Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
14 | del fantastico in letteratura |
Dante. Egli giunse da sè e tutto solo all’ultimo crepuscolo d’una società spenta, alla prima alba d’una società cominciata, e quantunque egli avesse aperta la carriera, egli giunse da solo anche a compierla. È vero ch’egli pose il teatro della sua terribile fantasmagoria sotto la protezione delle credenze del suo tempo; ma egli le fece sue per le passioni, per gli attori, e anche per i particolari della scena, le quali cose non sono nè omeriche, nè virgiliane, ma dantesche. Si trovan ora sovente dei critici pieni di gusto deploranti l’errore di questa magnifica immaginazione, o la confusione apparente di questa favola poetica, in cui il Virgilio del medio evo piglia per introduttore nell’inferno cristiano il Virgilio del paganesimo.
Questa idea è tuttavia il perno della sua composizione, ed è dessa appunto che la rende sublime. L’inferno con una teogonia particolare sarebbe stato troppo angusto per una si larga invenzione. Bisognava che Dante vi si precipitasse, sul torrente dei secoli senza riguardo alle forme circoscritte di una timida epopea, e ciò che egli ha conservato delle idee universalmente ricevute è invece una concessione ingegnosissima e più che legittima al misticismo della sua epoca che era per natura una delle parti essenziali della Divina Commedia; ma che non poteva formarne esclusivamente l’anima in questa concezione da gigante. Così l’inferno di Dante non somiglia a nessuno degli innumerevoli inferni creati dalla cupa melanconia dei poeti e che rammentano più o meno tra essi i vade-in-pace del monachismo e la camera delle torture dell’Inquisizione. Nella sua architettura colossale contiene tutti gl’inferni ed è atto a ricevere durante i secoli eterni tutte le generazioni dei reprobi. Questa creazione strabiliare non dev’essere misurata col compasso dell’artista e colle unità del retore. La sua grandezza sta nella sua libertà sfrenata, nel diritto conquistato di far riflettere incessantemente sullo specchio a mille facce dell’immaginazione tutti gli aspetti della vita, tutti i riflessi del pensiero, tutti i raggi dell’anima. Non bisogna cercargli, non dico un modello, ma un oggetto di comparazione se non nell’Apocalisse di San Giovanni, e neppure bisogna cercargli degli imitatori felici nei secoli venienti, poichè è questa l’opera speciale di un’epoca soltanto e all’uomo di genio che l’ha concepita appartiene l’espressione di un secolo da cui non si può separare la sua individualità senza mutilarla. Ciò che di esso è passato negli scritti moderni, come il sogno del parricida nei Voleurs, come la prosopopea disperante di Jean Paul, dove Gesù Cristo rivela il nulla eterno alle anime innocenti del Limbo, come la visione incompara-