile, carino. Guardando quelle torri, quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo uno stranissimo desiderio, come di fare scorrere la mano su quei contorni, di palpare quei rilievi; e con questo desiderio, una specie di sollecitudine gelosa per quelle moli enormi di pietra, come se temessi che la menoma forza le potesse offendere e sciupare; e con questa sollecitudine, un bisogno vivo e continuo di correrle e di ricorrerle con quello sguardo d’amante che avvolge, e striscia, e lambe, e si stanca sulle forme care.

— Ma queste linee si muovono, — esclamavo tra