Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XLIII

Capitolo XLIII

Sul Campidoglio liberato

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XLIII.

SUL CAMPIDOGLIO LIBERATO.


Non appena sul terrapieno, dentro la seconda porta, feci due prigionieri e li disarmai. In breve fummo del tutto padroni della barricata; e detti mano, con i soldati, a disfarla.

Dopo, poco a poco, mi raggiunsero i miei compagni. Assieme corremmo dentro la città verso l’Ambasciata di Francia, che era difesa da due compagnie le quali già aveano imbracciato il fucile in attesa dell’ordine di far fuoco. Ad un tratto, però, ebbero ordine di ritirarsi.

Avanzammo ancora e giungemmo fino a Piazza Montecavallo, dinanzi al Quirinale, quando ancora non vi era giunto alcuno dei nostri soldati. Non avremmo, però, potuto certamente penetrare da soli così addentro la città, se una circostanza non ci avesse favorito. E fu, questa, il passaggio del lungo corteo delle carrozze degli Ambasciatori, i quali si recavano al Quartier Generale di Cadorna sperando, forse, di potersi intrufolare nei patti della resa. Nel trambusto del passaggio dei numerosi equipaggi del Corpo Diplomatico e della numerosa scorta dei Dragoni, che li precedevano, attorniavano e seguivano, potemmo avanzare. Soltanto a me toccò un piccolo incidente. Portando io al braccio i due fucili dei prigionieri che avevo fatti, un dragone della scorta, vedutili, mi venne addosso, forse per disarmarmi. Io gli puntai subito la mia pistola contro. Fu un attimo. Io ero proprio sul punto di sbarazzarmi del dragone, che avea alzata su di me la sciabola nuda, quando egli voltò il cavallo ed, allungando il galoppo, raggiunse il corteo da cui si era staccato.

[p. 234 modifica]Già da qualche tempo eravamo in Piazza Montecavallo, incerti su quel che potessimo fare in tanto pochi, quando vi fummo raggiunti da un grosso distaccamento dei nostri soldati che occupò la piazza. Con questo erano gli altri miei compa- | gni ed altri pochi romani emigrati, che erano riusciti ad entrare in Roma dietro le truppe. Per avanzare dentro città ci dividemmo in due gruppi.

Seguirono alcuni Giuseppe Luciani, il quale cavalcava un superbo cavallo, da lui poco prima tolto ad un ufficiale papalino; e questi discesero per la Dataria per raggiungere il Corso. Io, con gli altri, mi diressi verso Colonna Traiana con la mira di salire al Campidoglio.


Al Foro Traiano trovammo un ostacolo; e dovemmo scambiar qualche colpo.

I muretti che, allora, attorniavano la Colonna di Traiano erano trasformati in eccellenti barricate. Le quali erano difese da un forte nucleo di contadini e di pastori della Ciociaria armati, che il Papa soleva arruolare come forze ausiliarie alla sua polizia, gente bestiale e violenta, dal popolo di Roma, che la dispregiava, detta «Zampitti».

Questi, da dietro le lor barricate, ci accolsero con una scarica generale, ma incruenta. Troppo pochi per assaltar allo scoperto le barricate, riparammo in una bottega alla estremità della Piazza fra Santa Maria di Loreto e Santa Maria di Vienna.

Questa bottega avea due sporti, dietro i quali ci barricammo anche noi e rispondemmo al fuoco degli «Zampitti». Continuò lo scambio dei colpi. Ciò terrorizzò la buona bottegaia, la quale avea intorno una nidiata di piccoli bambini, anch’essi pieni di spavento. La povera donna si mise ad implorarmi disperatamente:

— Per amor di Dio, per amor della Madonna andatevene via.., non fate che quella gente feroce massacri una povera mamma di tanti figliuoli!...

E strillava forte e piangeva, mentre che i piccoli, anch’essi [p. 235 modifica]piangenti, mi abbracciavano le gambe, impedendomi ogni movimento.

Era proprio una pietà. E, poi, eravamo pochissimi; in quella bottega senza altra uscita rischiavamo di essere presi in trappola.

E rimanere, sia pure per poco, prigionieri di quella gente proprio non ci sorrideva. Così, con un’audace sortita, ci gettammo fuor del nostro momentaneo rifugio; e, battendo in ritirata, sotto l’ostinato fuoco dei «Zampitti», ci volgemmo per tornare al Quirinale. Uno della nostra piccola squadra, Francia, si beccò una palla zampitta in una gamba; soffriva molto e bisognò portarlo. Lo mettemmo al sicuro dentro il portone di una casa ed in quattro salti fummo di nuovo a Montecavallo, Dove, nel frattempo, era arrivata altra truppa nostra.


E, proprio io, che tanto avevo desiderato che fossero i Romani ad aprire le porte della città a Re Vittorio ed insediarlo trionfalmente nella sua Reggia, dovetti assistere a questo fatto, strano e piuttosto umiliante. Gli ufficiali che aveano il comando di quelle truppe vollero entrar nel Quirinale, il cui portone era sbarrato e che, ai reiterati colpi, nessuno avea aperto. Avevano, allora, mandato in cerca di un magnano che forzasse il portone. Ed il magnano — il quale era Maso De Sanctis, fratello dell’artista di questo nome — si apprestava a compiere l’effrazione, nel momento in cui io ero di nuovo giunto dinanzi al Quirinale. Il buon Maso compì presto e destramente l’ufficio richiestogli; così soltanto i soldati del Re poterono penetrare nella futura Reggia. E pochi giorni dopo, per entrar negli appartamenti, si dovette di nuovo ricorrere all’opera di un magnano.

Intanto, lì a Montecavallo, convenivano cittadini ed amici, ebbri di gioia; e furono strette di mano ed abbracci che non finivan più. Finchè tornai al mio proposito di salire al Campidoglio. Ed, accompagnato da uno stuolo degli amici ritrovati ed altri cittadini, per le vie ormai sgombre dai mercenari del Papa e che cominciavano a popolarsi, mossi di nuovo verso [p. 236 modifica]il sacro colle. Cammin facendo mi fu, più volte, sorpresa carissima sentir da passanti acclamato il mio nome; eran, per lo più, popolani già affiliati al mio «Centro di Insurrezione», i quali si univano a noi. Quando giunsi col mio seguito al Palazzo Senatorio, sede anche allora del Municipio, vi trovai adunati cittadini che vi erano accorsi per provvedere alle più urgenti necessità pubbliche. Vi erano: Don Ignazio Boncompagni Principe di Venosa, Don Emanuele Ruspoli, Vincenzo Rossi ed altri che or non ricordo.

Queste egregie persone mi mostrarono una lista, ch’essi avean buttato giù, per formare una Giunta Municipale provvisoria. Nella lista era compreso il mio nome. Ma io dichiarai esser necessario che vi si comprendesse anche il nome di qualche popolano, dei tanti che avean provato con i fatti la lor devozione alla causa nazionale. Esitando quei signori ad annuire alla mia proposta, io mi alzai per andarmene. Ma tutti quanti i convenuti, ad una voce, ritennero indispensabile ch’io rimanessi; ed, a trattenermi, mi dissero molte amorevoli parole; pure taluno mi usò cortese violenza perchè non me ne andassi. Ed io rimasi.

E rimasi, anche, dopo che quei signori se ne furono andati. C’erano immediate misure da prendere, qualcuno bisognava ben che le prendesse. Mi determinai, quindi, ad assumermi tutta la responsabilità della situazione. E mi installai in Campidoglio, avendo a fianco Vincenzo Rossi ed intorno molti dei miei migliori uomini del «Centro di Insurrezione», fedeli e disinteressati.

Gli impiegati municipali, quasi tutti, aveano creduto bene di non presentarsi, in quel giorno, all’ufficio loro. Per la prima cosa, li mandai subito a prendere tutti quanti alle lor case. E, quando li ebbi davanti, vivamente li rimproverai per aver disertato il loro posto in un giorno in cui più che mai era necessaria l’opera loro. Ingiunsi ad essi di stare in permanenza in Campidoglio, come vi sarei rimasto io. Dissi loro che esigevo che tutti quanti i servizi pubblici, da ciascun di essi [p. 237 modifica]dipendente, doveano andar come per l’ordinario, anzi meglio che per l’ordinario, per contribuir, con ciò, a mantener l’ordine. Che si tenessero, poi, a mia disposizione per tutto quanto l’eccezionalità del momento avesse richiesto al Municipio di Roma. Nessun nè battè ciglio, nè disse verbo.

Così, per due o tre giorni, io mi trovai ad esser a capo del Municipio di Roma libera. Nessuno pensò a contestare, in que’ giorni, la mia autorità. Solo Cadorna, del resto, avrebbe potuto legittimamente togliermela; ma, invece, egli mi mostrò il suo pieno gradimento per quanto feci. Conoscendo bene uomini e cose di Roma, avendo appartenuto già al Municipio, trovandomi attorniato da parecchi amici volonterosi e capaci, potei provvedere subito ad ogni occorrenza. Provvidi ai locali per i comandi, agli aquartieramenti per i soldati, agli alloggi per gli ufficiali; e tutto ciò mi fu relativamente facile, risparmiando più che si potesse chiese e conventi ed approfittando, con ogni discrezione, delle tanto spaziose dimore della nobiltà romana. Anche i rifornimenti delle vettovaglie e dei foraggi furono oggetto del mio assiduo lavoro.


Questo mio modesto ma necessario ufficio era, ad ogni momento, disturbato da gente di ogni sorta, che volea sempre qualcosa da me ed alla quale bisognava dar ascolto.

Fu fortuna che, in quei primi giorni di libertà, Roma fosse mirabile di disciplina e di ordine. Sembrava che i Romani comprendessero che tutto il mondo, in quei giorni, avea gli occhi su di loro; e non avvenne alcun incidente degno di nota. È, quantunque si consumasse nelle osterie molto più vino che per l’ordinario, nessuno eccesso si ebbe a lamentare.


Un po’ di chiasso ci fu in Campidoglio la sera del 20 settembre. Ma fu cosa che finì presto. Intorno alla statua di Marco Aurelio c’era piena di gente che, a capannelli, occupava anche i portici e le rampe fin giù a Piazza Aracoeli. A questa folla si aggiunse un corteo di persone che venivano a domandare [p. 238 modifica]l’immediata liberazione dei prigionieri politici. Di questi rigurgitavano le carceri pontificie. Specie dopo i fatti del ’67 il numero dei prigionieri politici era andato vieppiù aumentando.

Parecchi arresti arbitrari, per causa politica, eransi fatti anche negli ultimi giorni. La barbarie di quel Governo, inoltre, era tanta che questa brava gente, rea solo di amar l’Italia e la Libertà, era sottoposta a soffrire nelle prigioni la promiscuità con delinquenti di reati comuni: con ladri, assassini, truffatori, lenoni e simili.

Ben si capiva come ai parenti ed agli amici dei prigionieri politici stesse a cuore che, per questi, l’umiliante prigionia non durasse un’ora sola di più; e come, in quel giorno di patriottico tripudio, il popolo generoso, pure, anelasse di veder liberi quei concittadini. Nello schiudere ad essi le porte del carcere, il popolo vedeva la prova concreta che l’odioso Governo Papale era cessato, che Roma era finalmente libera. Così i cittadini, che si trovavano sul Campidoglio, si univano ai sopravvenuti nel domandare a gran voce la scarcerazione degli onesti concittadini tanto crudelmente trattati.

Le grida per ottenerlo facendosi vieppiù alte, insistenti e generali, a me alieno, ed anzi ripugnante dall’oratoria, toccò di fare quello che non avevo mai fatto nè mai più feci in vita mia: arringai il popolo e dissi alto, colle migliori parole che seppi trovare, essere impossibile a quella tarda ora — si era intanto abbuiato — di liberare i prigionieri politici, poichè, data l’infamia del Governo, che in quel giorno cessava di funestar la nostra Roma, di chiudere i galantuomini con i birbanti, si rischiava di dar la via anche a questi.

Ma la folla non l’intendeva affatto che quei bravi concittadini dovessero passare in prigione la prima notte di Roma liberata; li voleva fuori a partecipare alla comune gioia di tutti i Romani. La ragione da me addotta non appagava. E le grida insistevano, facendosi quasi minacciose.

— Noi li conosciamo! Noi li conosciamo!... Li vogliamo subito fuori!...

[p. 239 modifica]Forza mi fu di tornare al balcone. Ma questa volta non vi andai solo. Alcuni ufficiali delle truppe nazionali che occupa- vano il Campidoglio stavano a bivacco nella gran «Sala dei Conservatori »; ed io li pregai di presentarsi con me al popolo tumultuante. Essi mi compiacquero. Ed, avendoli ai fianchi, mi feci di nuovo al balcone. La improvvisa apparizione degli uf- ficiali, rischiarati al lume di torcie, sorprese la folla la quale per un istante cessò ogni clamore; e, poi, scoppiò in un fra- goroso applauso, che durò un pezzo. Feci cenno di voler par- lare ed, ottenuto silenzio, ammiccando gli ufficiali, ad alta voce dissi :

— Vedete voi questi uomini ?... Essi in cinque ore han libe- rato Roma.... Ma, prima, per rispetto alla disciplina, per obbe- dire agli ordini, per ben due mesi hanno penato negli accam- pamenti in mezzo alla Campagna piena di febbri, han sudato nelle marce, hanno sopportato ogni disagio... Son sicuro che I nostri eroi politici, che già ora gioiscono nella loro prigione, saranno contenti di passarvi una sola notte ancora, poichè do- mani alla luce del sole li libereremo e li porteremo in trionfo sulle nostre spalle. E son pure certo che essi non vogliono davvero che si corra il pericolo che, assieme ad essi, siano fatti liberi assassini e ladri!...

A queste mie parole ci fu qualche isolata protesta, qualche sussurro. Ma la massa del popolo rimase persuasa e plaudì.

Dopo di aver di nuovo acclamato agli ufficiali, sicura ormai della tanto bramata liberazione, tranquillamente si disperse.

Io tornai al mio febbrile lavoro.


Il giorno dopo io avea l'altissimo onore e la immensa gioia di apporre la mia firma all’ordine della liberazione dei prigio- nieri politici.

Alcuni anni or sono Sua Maestà la Regina Margherita mi domandava:

— Lei, Costa, è stato il primo ad entrare in Roma per la breccia di Porta Pia? [p. 240 modifica]— Non per la breccia, Maestà, — io risposi — ma per la Porta. Ed ho avuto l’altissimo onore di firmare, sul Campidoglio, il decreto che liberava i prigionieri politici.

E la Regina amabilmente rilevò:

— Lei, così, ha avuto una gran bella ricompensa, degna del suo patriottismo.


Non pochi altri incidenti vennero a turbare, specie nelle prime ore, il lavoro di quella mia improvvisa magistratura. Tra questi, due mi son rimasti impressi, che dan colore al quadro degli avvenimenti di quei memorandi giorni romani.

Non era ancora abbuiato, la sera stessa del 20, quando giungeva in Campidoglio il Professore di Medicina Guido Baccelli, la fama scientifica del quale era già, fin da allora, assai grande. Non seppi allora e non so neppure adesso, che cosa precisamente l’uomo illustre fosse venuto a fare in quel giorno ed in quell’ora in Campidoglio. Suppongo che egli, venendovi, intendesse far pubblica adesione al nuovo ordine di cose. A cercarvi un poco di popolarità, che sapeva di non aver meritata. Perchè, bisogna dire, come il Prof. Baccelli — a differenza del Prof. Maggiorani col figlio, il Dottor Diomede Pantaleoni, ed altri illustri medici romani del tempo, che si erano tanto compromessi nel movimento nazionale da dovere esulare — era stato sempre alla Santa Sede ed al Regime Papale assolutamente ligio; nemmeno avea egli avuto mai il minimo contatto con quel «Comitato Nazionale Romano» che, pure, alla Santa Sede mai aveva turbato i sonni. Ed, in ciò, egli era stato più sincero dei capi di questo.

Ciò spiega perchè, giunto sul Campidoglio, il Prof. Baccelli vi fosse assai ostilmente accolto dai cittadini che vi si trovavano; la massima parte dei quali, o personalmente o per via di amici e parenti, avevano avuto da penare a causa del regime a quello sì caro.

La dimostrazione facendosi vieppiù violenta, l’illustre scienziato si rifugiò nel Palazzo. Ma qui, per lo scalone e su nelle

[p. 241 modifica]sale, pure piene di gente, fra cui non pochi fuorusciti rientrati in Roma poche ora prima dietro le truppe italiane, vi ebbe accoglienze ancor più ostili. Io, accorso al clamore, al Baccelli rosso ed eccitato, in tono cortese consigliai di ritirarsi. Egli, allora, ancor più alterato, mi rispose molto concitate parole, fra cui afferrai queste:

— Così si tratta un luminare della scienza?...

Al che io ribattei secco:

— Qui si è tutti in ottima salute.... Nessuno ha bisogno della sua scienza!... Qui, ora, non occorrono scienziati.... Ci vogliono uomini popolari... Voi non lo siete.... se la vostra ora deve venire, verrà... Non è questa!

E lo feci scortare alla sua carrozza, onde garantirlo da qualsiasi possibile violenza.


La stessa sera del 20, assieme ad altri due individui, mi si presentava in Campidoglio Costanzo Chauvet. Costui mi era ben noto, da qualche tempo, fin da Firenze; dove, lasciato l’Esercito in cui egli era stato sergente, aveva con azioni poco pulite, anche a danno di soldati e di reduci di Mentana, iniziato la sua carriera di avventuriero che doveva essere tanto fortunata. Perciò, quella sera, non lo vidi punto volentieri. Nè accolsi quanto egli mi domandava, che non ricordo più che fosse, ma ben mi sovviene che era faccenda che gli avrebbe permesso di intrufolarsi nelle relazioni fra il Generale Cadorna e me. Gli dissi brusco non esservi alcun bisogno di lui. Egli, insistendo al punto di diventare insolente, dai giovinotti ch’io avea intorno, me lo feci levar di davanti.


Debbo confessare che, durante i miei brevi poteri, commisi un vero arbitrio. Arbitrio, perchè l’atto da me compiuto, usciva dai compiti che le urgenti necessità della tanto eccezionale circostanza mi assegnavano. Ma che, pertanto, mi parve ben rispondere allo spirito del grande mutamento che era avvenuto in Roma. Tutte le nudità di statue, di bassorilievi, di opere [p. 242 modifica]d’arte dei Musei e dei Palazzi Capitolini erano, per la falsa pudicizia dei tempi che aveano termine, deturpate con drappeggi in gesso od in bronzo o con le solite ridicole foglie di fico.

Io, approfittando del mio momentaneo potere, resi omaggio all’Arte, restituendo a tutte le nudità del Campidoglio intera la loro libera forma.


[p. I 53 modifica] Gian Gualberto Guerrazzi. Nino Costa sul letto di morte.