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piangenti, mi abbracciavano le gambe, impedendomi ogni movimento.
Era proprio una pietà. E, poi, eravamo pochissimi; in quella bottega senza altra uscita rischiavamo di essere presi in trappola.
E rimanere, sia pure per poco, prigionieri di quella gente proprio non ci sorrideva. Così, con un’audace sortita, ci gettammo fuor del nostro momentaneo rifugio; e, battendo in ritirata, sotto l’ostinato fuoco dei «Zampitti», ci volgemmo per tornare al Quirinale. Uno della nostra piccola squadra, Francia, si beccò una palla zampitta in una gamba; soffriva molto e bisognò portarlo. Lo mettemmo al sicuro dentro il portone di una casa ed in quattro salti fummo di nuovo a Montecavallo, Dove, nel frattempo, era arrivata altra truppa nostra.
E, proprio io, che tanto avevo desiderato che fossero i Romani ad aprire le porte della città a Re Vittorio ed insediarlo trionfalmente nella sua Reggia, dovetti assistere a questo fatto, strano e piuttosto umiliante. Gli ufficiali che aveano il comando di quelle truppe vollero entrar nel Quirinale, il cui portone era sbarrato e che, ai reiterati colpi, nessuno avea aperto. Avevano, allora, mandato in cerca di un magnano che forzasse il portone. Ed il magnano — il quale era Maso De Sanctis, fratello dell’artista di questo nome — si apprestava a compiere l’effrazione, nel momento in cui io ero di nuovo giunto dinanzi al Quirinale. Il buon Maso compì presto e destramente l’ufficio richiestogli; così soltanto i soldati del Re poterono penetrare nella futura Reggia. E pochi giorni dopo, per entrar negli appartamenti, si dovette di nuovo ricorrere all’opera di un magnano.
Intanto, lì a Montecavallo, convenivano cittadini ed amici, ebbri di gioia; e furono strette di mano ed abbracci che non finivan più. Finchè tornai al mio proposito di salire al Campidoglio. Ed, accompagnato da uno stuolo degli amici ritrovati ed altri cittadini, per le vie ormai sgombre dai mercenari del Papa e che cominciavano a popolarsi, mossi di nuovo verso