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un addio a firenze | 7 |
velo che gli avvolgeva l’ingegno, tutte le facoltà ravvivarsi con impeto e ordinarsi con armonia, e dal tumulto, prima infecondo, della mente e del cuore, prorompere per la prima volta, rozzi, ma ardenti e liberi, gli affetti, i pensieri, le immagini; — per chi sopratutto abbia raccolto qui, con lungo amore, le forme e le parole in cui potesse significare ed espandere l’animo suo, affratellandosi col popolo per sorprendergliele sulle labbra, ricominciando qui, per così dire, un’altra infanzia, rinnuovando quasi la sua natura, aspirando continuamente, avidamente, quest’aura vergine della vita italiana, per farsene sangue, e informarsene il cuore e il cervello, superbo oggi d’esservi riuscito, disperato domani di non riuscirvi, ma sempre risoluto, ostinato e appassionato; per costui non ci sarà nè parola nè omaggio che basti a significare l’affetto e la gratitudine che deve sentire per Firenze, sua ispiratrice e maestra.
Quando, a tarda notte, nel silenzio della sua cameretta, dopo un lungo lavoro condotto con furia febbrile egli sentiva il bisogno di smorzare il fuoco che gli ardeva le fibre, Firenze gli diceva: — Vieni! — e gli offriva la splendida pace delle sue notti serene, l’Arno colorato di fuoco e il bel colle di San Miniato illuminato dalla luna; e in quello spettacolo gentile e solenne, l’anima sua si quetava. E quando, dopo aver lungamente faticato e sudato invano per dar forma e vita a un concetto riposto o a un’immagine bella che gli appariva in barlume alla mente, egli buttava la penna sconfortato e si slanciava fuori di casa, Firenze, offrendogli allo sguardo i miracoli dell’arte affollati nella sua piazza famosa, gli diceva: — Ecco la bellezza! — ed egli in quella bellezza confortava e appagava l’animo, pensando ch’ella era italiana, e il suo orgoglio umiliato d’artista moriva senza dolore nell’orgoglio legittimo e santo di cittadino. E quando egli in certi momenti di sfiducia desolata e di abbattimento mortale piangeva la sua provata impotenza