Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XLIV

Capitolo XLIV

Il plebiscito della Città Leonina

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Capitolo XLIV

Il plebiscito della Città Leonina
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XLIV.

IL PLEBISCITO DELLA CITTÀ LEONINA.


I poteri, di cui il caso e la necessità delle cose mi aveano investito, non potevano durar molto. lo più d’ogni altro lo comprendeva, come d’altra parte, assai che presto cessassero desiderava. Allo scopo io stesso, fin dal 21 settembre, mi presi premura di provvedere a chi potesse sostituirmi. In quel giorno, appunto, era tornato a Roma da un ben lungo ed onorato esilio il mio vecchio amico Mattia Montecchi, il quale aveva avuta assai parte nel Governo della Repubblica Romana nel ’49; ed io fui ben lieto di averlo a coadiuvarmi nella formazione di una lista di notabili romani per costituire una rappresentanza cittadina provvisoria. Nel farlo, avemmo cura di evitare che qualsiasi partito politico in questa avesse la prevalenza.

Scegliemmo, perciò, i nomi che sapevamo essere generalmente bene accetti alla cittadinanza, e di ogni gradazione politica Tenemmo, inoltre, presente che questa Giunta avea da occuparsi solo, ed in via provvisoria, di cose municipali.

In tal lista figuravano i nomi seguenti: Don Onorato Caetani, Principe Odescalchi, Don Ignazio Boncompagni, Don Emanuele Ruspoli, Professor Guido Baccelli, Mattia Montecchi, Vincenzo Rossi ed io, Nino Costa.

[p. 243 modifica]Fatta la lista, ci abboccammo col Generale Masi, prima, e, poi, col Generale Cadorna; i quali l’approvarono pienamente. Solo ci suggerirono di aggiungere il nome di Don Michelangelo Caetani Duca di Sermoneta. Ottimo suggerimento, da noi tanto volentieri accolto che questo nome noi mettemmo a capolista.

Il giorno dopo, 22 settembre, da un gran comizio cittadino, da noi espressamente convocato al Colosseo e riuscito affollatissimo, questa lista veniva approvata per acclamazione.


Avevamo avuta seria assicurazione che pure il Governo si rendesse conto come la solennità del gran momento storico, l’importanza internazionale di quanto era avvenuto, esigessero la massima concordia nella cittadinanza romana; che, perciò, tale concordia cittadina alla quale, del resto, erano tutti gli animi, in quei giorni, proclivi, non fosse guasta da nulla di partigiano. Ci s’era dato per certo che a questo concetto si sarebbe inspirata la politica del Governo, anche per ciò che toccava alla provvisoria amministrazione del Municipio Romano.

Il Generale Cadorna, approvando la lista che gli avevamo presentata, si era uniformato a tale politica. Del resto egli era rimasto molto soddisfatto dell’opera mia e di Vincenzo Rossi in Campidoglio, nel far camminar bene tutti i servizi municipali e per parare alle prime occorrenze della occupazione. Eccellenti erano stati i nostri reciproci rapporti.

Sono quindi sicuro che il Generale Cadorna, il giorno 23, nè spontaneo, nè volentieri disdicesse quanto avea approvato il 22; nominando esso di autorità, e senza alcuna sanzione di voto cittadino, una Giunta Amministrativa Provvisoria, la quale comprendeva, presso a poco, le stesse persone di quella da noi proposta ed approvata. Solo ne fummo esclusi Mattia Montecchi, Vincenzo Rossi ed io.

Non mi sono mai curato di indagare come un uomo saggio e di alti sensi patriottici, quale mi apparve, e fu in ogni altro suo atto, il General Cadorna, abbia potuto agire con tanta [p. 244 modifica]antipatica inopportunità. Perchè veniva, con un atto di gretta partigianeria, a rompere la bella concordia che, nel tripudio della liberazione, regnava assoluta in quei giorni tra i Romani. Si disconosceva il primo voto del Popolo Romano liberato, si faceva ingiuria a tre onorati cittadini, che ogni personale loro interesse avean sempre posposto alle esigenze della Patria e della Libertà. Ed, ancor più grave, si offendeva la veneranda canizie di Mattia Montecchi, uomo di tempra antica, figura veramente degna dei tempi in cui Roma fu più austera e più grande. Suppongo Cadorna fosse indotto ad un atto, certo repugnante alla sua lealtà ed alla sua interezza di soldato e di gentiluomo, da ordini telegrafati da Firenze. I quali ordini, immagino, che nessuna urgente necessità politica poteva menomamente giustificare, dovettero esser provocati da taluni degli avanzi del «Comitato Nazionale Romano», così funesto come vedemmo, ch’io avea sempre tanto combattuto e dispregiato; i quali trovarono nello spirito consortesco del Governo molto pronta compiacenza.

Così cessò il mio effimero potere. L’affronto fattomi, come troppo non mi sorprese, così molto non mi dolse. lo nè mai avea ricercate, nè mai ambite pubbliche cariche E, poi, Roma era libera e ricongiunta all’Italia. L’ardente brama di tutta la vita mia era soddisfatta!...


L’ostilità consortesca, però, contro la mia persona, amo credere per eccesso di servile zelo di poliziotti, doveva raggiungere il grottesco. Il giorno 24 si insediava in Campidoglio la Giunta Provvisoria Municipale imposta ai Romani, in luogo di quella da essi, con l’assenso di Cadorna, acclamata al Colosseo. Mi parve mio dovere essere presente, onde dar ragione, occorrendo, dell’opera mia durante i tre giorni dei miei poteri. Ma, andato al Campidoglio, lo trovai circondato da cordoni di Bersaglieri; e, quando mi accingeva ad oltrepassare il primo, un ufficiale di questi, mettendomi una mano al petto, mi domandò ch’io fossi:

[p. 245 modifica]— — Giovanni Costa.... — risposi.

— Castrati? — chiese l’Ufficiale.

(V’era in Roma un Filippo Costa Castrati, non parente ma mio intimo, generoso contribuente al «Centro di Insurrezione» del ’67.)

— No davvero!... — risposi pronto.

E l’ufficiale:

— Allora lei non può passare.

Ed io:

— E lei, che appartiene alla gloriosa arma dei Bersaglieri, ha incarico di respingere dal Campidoglio.... i non castrati?...

— Silenzio!.. — seppe solo rispondermi l’ufficiale, che, pur tendendo verso di me la punta della sua sciabola, se la rideva sotto i baffi.


Tale spirito del Governo dei moderati fu davvero una stonatissima nota nell’armonia di generale entusiasmo della Roma di quei giorni. E non fu, la politica bassamente partigiana da esso iniziata, senza qualche mala influenza sullo svolgimento successivo della vita pubblica romana. La quale doveva avere nella elezione a deputato di Giuseppe Luciani, finito in galera, nel coccapiellerismo etc. episodi indegni.

Principalmente per compiacere a Mattia Montecchi, come la firmò Vincenzo Rossi, così pur io misi la mia firma ad una protesta per la nostra esclusione dalla Giunta Municipale Provvisoria, che egli formulò e che venne presentata, a mezzo di un notaro, al Generale Cadorna.


Malgrado tutto ciò, io ritenni di non avere terminato il mio compito politico in Roma fatta libera. Come è ben noto, la parte di Roma che si estende al di là dal fiume e che comprendeva allora i due rioni di Trastevere e di Borgo, compresi sotto il nome di «Città Leonina», nella mente del Governo avrebbe dovuto rimanere in dominio del Papa. E, difatti, su quella parte della città non venne in quei primi giorni, dopo [p. 246 modifica]l’occupazione, esercitato alcun potere politico; solo vi stazionavano, per mantenervi l’ordine e per la difesa del Vaticano, parecchi Carabinieri ed un forte distaccamento di truppe.

Tralascio dal rilevare le fastidiose conseguenze politiche ed altre, sì per il Governo Nazionale che per lo stesso Vaticano, le quali immancabilmente avrebbe condotto seco l’attuazione di un tale proposito. Debbo, però, notare come ed in Trastevere ed in Borgo fossero più generali e vivaci, che non in ogni altra parte di Roma, il sentimento nazionale, l’avversione al Regime Pontificio, la volontà di far parte del Regno. In quei rioni, durante la mia cospirazione tra il ’64 ed il ’67, io avea trovato, massime tra i popolani, gli affiliati più generosi, più decisi, più fedeli alla causa nazionale. In Trastevere, nell’ottobre del ’67, erasi consumato l’orrendo massacro di Giuditta Tavani Arquati e dei compagni suoi. In Trastevere è la casa ove io nacqui e vi sono, nella chiesa di San Francesco a Ripa, le tombe di mio padre e di mia madre. Il Plebiscito di Roma era indetto per il 2 ottobre. E si erano eretti nelle piazze di ogni rione palchi con sopra le urne per raccogliere i voti dei cittadini. Nella Città Leonina, conformemente alla presa decisione del Governo di lasciarla al Papa, non si era inalzato alcun palco; i suoi cittadini erano, da quello, respinti fuori della famiglia italiana, non potevan, quindi, partecipare al Plebiscito.

Alcuni amici ed io allora, decidemmo che e Trasteverini e Borghigiani avesser, comunque, da partecipare anch’essi al Plebiscito alla pari di tutti gli altri Romani: di dar loro modo di esprimere la propria volontà. E col mio caro Nino Castellani — quello stesso assieme al quale, nel ’48, ero stato promotore dell’arruolamento dei volontari che formarono, poi, la Legione Romana — e con Parboni, Erculei e qualche altro erigemmo, senza che l’autorità osasse impedirlo, su la piazzetta di Borgo il palco per il Plebiscito in tutto simile agli altri, con le relative urne. A deporre in queste il loro voto, in gran folla accorsero i cittadini dei due rioni. In tutti grande gioia ed entusiasmo; ma, insieme, ordine e compostezza i più perfetti.

[p. 247 modifica]Chiusa la votazione, che s’era compiuta con tutte le modalità disposte, tra un indescrivibile tripudio di popolo, preceduti da musiche e bandiere, portammo l’urna in Campidoglio, ove si concentravano, per lo spoglio complessivo dei voti, le urne di tutti i rioni ed ove erano, a riceverle, le autorità preposte al Plebiscito con due notari. Assisteva anche il Commissario del Re. L’urna nostra era sormontata da una grande scritta che diceva: Città Leonina. Sì. A migliaia Trasteverini e Borghigiani la attorniavano e la seguivano. Fragorosi, infiniti applausi ci accoglievano per le vie ed in Campidoglio.

Quivi già si erano ricevute le urne di molti altri rioni. Cogliemmo il buon momento per farci avanti noi, per consegnar la nostra urna. Le autorità esitavano, mentre i nostri cominciavano a tumultuare, e si volsero al Commissario del Re — era il Barone Blanc, che giovane fu accosto a Cavour, più tardi Ambasciatore e Ministro degli Affari Esteri — come per chiedergli che dovesse farsi. Fu un attimo di immensa trepidazione. Finalmente il Barone Blanc esclamò:

— Avanti la Città Leonina!...

Se ci avesser respinti, sa Iddio quel che sarebbe avvenuto!...

L’urna da noi consegnata conteneva 40 835 voti per l’unione al Regno di Vittorio Emanuele, 46 contrari.

Così anche Trastevere e Borgo vennero uniti al Regno. E la Santa Sede fu salva dal grosso guaio di un dominio temporale su più di 40 000 sudditi che d’essa non volevano sapere e che sarebber stati, con grandissimo imbarazzo anche per il Governo Nazionale, in continua ribellione.

Ancora una volta il popolo si manifestava più savio dei suoi governanti!...