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del fantastico in letteratura 19

liziose di Finette e alla commovente rassegnazione di Griselide, è presso il popolo stesso che bisogna cercare questi poemi inavvertiti, delizie tradizionali delle veglie del villaggio e nelle quali Perrault ha giudiziosamente attinto i suoi racconti.

Non nego che ai nostri dì si sia sapientemente disertato sui Racconti delle Fate, che si sia voluto trovarne l’origine ben lontana e che non istà che a noi di credere sulla fede degli eruditi che Peau d’àne è un importazione dall’Arabia, che Riquet à la Houppe non esercitava il diritto di feudo sui suoi vecchi dominii, senza un titolo d’investitura timbrato in nome dell’Oriente, e che il biscotto e il vaso del burro a malgrado delle loro false apparenze di località, ci furono apportati un bel mattino da qualche altro Sindbad dal paese delle Mille ed una notti. Siamo talmente abituati all’imitazione, dopo lo stabilimento di questa dinastia aristotelica che tuttor ci governa dall’alto dell’Istituto, che ormai è quasi un dogma letterario la massima che nulla si crei in Francia; ed è probabile che l’Istituto non manchi di buone ragioni per indurci a crederlo. Però la mia sommessione a’ suoi decreti non saprebbe andar fin là. Le nostre fate benefiche dalla bacchetta di ferro o di nocciuolo, le nostre fate dispettose e arcigne tirate da pipistrelli, le nostre principesse amabilissime e graziosissime, i nostri principi avvenenti e folletti, i nostri orchi stupidi e feroci, i nostri sciabolatori di giganti, le attraenti metamorfosi dell’Uccello azzurro, i miracoli del Ramo d’oro appartengono alla nostra vecchia Gallia, come il suo cielo, i suoi costumi e i suoi monumenti troppo a lungo misconosciuti. Gli è sprezzar troppo una nazione vivace che di suo proprio moto s’è tanto avanzata su tutte le vie della civiltà, il contestarle il merito d’invenzione necessario per mettere sulla scena gli eroi della Biblioteca azzurra.

Se il fantastico presso di noi non fosse mai esistito di sua natura propria e inventiva, astrazion fatta di qualunque altra letteratura o antica o esotica, noi non avremmo avuto società, poichè non vi fu mai società che non abbia avuto il suo.

Le escursioni dei viaggiatori non han mostrato pur loro una famiglia selvaggia la quale non raccontasse qualche storia straordinaria e non ponesse nelle nuvole della sua atmosfera o nel fumo della sua capanna, non so quali misteri, sorpresi al mondo intermediario dall’intelligenza dei vecchi, dalla sensibilità delle donne e dalla credulità dei fanciulli. Quanto agli appassionati orientalisti che ci rubano le favole delle nostre nutrici per farne omaggio ai corifei delle almee e delle bajadere, non si sono seduti qualche volta sotto la capanna del con-