Racconti fantastici (Nodier)/Del fantastico in letteratura
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DEL FANTASTICO IN LETTERATURA
Se indaghiamo in qual modo l’immaginazione umana dovette procedere nella scelta de’ suoi primi godimenti, si giungerà naturalmente a credere che la letteratura primitiva, estetica per necessita più che per elezione, per lungo tempo si racchiuse nella espressione ingenua delle impressioni. Un po’ più tardi raffrontò le impressioni tra loro o si dilettò nello sviluppare le descrizioni, nel raccogliere i tratti caratteristici delle cose, nel supplire alla frase colle figure. Tal è l’obbietto della poesia primitiva; e quando questa sorta di impressioni fu modificata o quasi logora pel lungo uso, il pensiero si elevò dal noto all’ignoto. La letteratura investigò profondamente le leggi occulte della società, studiò le molle segrete dell’organismo universale, ascoltò nel silenzio delle notti l’armonia meravigliosa delle sfere, creò le scienze contemplative e le religioni. Questo ministero imponente fu l’inizio del poeta nella grand’opera della legislazione. Egli si trovò, per questa potenza rivelatasi in lui, magistrato e pontefice, e si istituì un santuario inviolabile, da cui non comunicò colla terra che mediante istruzioni solenni dal fondo del roveto ardente, dalla cima del Sinai, dall’alto dell’Olimpo o del Parnaso, dalle profondità dell’antro della Sibilla, attraverso l’ombra delle profetiche quercie di Dodona o dei boschetti di Egeria. La letteratura puramente umana si trovò ridotta alle cose più comuni della vita positiva, senza però aver perduto l’elemento ispiratore che la divinizzò nella prima età. Ma, siccome le sue creazioni essenziali erano fatte, e il genere umano le aveva già accettate in nome della verità, così essa si smarrì di proposito in una regione ideale, meno imponente, ma non meno ricca di seduzioni, in una parola essa inventò la menzogna. Fu questa una splendida e incommensurabile carriera, in cui abbandonata a tutte le illusioni d’una credulità docile, perchè volontaria, ai prestigi ardenti dell’entusiasmo tanto naturale ai popoli giovani, alle allucinazioni appassionate di sentimenti che l’esperienza non ha ancora sfatati, alle percezioni vaghe de’ terrori notturni, della febbre e dei sogni, alle visioni mistiche d’uno spiritualismo devoto fino all’abnegazione e ardente fino al fanatismo, essa allarga rapidamente il suo dominio con immense e meravigliose scoperte, ben più sorprendenti e ben più molteplici di quelle fornitele dal mondo plastico. Presto tutte queste fantasie presero corpo, tutti questi corpi fittizi, carattere spiccato e speciale, tutti questi caratteri, un’armonia; e il mondo intermediario fu trovato. Di queste tre operazioni successive, quella dell’intelligenza inesplicabile, che aveva fondato il mondo materiale, quella del genio, divinamente ispirato che aveva indovinato il mondo spirituale, quella dell’immaginazione che aveva creato il mondo fantastico, si compose il vasto impero del pensiero umano.
E le lingue han conservato fedelmente le traccie di questa generazione progressiva. Il punto culminante del suo gran volo si perde nel seno di Dio, che è la scienza sublime. Noi chiamiamo ancora superstizioni o scienza delle cose sublimi, queste conquiste secondarie dello studio su cui s’appoggia in tutte le religioni la scienza di Dio stesso e il nome della quale indica ne’ suoi elementi che esse sono anche al disopra delle intelligenze volgari. L’uomo puramente speculativo è all’ultimo grado; ed è al secondo, cioè alla regione mediana del fantastico e dell’ideale, che bisognerebbe collocare il poeta in una classificazione esatta del genere umano.
Ho detto che la scienza stessa di Dio s’era appoggiata al mondo fantastico o soprastante; ed è questa una di quelle cose che quasi non abbisognano spiegazioni. Qui io non considero che i prestiti fatti da essa all’invenzione fantastica presso tutte le nazioni; ed i limiti angusti che mi son prescritti non mi permettono di moltiplicare gli esempi che d’altronde si presentano facilmente a tutti gli intelletti. Chi non ricorda in primo luogo gli amori così misteriosi degli angeli, appena menzionati nella Scrittura, colle figlie degli uomini, l’evocazione dell’ombra di Samuele fatta dalla vecchia pitonessa di Endor, quest’altra visione senza forma e senza nome che si manifestava appena come un vapore confuso, e la cui voce assomigliava a un piccolo soffio; questa mano gigantesca e minacciante, che scrisse una profezia di morte in mezzo ai festini sulle pareti del palazzo di Baldassare e sopratutto la incomparabile epopea dell’Apocalisse, concezione grave, terribile, opprimente per l’anima come il suo soggetto, quale ultima sentenza delle razze umane, gettata sotto gli occhi delle giovini Chiese da un genio di previsione che sembra aver anticipato su tutti i secoli avvenire, ed essersi ispirato nell’esperienza dell’eternità!
Il fantastico religioso, se così è permesso esprimerci, fu necessariamente solenne e cupo, perchè non doveva agire sulla vita positiva che mediante impressioni severe. La fantasia puramente poetica si rivestì al contrario di tutte le grazie dell’immaginazione; perocchè essa non ebbe altro oggetto che di rappresentare sotto una luce iperbolica tutte le seduzioni del mondo positivo. Madre dei genii e delle fate, seppe ella stessa prestar alle fate gli attributi della loro potenza e i miracoli della loro bacchetta. Sotto il suo prisma prodigioso la terra non sembrò aprirsi che per iscoprire dei rubini dai riflessi ondeggianti, dei zaffiri più puri dell’azzurro del cielo: il mare non gettò sulla terra che corallo, ambra, perle; tutti i fiori divennero rose nel giardino di Sadi, tutte le vergini delle Uri nel paradiso di Maometto. È così che nacquero nei paesi più favoriti dalla natura, que’ racconti orientali, risplendente galleria de’ prodigi più rari della creazione e dei sogni più deliziosi del pensiero, tesoro inesauribile di gioielli e di profumi che affascina i sensi e divinizza la vita. L’uomo che ancor cerca invano un compenso passaggero alla noia amara della sua realtà non ha probabilmente letto per anco le Mille ed una notti.
Dall’India, questa Musa capricciosa, dalla ridente acconciatura, dai veli imbalsamati, dai canti magici, dalle abbaglianti apparizioni, fermò il suo primo volo sulla Grecia nascente. La prima età della poesia finiva colle sue invenzioni mistiche. Il cielo mitologico era popolato da Orfeo, da Lino, da Esiodo. L’Iliade aveva completato questa catena meravigliosa del mondo sublime rattaccando al suo ultimo anello gli eroi e i semidei in una storia fino allora senza modelli, nella quale l’Olimpo comunicava per la prima volta colla terra mediante sentimenti, passioni, alleanze e battaglie. L’Odissea, seconda parte di questa grande bilogia poetica, e non mi occorrono molto prove per crederla concepita dal genio senza rivale che aveva concepito la prima, ci mostrò l'uomo in relazione col mondo immaginario e il mondo positivo nei viaggi avventurosi e fantastici di Ulisse. Là tutto risente del sistema inventivo degli Orientali; tutto manifesta l’esuberanza di quel principio creatore che aveva prodotto le teogonie e che spargeva abbondantemente il superfluo della sua poligenesi feconda sul vasto campo della poesia, come l’abile scultore che, dai resti d’argilla con cui ha formata la statua di un Giove o d’un Apollo, si diverte a plasmare sotto le dita le forme bizzarre ma ingenue e caratteristiche del grottesco, e che improvvisa sotto i tratti deformi di Polifemo la caricatura classica di Ercole, Qual prosopopea più naturale e insieme più ardita della storia di Cariddi e Scilla?
Non è così che gli antichi navigatori hanno dovuto rappresentarsi questi due mostri del mare e lo spaventoso tributo che questi imposero alla nave inesperta che osa tentare i loro scogli, e il latrare dei marosi che urlano balzando tra le loro roccie?
Se non avete ancora udito parlare delle melodie insidiose della sirena, degli incanti più seducenti di una strega amorosa che v’incatena con ghirlande di fiori, della metamorfosi del temerario curioso che in un’isola ignota ai viaggiatori si trova a un tratto preso dalle forme e dagli istinti d’una bestia selvaggia, domandatene notizie al popolo o ad Omero. La discesa del re di Itaca agli Inferni ricorda sotto proporzioni gigantesche ed ammirabilmente idealizzate i lamia e i vampiri delle favole levantine che la critica sapiente dei moderni rimprovera alla nostra scuola nuova; tanto i pietosi settari dell’antichità omerica, ai quali presso di noi son così risibilmente date in guardia le buone dottrine, sono lontani dal comprendere Omero, o mal si sovvengono d’averlo letto!
Il fantastico chiede al vero una verginità d’immaginazione e di credenze che manca alle letterature secondarie e che in esse non si riproducono che per mezzo di quelle rivoluzioni, il cui passaggio tutto rinnovella! ma allora e quando le religioni stesse scosse fin dalle fondamenta non parlano più all’immaginazione, o non le portano che nozioni confuse, rese oscure sempre più da uno scetticismo inquieto, è ben d’uopo che la facoltà di produrre il meraviglioso di cui la natura l’ha dotata, si eserciti in un genere di creazione più volgare o meglio appropriato ai bisogni di una intelligenza materializzata. L’apparizione delle favole incomincia dal momento in cui finisce l’impero di queste verità reali o convenzionali che infondono un resto di vita al logoro congegno della civiltà. Ecco ciò che ha reso da qualche anno il fantastico tanto popolare in Europa e ne fa la sola letteratura essenziale dell’età di decadenza o di transizione cui siamo pervenuti. E in ciò dobbiamo anche riconoscere un beneficio spontaneo della nostra organizzazione, poichè se lo spirito non si compiaceva ancora di vive e splendide chimere, quando ha toccato al nudo tutte le ributtanti realtà del mondo vero, quest’epoca di disinganno sarebbe in preda alla più violenta disperazione e la società offrirebbe la rivelazione spaventosa di un bisogno unanime di dissoluzione e di suicidio.
Non bisogna dunque gridar tanto contro il romantico e contro il fantastico. Queste pretese innovazioni sono l’espressione inevitabile dei periodi estremi della vita politica delle nazioni, e senza di esse non so ciò che ora ci resterebbe dell’istinto morale ed intellettuale dell’umanità.
Così, alla caduta del primiero ordine sociale di cui abbiamo conservato la memoria, quello della schiavitù e della mitologia, la letteratura fantastica come il sogno di un moribondo sorse tra le rovine del paganesimo, negli scritti degli ultimi classici greci e latini, Luciano e Apuleio.
Dopo Omero essa erasi affatto dimenticata; e Virgilio stesso, che una immaginazione tenera e malinconica trasportava facilmente nelle regioni dell’ideale, non aveva osato togliere dalle muse primitive i colori vaghi e terribili dell’Inferno di Ulisse.
Poco dopo Seneca, più positivo ancora, ardì perfido spossessare l’avvenire del suo impenetrabile mistero nei cori della Troade; e allora si spense affogata sotto la sua filosofica mano, l’ultima scintilla dell’ultima face della poesia.
La musa non si risveglia più che un istante, capricciosa, disordinata, frenetica, animata da una vita fittizia, divertendosi con amuleti incantati, con cespi d’erbe velenose e di ossa di morto, alla luce della torcia delle streghe di Tessalia, nell’Asino di Lucio. Ciò che dopo restò di esse fino al rinascimento delle lettere è questo mormorio confuso di una vibrazione che si estinse sempre più nel vuoto e che attende un impulso novello per ricominciare. Ciò che avvenne ai Greci e ai Latini doveva avvenire a noi. Il fantastico piglia le nazioni nelle fasce come il re degli alni, tanto temuto dai fanciulli o li assiste al loro funebre capezzale come lo spirito famigliare di Cesare; quando tutto è finito, finiscono i suoi canti.
La nostra moderna letteratura non fu sommessa meno della latina allo spirito d’imitazione. Ma l’invasione dei Mori così favorevole in ciò allo sviluppo morale del medio evo, aveva già trasportato sul nostro secolo il genio vivace e produttore della giovane poesia. Senza questo avvenimento, la letteratura classica accuratamente perpetuata fino a noi dallo zelo ammirabile dei frati, si sarebbe rialzata tutt’intera e senza intermediario dal seno della barbarie alla prima chiamata d’una società avida di luce spirituale, ed è ciò che avvenne più tardi, quando la stampa ebbe gettato in gran copia nella circolazione le opere dell’antichità, cioè una creazione letteraria bell’e fatta. Epoca singolare, in cui una generazione di sapienti e di poeti riprodusse a un tratto i sofisti d’Alessandria, i grammatici del Basso impero e i verificatori della decadenza romana, come un popolo di Epimenidi, ispirati da una religione, da una civiltà e da una lingua morte e che non differivano in alcun modo da essi stessi che per certo languore degli organi che tradisce l’abbattimento di un lungo sonno. All’apparire di questi sapienti e di questi poeti il fantastico svanisce, ma esso rischiarava da solo l’Europa da qualche secolo.
Il fantastico inventò ed abbellì la storia delle epoche equivoche delle nostre giovani nazioni, fu lui che popolò i nostri castelli in rovina di visioni misteriose, evocò sulle torri la figura delle fate protettrici, aprì un rifugio impenetrabile nei cavi delle roccie o sotto i merli delle mura abbandonate, alla formidabile famiglia di dragoni. È lui che aveva acceso sulla fronte di questi mostri i fuochi del carbonchio quando attraversano rapidamente il cielo come una stella cadente; lui che sviava i viaggiatori sulle rive delle acque stagnanti dietro l’orma capricciosa del folletto; che consolava la loro veglia rustica nella capanna del boscaiuolo; in un angolo di un focolare ospitale cogli occhi inoffensivi dei folletti; che intratteneva di dolci promesse le speranze credule delle giovinette, e di dolci ozii la visione sedentaria del vecchio, ohimè! così presto distrutta dalla morte.
Il fantastico allora era dovunque tanto nelle credenze più severe della vita come ne’ suoi più graziosi errori; nelle sue solennità come nelle sue feste. Egli padroneggiava il foro, la cattedra e il teatro; sedeva con Alberto il Grande sui seggioloni del santuario, con Agrippa nel gabinetto del filosofo; con Ruggero, Bacone e Paracelso, nel laboratorio del chimico, e introduceva la negromanzia e l’astrologia giudiziaria fino nel consiglio dei re. Il suo potere non sarà mai dimenticato nella letteratura nella quale produsse gli ingenui racconti delle leggende, animò d’una pompa così imponente la cronaca dei tornei, delle battaglie e delle crociate, si diffuse assai negli scherzi dei vecchi novellieri e nelle fiabe dei trovatori. È al fantastico che dobbiamo i romanzi cavallereschi, specie di epopea innominata, nella quale si confondono con un’armonia indescrivibile tutte le scene d’amore e d’eroismo della mezza età; amore senza esempio, nel quale non si sa se ammirare di più la pudica tenerezza dell’amata o l’entusiasmo passionato dell’amante; eroismo ideale, che tutto aveva da combattere, il valore de’ guerrieri, la collera dei re paladini, gli agguati del tradimento, i disordini della natura soggiogata dalla magia, l’intervento di mille potenze impreviste modificate sotto aspetti sempre nuovi secondo il capriccio della fantasia inventrice del romanziere, da tutti gli accidenti possibili della fatalità e che malgrado tutto ciò riusciva a trionfare.
Questo non era più Giunone, Nettuno o Venere eccitati, come nella teologia pagana a perdere un uomo; era l’universo intiero personificato sotto una moltitudine d’individualità diverse, e lottante contro un guerriero coperto, per pura difesa, del suo coraggio, del suo amore, del suo buon diritto. Questo non era più l’obbrobriosa e sanguinosa lotta fra due popoli furenti e decisi a distruggersi per sostenere o per riparare il ratto e l’adulterio: era il processo morale del giusto e dell’ingiusto, dibattuto nell’interesse generale degli uomini, fra il cielo o l’inferno, sotto gli occhi di un’Elena che ne era il prezzo e non l’oggetto, e che più felice dell’altra, potea alzare il velo senza arrossire davanti ai due campi. Questo fu, è d’uopo confessarlo una meravigliosa poesia, un ordine d’invenzione tale che se gli antichi avessero avuto gli Amadigi, noi non parleremmo forse di Achille; una imaginazione grandiosa e attraente, che non si rinnoverà più e che si rimpiangerà sempre, come la giumenta di Orlando così bella, così forte, così agile, che imprimeva si vigorosamente il suo piede sulla sabbia della lizza e del campo di battaglia, della quale la mano delle principesse aveva ricamato la gualdrappa e la bardatura, e che è morta.
Se fossi capace di provare qualche briciolo di odio contro Cervantes, forse gli rimprovererei d’aver contribuito più di tutti a rapirci queste deliziose fantasie del genio medioevale, che egli spezzò con maggior facilità i quella con cui don Chisciotte aveva rotti i burattini di Ginesilla. Però devo convenire che quest’opera di distruzione, la quale d’altronde ci ha procurato uno dei più bei libri prodotti dall’immaginazione dei moderni, era probabilmente la condizione indispensabile del suo destino letterario. Allorchè le favole d’un popolo sono invecchiate, lo spietato istinto di cangiamento insito in lui, a tempo e luogo si fa sentire e indica agli uomini, per mezzo di certi segni che bisogna ricominciare la vita sociale con nuovo lavoro, senza riguardo allo tradizioni e alle simpatie del passato. Allora tale istinto scatena dei genii schernitori, che spinti da un odio irriflessivo si fanno de’ sonagli con quanto i secoli anteriori hanno venerato, e giocano con questi avanzi d’una civiltà morente, proferendo parole d’ironia e di sprezzo, come Amleto, pesando la cenere dei morti e analizzando nel cranio d’un pazzo le forze dell’intelligenza, davanti la fossa di Yorik.
È così che sorse Luciano alla fine del paganesimo, Cervantes dopo il periodo cavalleresco, Erasmo e Rabelais colla riforma, e Voltaire avanti le rivoluzioni politiche che dovevano accompagnare la grande conflagrazione del cristianesimo. Quando un ordine di cose muore, vi è sempre qualche demone ingegnoso che assiste ridendo alla sua agonia e che col bastone dei buffoni gli dà il colpo di grazia. Il primo genio fantastico del rinascimento tanto pel tempo, che per la sua superiorità, poichè nei capolavori che lo rivelano, il genio non è progressivo, è Dante. Egli giunse da sè e tutto solo all’ultimo crepuscolo d’una società spenta, alla prima alba d’una società cominciata, e quantunque egli avesse aperta la carriera, egli giunse da solo anche a compierla. È vero ch’egli pose il teatro della sua terribile fantasmagoria sotto la protezione delle credenze del suo tempo; ma egli le fece sue per le passioni, per gli attori, e anche per i particolari della scena, le quali cose non sono nè omeriche, nè virgiliane, ma dantesche. Si trovan ora sovente dei critici pieni di gusto deploranti l’errore di questa magnifica immaginazione, o la confusione apparente di questa favola poetica, in cui il Virgilio del medio evo piglia per introduttore nell’inferno cristiano il Virgilio del paganesimo.
Questa idea è tuttavia il perno della sua composizione, ed è dessa appunto che la rende sublime. L’inferno con una teogonia particolare sarebbe stato troppo angusto per una si larga invenzione. Bisognava che Dante vi si precipitasse, sul torrente dei secoli senza riguardo alle forme circoscritte di una timida epopea, e ciò che egli ha conservato delle idee universalmente ricevute è invece una concessione ingegnosissima e più che legittima al misticismo della sua epoca che era per natura una delle parti essenziali della Divina Commedia; ma che non poteva formarne esclusivamente l’anima in questa concezione da gigante. Così l’inferno di Dante non somiglia a nessuno degli innumerevoli inferni creati dalla cupa melanconia dei poeti e che rammentano più o meno tra essi i vade-in-pace del monachismo e la camera delle torture dell’Inquisizione. Nella sua architettura colossale contiene tutti gl’inferni ed è atto a ricevere durante i secoli eterni tutte le generazioni dei reprobi. Questa creazione strabiliare non dev’essere misurata col compasso dell’artista e colle unità del retore. La sua grandezza sta nella sua libertà sfrenata, nel diritto conquistato di far riflettere incessantemente sullo specchio a mille facce dell’immaginazione tutti gli aspetti della vita, tutti i riflessi del pensiero, tutti i raggi dell’anima. Non bisogna cercargli, non dico un modello, ma un oggetto di comparazione se non nell’Apocalisse di San Giovanni, e neppure bisogna cercargli degli imitatori felici nei secoli venienti, poichè è questa l’opera speciale di un’epoca soltanto e all’uomo di genio che l’ha concepita appartiene l’espressione di un secolo da cui non si può separare la sua individualità senza mutilarla. Ciò che di esso è passato negli scritti moderni, come il sogno del parricida nei Voleurs, come la prosopopea disperante di Jean Paul, dove Gesù Cristo rivela il nulla eterno alle anime innocenti del Limbo, come la visione incomparabile del condannato, nel romanzo psicologico di Vittor Hugo, è una emanazione locale, parziale, inestensibile, ora incomunicabile, che agì con tutta la potenza del principio, da cui emanava, ma limitata sur un punto, in una circostanza rara e attraverso un mezzo insensibile come il calore d’un sole che si eclissa e che accende ancora la polvere attraverso una lente di ghiaccio. Il mondo creatoci dalla civiltà non ne permette di più.
Così la venerata tradizione della Divina Commedia non ha prodotto un’opera commendevole sullo stesso stampo presso il popolo della terra che meglio la sa apprezzare. Essa è rimasta come un monumento inviolabile e inaccessibile dei tempi andati, alla frontiera estrema della letteratura Italiana, e il rispetto che si ha per cose sacre, pareva difenderla per sempre dall’impotente temerità dei copisti. La nuova maniera d’invenzioni coltivata di tratto in tratto nello stesso paese, lo spirito, l’immaginazione, il genio o poi quell’industria infallibile d’imitazione che dovunque corre ad unirsi al corteggio delle muse creatrici, e che finisce nei tempi cosidetti classici per ornarsi delle loro corone, era comune all’Europa tutta; ma solo l’Italia aveva ancora il privilegio d imprimere alle sue scoperte un suggello immortale, perchè la sua lingua era fatta. A lei spettava l’arricchire le nostre cronache, i nostri romanzi delle facili bellezze, di una versificazione libera e graziosa, e d’altronde nel sottometterle al metro armonioso delle sue ottave le liberava dai rimproveri più severi di una critica sguaiata, tollerando lino a nuovo ordine per condiscendenza all’antichità le bugie ritmiche.
Per servirsi del linguaggio famigliare di questa poesia, sarebbe facile tanto a enumerar le stelle del cielo e le sabbie del mare che le epopee cavalleresche dei più ingegnosi spiriti di tutto le epoche letterarie. I curiosi ne conservano più di cento anteriori all’Ariosto e che l’Ariosto ha fatto dimenticare, come Omero aveva fatto dimenticare le rapsodie de’ suoi ignoti predecessori. Quale immaginazione infatti non avrebbe impallidito di fronte a questa immaginazione prodigiosa che, ridendo, sottometteva alle sue combinazioni piene di grazia, di freschezza e d’originalità le tradizioni d’una storia oscura e le deliziose visioni d’una mitologia nuova, ingiustamente negletta? Si disse che Esiodo era stato nutrito col miele dalla mano delle figlie di Pindo. Oh! sono state le fate che hanno nutrito l’Ariosto con qualche ambrosia più inebriante, e che hanno comunicato a’ suoi divini scritti l’invincibile seduzione de’ loro incanti? Come dubitare della magia quando il poeta, mago egli stesso, s’intrattiene a suo piacere negli spazi, alla intelligenza umana più famigliare di quelli ove egli ha smarrito l’ippogrifo; quando i suoi canti risentono d’una ispirazione sopranaturale o sembrano provenire da un altro mondo? Colla mente piena dello studio degli antichi, egli non isdegna di rapir qualche lembo alle loro spoglie; ma ciò non fa mai senza adattarlo al carattere, alla fisonomia de’ suoi personaggi e al libero andamento delle sue composizioni. Egli è indipendente anche quando obbedisce, ancora nuovo quando imita, e non si sottomette alla fantasia degli altri che per sazietà della propria, la cui profusione lo stanca e lo nausea. Gli è che egli ha rubato lo scrigno d’Alcina o i tesori segreti delle miniere del Cattai e il pudore dell’opulenza gli insegna a mescolare di tanto in tanto le ricchezze più volgari a quelle dì cui dispone con tanta facilita. Dopo l’Ariosto e i suoi fiacchi imitatori, il fantastico non si mostra quasi più nella letteratura italiana; e ciò è spiegabilissimo; l’Ariosto lo aveva esaurito. Chi crederebbe che questa musa dell’ideale, figlia elegante e fastosa dell’Asia, si rifugiò lungo tempo sotto le nebbie della Gran Bretagna? Spaventata forse dalle pompe malinconiche del Nord il cui teismo lugubre l’aveva portata fino al trono di Odino e delle vaporose finzioni della Scozia, dove l’arpa del bardo non si marita che al fracasso delle clay mores1 ed ai muggiti delle tempeste, essa cercò bentosto di riposarsi di quelle immaginazioni vive e ridenti che avevan rallegrato dei loro canti voluttuosi le prime feste della sua infanzia. Venne Shakspeare, che conosceva appena nella cerchia della sua isola, orbe tota divisa, secondo l’espressione di Virgilio, le meraviglie del mondo fisico, ma che le aveva scorte in qualche sublime visione e che comprendeva i prodigi del regno del sole come se vi avesse passeggiato in sogno nelle braccia di una fata; poichè Shakspeare e la poesia è la stessa cosa. Spencer non aveva fatto che tracciargli la via; egli l’allargò, la prolungò, rabbellì di nuovi spettacoli, la riempi, l’inondò di figure più fresche, più aeree, più trasparenti delle apparizioni fuggitive dei sogni mattutini; egli vi guidò le danze romantiche d’Oberon e di Titania e de’ genii, i quali col piede più leggero di quello di Camilla toccano essi pure la zolla senza calpestarla; vi seminò que’ fiori olezzanti di profumi celesti che si aprono ai tepidi calori dell’aurora per ricevere il popolo notturno degli spiriti e stan chiusi con lui fino a sera come padiglioni incantati; egli sparse nell’aria de’ splendori ignoti, accordò delle lire celesti, che non avevan mai vibrato all’orecchio degli uomini, sospese l’orchestra melodiosa d’Ariele ai rami commossi dell’arboscello. nascose il nido invisibile di Puck in un bottone di rosa e fece scaturire da ogni poro della terra, da ogni atomo dell’aria, da tutte le profondità del cielo un concerto di voci magiche. Gli innumerevoli colori della tavolozza e questa moltitudine di mobili simpatie, che la parola scuote fino al fondo dell’anima, tutto appartiene a Shakspeare. Quando il suo pennello ha finito di accarezzare le forme seducenti di un silfo, a lui solo è riservato di tracciare le proporzioni gigantesche e grossolane d’un gnomo sotto i tratti di Calibano, di trasvestire l’antico satiro sotto l’arredo burlesco di Falstaff, e di sospendere lo schizzo di Michelangelo al quadro delizioso del Correggio. Se Dante ed Ariosto non v’hanno ancora offerto tutte le condizioni essenziali dell’individualità d’un semidio, fermatevi a costui: incessu patuit.
Ciò che della nostra letteratura nazionale sanno tutti, risponde a esuberanza alle questioni che mi si potrebbero fare sui progressi che vi eran promessi coi poemi fantastici. Non è sul suolo accademico e classico della Francia di Luigi XIII e di Richelieu che questa letteratura, non vivente che d’immaginazione e di libertà, poteva acclimarsi con successo. Le splendide menzogne del genio vi sarebbero state male ricevute al pari della verità. Il regno del pensiero ivi apparteneva, colpa la Sorbona e Aristotile, ai seguaci di una stitica musa, che con privilegio reale, trascinava sul teatro della corte nel salone del palazzo Rambouillet gli orpelli dell’antichità trasvestita. Racine ispirato verso la vecchiaia dal genio del libri santi, ben osò, per eccezione, gettare in un racconto temerario la gran figura dello scettro di Gesabele; e Voltaire credette di aver gettato molto lontano l’audacia del capo con un’opposizione sociale che cercava la novità in tutto, quand’ebbe fatto urlare dei versi alessandrini attraverso un portavoce dall’ombra tragica di Nino. Noi avevamo avuto le nostre cronache e i nostri romanzi cavallereschi; ma questi rispettabili interpreti del medio evo parlavano un linguaggio perduto che nessuno era capace di comprendere e i cavalieri della Tavola Rotonda attesero lungo tempo per ottenere dall’Occhio di Bue qualche cosa dell’accoglienza alla quale li aveva assuefatti Carlomagno e che un galante introduttore avesse sostituito l’abito francese alla loro greve armatura di ferro e i talloni rossi ai loro rumorosi speroni. I personaggi così buffonescamente truccati dal signor di Tressan, assomigliano presso a poco al loro tipo eroico e ingenuo come la lanterna del clown nel Sogno d’una notte d’estate assomiglia alla luce della luna.
Sarebbe però una vera ingiustizia negare al grande secolo la sola palma che sia mancata a’ suoi trionfi tanto strombazzati, e benchè esso l’abbia oltraggiosamente rifiutata l’avvenire, più giusto, gliela decreterà forse in compenso della gloria abortita di Chapelain e delle ammirazioni un po’ svaporate che coronarono un tempo il sonetto di Voiture, il triolet2 di Ranchin e il madrigale di Sainte-Aulaire, mesta produzione, degna di far epoca nelle più belle epoche letterarie, questo capolavoro ingenuo per natura e per immaginazione che sarà per lungo tempo ancora l’attrattiva de’ nostri discendenti e che sopravviverà senza alcun dubbio con Molière, La-Fontaine e qualche bella scena di Corneille, a tutti i monumenti del regno di Luigi XIV, questo libro senza modello che le imitazioni più felici hanno mostrato per sempre inimitabile sono i Racconti delle Fate di Perrault. La composizione non è esattamente conforme alle regole di Aristotele e lo stile poco figurato, ch’io sappia, non ha offerto ai compilatori delle nostre rettoriche molti ricchi esempi di descrizioni, d’amplificazioni, di metafore e di prosopopee; si avrebbe anche da sudar un po’, e lo dico a vergogna de’ nostri dizionari, per trovare in questi ampi archivi della nostra lingua degli indizi certi su alcune locuzioni insolite che, almeno per gli stranieri, vi attendono ancora le cure dell’etimologista e del commentatore. Non nego che ve n’ha molte come: Tirez la cordelette et la bobinette cherra che potrebbero dare gravi affanni ai Saumaises futuri; ma gli è certo che i loro innumerevoli lettori le comprendono a meraviglia; ed è chiaro anche che l’autore ha avuto la modesta bonomia di non lavorare per la posterità. Che vivace attrattiva d’altronde nei minimi particolari di queste incantevoli bagattelle! quali verità nei caratteri! che originalità ingegnosa e inattesa nelle peripezie! quale estro franco e penetrante nei dialoghi! Tanto che non dubito d’affermare che finchè vivrà nel nostro emisfero un popolo, una tribù, una borgata, una tenda dove la civiltà trovi rifugio contro le invasioni progressive delle barbarie, sarà discorso alla luce del solitario focolare dell’odissea avventurosa del Petit Poucet, delle vendette coniugali di Barba-Bleu, delle sapienti manovre di Chat Botte: e l’Ulisse, l’Otello, il Figaro dei bambini vivranno lungamente quanto gli altri. Se v’ha qualche cosa da comparare colla perfezione senza macchia di queste epopee in miniatura, se si può apporre qualche idealità ancor più fresca dei fascini innocenti del Chaperon, alle grazie maliziose di Finette e alla commovente rassegnazione di Griselide, è presso il popolo stesso che bisogna cercare questi poemi inavvertiti, delizie tradizionali delle veglie del villaggio e nelle quali Perrault ha giudiziosamente attinto i suoi racconti.
Non nego che ai nostri dì si sia sapientemente disertato sui Racconti delle Fate, che si sia voluto trovarne l’origine ben lontana e che non istà che a noi di credere sulla fede degli eruditi che Peau d’àne è un importazione dall’Arabia, che Riquet à la Houppe non esercitava il diritto di feudo sui suoi vecchi dominii, senza un titolo d’investitura timbrato in nome dell’Oriente, e che il biscotto e il vaso del burro a malgrado delle loro false apparenze di località, ci furono apportati un bel mattino da qualche altro Sindbad dal paese delle Mille ed una notti. Siamo talmente abituati all’imitazione, dopo lo stabilimento di questa dinastia aristotelica che tuttor ci governa dall’alto dell’Istituto, che ormai è quasi un dogma letterario la massima che nulla si crei in Francia; ed è probabile che l’Istituto non manchi di buone ragioni per indurci a crederlo. Però la mia sommessione a’ suoi decreti non saprebbe andar fin là. Le nostre fate benefiche dalla bacchetta di ferro o di nocciuolo, le nostre fate dispettose e arcigne tirate da pipistrelli, le nostre principesse amabilissime e graziosissime, i nostri principi avvenenti e folletti, i nostri orchi stupidi e feroci, i nostri sciabolatori di giganti, le attraenti metamorfosi dell’Uccello azzurro, i miracoli del Ramo d’oro appartengono alla nostra vecchia Gallia, come il suo cielo, i suoi costumi e i suoi monumenti troppo a lungo misconosciuti. Gli è sprezzar troppo una nazione vivace che di suo proprio moto s’è tanto avanzata su tutte le vie della civiltà, il contestarle il merito d’invenzione necessario per mettere sulla scena gli eroi della Biblioteca azzurra.
Se il fantastico presso di noi non fosse mai esistito di sua natura propria e inventiva, astrazion fatta di qualunque altra letteratura o antica o esotica, noi non avremmo avuto società, poichè non vi fu mai società che non abbia avuto il suo.
Le escursioni dei viaggiatori non han mostrato pur loro una famiglia selvaggia la quale non raccontasse qualche storia straordinaria e non ponesse nelle nuvole della sua atmosfera o nel fumo della sua capanna, non so quali misteri, sorpresi al mondo intermediario dall’intelligenza dei vecchi, dalla sensibilità delle donne e dalla credulità dei fanciulli. Quanto agli appassionati orientalisti che ci rubano le favole delle nostre nutrici per farne omaggio ai corifei delle almee e delle bajadere, non si sono seduti qualche volta sotto la capanna del contadino, o presso la baracca nomade del boscaiuolo o alla veglia chiassosa delle gramolatrici, o nelle allegre brigate dei vendemmiatori! Ben lungi dall’accusare Perault di plagio si lamenterebbero forse della parsimonia avara con cui ha distribuito a’ nostri avi queste sorprendenti cronache delle età che non furono e non saranno mai, così presenti e così ancor vive nella memoria dei nostri trovatori delle capanne! Quante belle narrazioni essi avrebbero udite, improntate con tanta vivacità di costumi, di usi e di nomi di paesi che l’etimologista più audace è obbligato ascoltandoli a fermarsi per la prima volta alla sorgente incontestabile delle invenzioni e delle cose, e che non gli capitò mai di chiederne conto nel suo pensiero a un’altra natura, a un’altra società. Dopo la vecchia sentimentale sognatrice o forse un po’ strega che s’è provata la prima volta ad improvvisare queste fiabe poetiche alla viva luce di una fascina di secco ginepro per addormentare l’impazienza e i dolori di un povero bambino malato, esse si sono ripetute fedelmente di generazione in generazione, nelle lunghe serate delle filatrici, al rumore monotono delle spole a mala pena variato dal tintinnio degli attizzatoi che ravvivano la bragia, si ripeteranno sempre senza che un popolo novello tenti di disputarcele: poichè ciascun popolo ha le sue storie e la facoltà creatrice del raccontatore è assai feconda in tutti i paesi perchè abbia bisogno di andar a cercare lontano ciò che possiede in sè stesso tanto quanto i negri e i calender3. La tendenza al meraviglioso e la facoltà di modificarlo secondo certe circostanze naturali o fortuite sono innate nell’uomo; e sono gli strumenti essenziali della sua vita immaginativa e fors’anche i soli compensi veramente provvidenziali alle miserie inseparabili dalla sua vita sociale.
La Germania è stata ricca in questo genere di creazioni, più ricca di alcun altro paese del mondo senza eccettuarne questi fortunati Levantini, eterni signori dei nostri tesori, secondo gli antiquari. Egli è che la Germania, favorita da un sistema particolare d’organamento morale, porta nelle sue credenze un fervore d’imaginazione, una vivacità di sentimenti, un misticismo dottrinario, una tendenza universale all’idealismo, proprii alla poesia fantastica; così che più indipendente dalle convenzioni consuetudinarie e dal dispotismo posato d’una oligarchia di pretesi sapienti, ha la fortuna di abbandonarsi a’ suoi sentimenti naturali senza temere che essi siano controllati da quella dogana imperiosa del pensiero non accogliente le idee che col peso e col suggello dei pedanti. Questa individualità meditativa, impressionabile e originale che caratterizza i suoi abitanti si manifesta da tempi immemorabili negli infiniti monumenti della sua biblioteca fantastica e al contrario delle nostre abitudini letterarie, per le quali tutto è subordinato all’aristocrazia dello spirito, in quel paese è la popolarità che consacra il successo. La Germania sotto questo aspetto gode ancora le stesse franchigie che al secolo di Gætz de Berlichingen. Essa è debitrice di ciò alla moltitudine di circoscrizioni locali e di usi speciali che le han conservato la preziosa ingenuità dei popoli primitivi, che l’han salvata dall’avidità divoratrice di questa mostruosa Medusa dell’accentramento, le cui braccia, inerti per tutto, salvo che per pigliare, non s’occupano che di soddisfare l’insaziabile fame della Gorgona; e che la manterranno sino alla fine della nostra attuale civiltà, checchè ne dicano i nostri teorici da clubs e da caffè, al primo posto delle nazioni libere. Dopo la bella storia di Faust ammirabilmente poetizzata da Goethe, che nulla aggiunse d’altronde all’idealità filosofica dell’invenzione, dopo la profonda allegoria dell’avventuriere che ha venduto la sua ombra al diavolo, e che l’ultimo rapsoda che l’ha raccolta non ha fatto che ridurre alle forme nane del romanzo, la Germania è stata fino ad ora il dominio del fantastico. Essa ha completato la storia psicologica dell’uomo, così magnificamente aperta nella Genesi coll’emblema veramente divino dell’albero della scienza e colle seduzioni del serpente. Faust è l’Adamo del Paradiso terrestre, giunto a credersi uguale a Dio; il Sogno di Jean Paul è lo scioglimento solenne di questo triste dramma, e quest’altra Apocalisse la terribile spiegazione dell’enigma della nostra vita materiale. Fuor di queste tre favole non v’ha punto verità assoluta sulla terra.
Le disgrazie sempre crescenti della novella società presagivano la sua prossima rovina tanto chiaramente quanto la tromba dell’angelo degli ultimi giorni non lo annuncerà meglio alla generazione condannata. Da questo momento il fantastico fece irruzione su tutte le vie che conducono la sensazione all’intelligenza; ed ecco come a malgrado di Aristotile, di Quintiliano, di Boileau, di La Harpe e non so chi altro è entrato nel dramma, nell’elegia, nel romanzo, nella pittura, in tutti gli esercizi dello spirito, come in tutte le passioni dell’anima. E allora fu un grido di collera aspra ed ignorante contro l’invasione inopinata che minacciava le belle forme classiche; e non si comprese che v’era ancora una forma più larga, più universale, più irriprovevole che stava per finire; che questa forma era quella d’una civiltà logora, di cui il classico non è ohe l’espressione parziale, momentanea, indifferente; e che non era niente strano che il legame, puerile delle sciocche unità della retorica si sciogliesse, quando l’immensa unità del mondo sociale si rompeva da tutte le parti.
Tra gli uomini eletti che un istinto profondo del genio ha gettato in questi ultimi tempi alla testa delle letterature, non ve ne ha uno che non abbia inteso l’avvertimento di questa musa d’una società cadente, e non abbia obbedito alle sue inspirazioni, come alla voce imponente d’un moribondo la cui fossa è già aperta. La scuola romanzesca di Lewis, la scuola romantica dei lackisti, e, precipuamente al disopra di tutti quei gran maestri della parola, Byron, Walter Scott e Lamartine, e Hugo, vi si sono precipitati alla ricerca dell’ideale, come se un organo speciale di divinazione ohe la natura ha dato al poeta loro avesse fatto presentire che il soffio della vita positiva era presso ad estinguersi nel caduco organismo dei popoli. Tra questi non ho nominato Chateaubriand che è restato per coscienza e per elezione al termine del mondo antico come la piramide nelle sabbie d’Egitto, come l’arca del diluvio sulla cima dell’Ararat, come le colonne d’Ercole sulle rive dei mari sconosciuti. Walter Scott incatenato anche da ricordanze, da studi, da affetti, ha posto un po’ più lontano, ma con maggior solidità e potenza le basi della sua fama avvenire tra le due società. È un faro che getta indistintamente qualche luce sul porto, qualche luce sull’abisso. L’abisso! Byron vi si è perduto a vela spiegata e nessuno sguardo umano potè seguirvelo.
Il fantastico della Germania è più popolare e questo si spiega, lo ripeto, per una lunga fedeltà alle costumanze delle tradizioni, ad istituzioni uscite dal paese e spesso difese e salvate a prezzo del sangue cittadino: a un sistema di studi più generale, meglio inteso, meglio appropriato ai bisogni del tempo. Ciò si spiega sopratutto per una spiccata ripugnanza per le innovazioni puramente materiali in cui il principio intelligente e morale delle nazioni non ba nulla da guadagnare. Questo popolo che è giunto ai confini di tutte le scienze, che ha prodotto quasi tutte le invenzioni essenziali il cui impulso ha completato la civiltà In Europa, e che s’occupa deliziosamente nel dolce possesso di una libertà senza fasto, nelle contemplazioni sedentarie dell’astronomia, nell’arricchimento delle nomenclature naturali, meritava di conservare a lungo il gusto innocente e sensato dei racconti infantili. Sien rese grazie a Musœus, a Tieck, a Hoffmann i cui fortunati capricci tratto tratto mistici o famigliari, patetici o buffoneschi, semplici fino alla trivialità, esaltati fino alla stravaganza, ma pieni dappertutto di originalità, di sensibilità e di grazia, rinnovellano per i vecchi giorni della nostra decrepitezza le fresche e splendide illusioni della nostra culla. La loro lettura produce su un’anima stanca delle convulsioni d’agonia di guesti popoli inquieti dibattentisi contro una crisi inevitabile, l’effetto di un sonno sereno popolato da sogni allettanti che la cullano e la riposano. È la fontana di Gioventù dell’immaginazione.
In Francia, dove il fantastico è ora così screditato dagli arbitri supremi del gusto letterario, non era forse inutile cercare qual sia stata l’origine di esso, di segnarne di volo le principali epoche e di fissare a nomi abbastanza gloriosamente consacrati i titoli culminanti della sua genealogia. Ma io non ho tracciati che delle deboli linee della sua storia e mi guarderei bene dall’intraprenderne l’apologia contro gli animi dottamente prevenuti, che hanno abdicata alle prime impressioni della loro infanzia per trincerarsi in un ordine esclusivo di idee. Le questioni sul fantastico, sono esse stesse di dominio della fantasia. Dio mi guardi dal risvegliare per esse le miserabili dispute degli scolastici del secolo scorso, e di trasportare una querela teologica sul campo della letteratura, nell’interesse della grazia degli incantesimi e del libero arbitrio dello spirito! Ciò che oso sperare, si è che se la libertà di cui ci si parla, non è come ho temuto qualche volta, una ciurmeria di saltimbanchi, essa ha i suoi principali santuari nella credenza dell’uomo religioso e nell’immaginazione del poeta. Qual altro compenso prometterete voi a un’anima profondamente piagata dall’esperienza della vita; qual altro avvenire potrà ella prepararsi d’ora in poi nell’angoscia di tante speranze perdute, che le rivoluzioni si portano via, io lo chiedo a voi, uomini liberi, che vendete ai muratori il chiostro del cenobita, e che portate la zappa sotto l’eremitaggio del solitario ove egli s’era rifugiato accanto al nido dell’aquila l’Avete tanto da procurare ai fratelli che voi scacciate delle gioie che possano compensarli della perdita di un solo errore consolante, e vi credete abbastanza sicuri delle verità che fate pagare così care alle nazioni per istimare la loro arida amarezza al prezzo del dolce ed inoffensivo sogno del disgraziato che si riaddormenta sopra un sogno felice? Tuttavia, bisogna dirlo, tutto gode presso di voi d’una libertà senza limiti, quando non eia la coscienza ed il genio. Non sapete che fa vostra marcia trionfale attraverso le idee d’una generazione vinta, non ha però inviluppato il genere umano tanto che non rimangano intorno a voi degli uomini che hanno bisogno di occuparsi di tutt’altro che delle vostre teorie, ma d’esercitare anzi il loro pensiero su una progressione immaginaria senza dubbio, ma che non è forse immaginaria più ilei vostro progresso materiale e la previsione della quale non è meno ben posta di quella dei tentativi del vostro perfezionamento sociale sotto la protezione della libertà da voi invocata! Dimenticate che tutti han ricevuto come voi nell’Europa vivente l’educazione d’Achille e che non siete i soli che abbian rotte le ossa e le vene del leone per succhiarne la midolla e beverne il sangue!
Che il mondo positivo vi appartenga irrevocabilmente è un fatto e senza dubbio un bene: ma rompete rompete questa catena vituperevole del mondo intellettuale con cui vi ostinate a legare il pensiero del poeta.
E molto tempo che abbiamo avuto ciascuno a nostra volta la nostra battaglia di Filippi; e molti non l’hanno aspettata, vel giuro, per convincersi che la verità non era che un sofisma e la virtù non era che un nome. Per costoro abbisogna una regione inaccessibile alle agitazioni tumultuose della folla per porvi il loro avvenire. Questa regione è la fede per quelli che credono, l’ideale per quelli che pensano e che amano meglio, a tutto compensare, l’illusione che il dubbio. E poi bisogna bene dopo tutto che il fantastico ci ritorni, qualunque sforzo si faccia per proscriverlo.
Ciò che si sradica più facilmente presso un popolo non sono le finzioni che lo conservano, ma sono le menzogne che lo divertono.