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sale, pure piene di gente, fra cui non pochi fuorusciti rientrati in Roma poche ora prima dietro le truppe italiane, vi ebbe accoglienze ancor più ostili. Io, accorso al clamore, al Baccelli rosso ed eccitato, in tono cortese consigliai di ritirarsi. Egli, allora, ancor più alterato, mi rispose molto concitate parole, fra cui afferrai queste:

— Così si tratta un luminare della scienza?...

Al che io ribattei secco:

— Qui si è tutti in ottima salute.... Nessuno ha bisogno della sua scienza!... Qui, ora, non occorrono scienziati.... Ci vogliono uomini popolari... Voi non lo siete.... se la vostra ora deve venire, verrà... Non è questa!

E lo feci scortare alla sua carrozza, onde garantirlo da qualsiasi possibile violenza.


La stessa sera del 20, assieme ad altri due individui, mi si presentava in Campidoglio Costanzo Chauvet. Costui mi era ben noto, da qualche tempo, fin da Firenze; dove, lasciato l’Esercito in cui egli era stato sergente, aveva con azioni poco pulite, anche a danno di soldati e di reduci di Mentana, iniziato la sua carriera di avventuriero che doveva essere tanto fortunata. Perciò, quella sera, non lo vidi punto volentieri. Nè accolsi quanto egli mi domandava, che non ricordo più che fosse, ma ben mi sovviene che era faccenda che gli avrebbe permesso di intrufolarsi nelle relazioni fra il Generale Cadorna e me. Gli dissi brusco non esservi alcun bisogno di lui. Egli, insistendo al punto di diventare insolente, dai giovinotti ch’io avea intorno, me lo feci levar di davanti.


Debbo confessare che, durante i miei brevi poteri, commisi un vero arbitrio. Arbitrio, perchè l’atto da me compiuto, usciva dai compiti che le urgenti necessità della tanto eccezionale circostanza mi assegnavano. Ma che, pertanto, mi parve ben rispondere allo spirito del grande mutamento che era avvenuto in Roma. Tutte le nudità di statue, di bassorilievi, di opere