Prima morire/V
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V.
Leonardo Giordani ad Augusto.
È il meglio che tu possa fare; non pensarci più. Sai che cosa farei, io se fossi nel caso tuo ed avessi il tuo carattere? Cambierei alloggio.
I tuoi nervi sono pericolosi. Non mi fido troppo di quest’antipatia improvvisa, perchè hai letto una lettera ironica. Che tu veda un’altra volta la punta bianca d’un piedino traverso le persiane del bagno, e sei fritto.
Tu hai la testa più disgraziata che sia uscita dalle mani del Creatore. Hai due lenti d’ingrandimento dinanzi agli occhi. Vedi tutto più grande del vero, e per conseguenza i tuoi apprezzamenti sono sempre sproporzionati. È una disgrazia che ti rende la vita più difficile assai che non sia in realtà.
Vorrei che tu fossi qui con me. Questo è il paese della prosa. Ti sfiderei a trovare un argomento per esaltarti in questo ambiente borghesemente monotono.
Peccato che la musica non possa essere una fonte di guadagno fra questi provinciali positivi e sparagnini. Se ti vedessi stabilito qui, sarei tranquillo sul conto tuo.
Non c’è sistema nervoso, irritabile quanto vuoi, che non s’allenti e non si calmi al regime di trenta giornate ogni mese, che si succedono inesorabilmente uguali dalla prima all’ultima.
La mia vita è regolata come un orologio.
Mi alzo alle sei del mattino; mi vesto, poi suono il campanello. Giurerei che dal primo giorno che l’ho sonato fino a questa mattina, non ha mai dato una vibrazione di più nè di meno.
Immediatamente si apre l’uscio e compare un servitore puntuale, silenzioso come il fantoccio di una scatola a sorpresa.
È un Tedesco, ed io gli domando nella sua lingua:
— I signorini sono pronti?
— Ia, mein Herr, — risponde il fantoccio.
— Dite che favoriscano scendere; io li raggiungo.
Il fantoccio rientra nella scatola. Io prendo un ombrello, un cappello di paglia e scendo le scale.
Nell’atrio, presso la scalinata che mette al giardino, trovo i miei scolari languidi e biondi e scoloriti, talmente uguali fra loro che si confondono come Giroflé e Girofla, come un atto notarile fatto in doppio originale.
La cameriera che li ha accompagnati in quel gran viaggio giù dalle scale, ed è stata a custodirli finchè io non fossi venuto a rilevarla, appena mi vede si ritira colla gravità di chi sente d’avere compiuto un dovere.
I due ragazzi mi si fanno incontro lentamente, e mi dicono, uno dopo l’altro, con voce svogliata:
— Good morning, sir.
Oppure se è la settimana del tedesco:
— Guten Morgen, mein Herr.
Naturalmente, siccome la mia idea fissa sarebbe di infondere un po’ di vita in questi due fantoccini bianchi coi capelli di stoppa, anch’io ricomincio ogni mattina lo stesso discorso:
— Che bisogna animarsi, alzar la voce, muoversi, correre. Non sentono come si respira bene il mattino? Che aria pura! Ah!!! allarga i polmoni; ringiovanisce. E la natura? Non è bella come un poema, colla sua immensa gradazione di verde, colle sue catene di monti azzurri che si perdono all’orizzonte? E quando vedono un bel prato liscio, ampio, non sentono il bisogno di correre, di saltare, di avvoltolarsi nell’erba? Io lo sento, io che sono uomo, e che potrei essere loro padre. Non è bella la vita? Non godono di sentirsi vivere?
E così tiro via per tutta la lunga passeggiata, animandomi, esaltandomi solo, senza riescire a scuotere menomamente le mie due statuine di cera.
Figli d’un padre vecchio e d’una madre malaticcia, si direbbe che non hanno sangue nelle vene, che hanno ereditate quelle due debolezze riunite, le quali paralizzano la loro scarsa vitalità.
Hanno un’intelligenza limitatissima, non aiutata dalla volontà. La loro volontà è assolutamente nulla. Il loro babbo, che li tratta con un sussiego glaciale, li ha avvezzati a non volere, a vivere passivamente.
Non l’ho mai veduto accarezzare i suoi figli. Credo non abbia mai sorriso in tutta la sua lunga vita. Parla così poco, che potrebbe essere muto senza provarne il menomo inconveniente.
L’unica cosa che ama è il viaggiare. Cioè, non so veramente se l’ami; ma ha viaggiato molto, tutta la sua gioventù. Altre volte era ufficiale di marina. È genovese. Quando volle ammogliarsi venne in Italia, si stabilì nel suo vecchio palazzo paterno, e sposò una giovinetta del patriziato romano.
La salute della moglie, che è morta da parecchi anni, e poi la salute dei bambini a cui il medico raccomanda questo clima, gli impedirono di riprendere la sua vita nomade. Ma mi pare che s’annoi a morte in questo piccolo villaggio perduto sulla riviera, dove torreggia il suo vasto castello isolato e silenzioso. Passa delle ore sulla spiaggia, immobile, coll’occhio fisso nella lontananza infinita del mare.
Ha una serie di persone di servizio tutte straniere. Ve ne sono di tedesche, d’inglesi, di spagnuole; vi sono dei negri che parlano un linguaggio misto di francese e d’americano, a cui il loro accento gutturale dà un carattere barbaro.
Egli parla sempre inglese o tedesco ai ragazzi. Io stesso ho ricevuto l’ordine di non discorrere mai in italiano con loro. Essi comprendono tutte le lingue straniere che si parlano in casa, rispondono a tutte, ma non conoscono la nostra.
È un’idea fissa del marchese. Dice che appena si saranno fatti un po’ robusti dovranno viaggiare, e non vuole che facciano la figura di quei francesi e di quegli inglesi ignoranti, che girano tutto il mondo parlando unicamente la loro lingua, come se tutte le nazioni fossero obbligate ad impararla per rispondere a loro. E per avvezzare i bambini a parlare le lingue straniere, non vuole che studino l’italiana.
Così queste due povere creaturine non possono aver comunicazioni cogli altri ragazzi della loro età. Il loro grado e l’aristocrazia del padre contribuiscono ad isolarli.
I bambini dei contadini e quelli dei pochi possidenti del paese, li guardano a bocca aperta e li chiamano con riverenza i marchesini; ma non osano accostarli, nè rivolger loro la parola. Sanno che non comprenderebbero, e li considerano come esseri d’una specie differente dalla loro.
Quando li porto fuori, traversano il paese tenendosi per mano, meravigliati della meraviglia che destano, e tuttavia così avvezzi a destarla, che ormai non ne parlano più.
Sentono continuamente parlare intorno a loro un linguaggio che non comprendono e che li isola. Sono sempre soli loro due, vivono la stessa vita; osservano le stesse cose, fanno le stesse riflessioni, pochissime per tutti e due, e non sentono il bisogno di discorrere, perchè si comprendono troppo. A questo modo passano senza carezze, senza gioie, senza allegria, senza chiasso, la loro infanzia sonnacchiosa.
Io ci ho posto affetto per la pietà che m’inspirano; ma non sono amabili; non hanno nessuna delle attrattive della loro età.
Qualche volta, uscendo solo, provo il bisogno d’entrare nelle fattorie dove formicolano decine di ragazzi, irrequieti, nervosi, curiosissimi. Bimbi che diguazzano nell’acqua sucida come le oche, poi vengono ad aggrapparsi colle manine alle mie ginocchia per poter alzare la testina tanto che basti a guardarmi in viso, senza cadere indietro. Monelli impertinenti che mi si piantano davanti colle gambe aperte e le mani dietro il dorso, e mi gridano in faccia: «È il maestro dei marchesini» Bambine vane, che stendono le manuccie sucide ai ciondoli del mio orologio, e si incantano stupidamente a guardare l’oro che luce. Frotte di marmocchi villani, mezzo idioti, che mi corrono dietro per lunghi tratti di strada, con un grande rumore di zoccoletti, contenti e non mai sazi di vedere un signore.
Provo un vero bisogno di accostare quell’infanzia vivace, gioconda, rumorosa, per combattere la tristezza che m’inspirano questi bambini pallidi.
Tornando dal passeggio, andiamo in sala da pranzo, dove troviamo infallantemente il marchese di San Lorenzano, che ci aspetta per la colazione.
I bambini gli danno il solito buongiorno svogliato:
— Bonjour, papa — o: Good morning, Father — o: Guten Morgen, mein Vater — a seconda della lingua che debbono parlare nella settimana; poi si mettono a tavola, e non parlano più.
Il marchese scambia qualche parola con me per debito di cortesia, senza interessarsi menomamente alle mie risposte, senza mai entrare in una discussione, ed appena ha finito di mangiare, prende il Figaro o il Times e si mette a leggere.
Io capisco che quello è un congedo, piglio con me i miei scolaretti, e me ne vado nello studio. È una camera vasta, ariosa, disadorna, con una grande tavola quadrata nel centro, una scrivania per me, poche sedie di varie altezze perchè s’adattino alla statura dei bambini, una libreria che occupa tutta una parete, e delle immense carte geografiche appese; mappamondi, sfere ed altri oggetti di studio, sono sparsi qua e là sopra apposite colonnette. La luce entra a larghe ondate da un vasto balcone che occupa metà della parete in faccia alla libreria, e domina il versante della collina, e più lontano il mare. È la camera riservata a noi, e ci passiamo la giornata.
È una nuova fatica ogni giorno il tentare di far fare ai ragazzi un po’ di ricreazione, prima che si mettano allo studio.
Se dico loro di giocare, si pigliano per mano e vanno a piantarsi dinanzi al balcone, poi restano là, immobili come due bambole, scambiandosi di tratto in tratto qualche osservazione inconcludente:
— Io non posso guardar fisso il sole. E tu?
— Neppur io; mi punge gli occhi.
— Ed il mare fa male a guardarlo come il sole.
— Sì; ma soltanto di giorno.
Io afferro l’occasione per spiegare quel fenomeno ottico, o quell’altra cosa qualunque, che suppongo abbia destato la loro curiosità. Ma essi mi ascoltano senza dare il menomo segno d’interesse, senza mai interrompermi con una domanda; e quando ho finito, mi rispondono:
— Oui monsieur; oppure: Yes, sir; oppure: Ja mein Herr.
Ho provato a metter loro dinnanzi dei libri illustrati. Ieri erano le favole di Lafontaine illustrate dal Doré; una meraviglia. Io ci avevo speso intorno tutta la serata precedente con un diletto immenso. Se avessi posseduto quel libro quand’ero bambino, ne sarei impazzito di gioia.
Invece i miei scolaretti voltarono coscienziosamente i fogli dal primo all’ultimo senza mai animarsi, senza mai sorridere.
Tratto tratto l’uno o l’altro diceva il nome d’un animale dipinto.
— A fox — diceva Amerigo. Era la settimana dell’inglese.
— Yes — rispondeva Cristoforo.
Il marchese ex-marinaio e viaggiatore, ha voluto dare ai suoi figlioli questi nomi di viaggiatori illustri. Ma non ha saputo dar loro la scintilla dell’entusiasmo che li animava, la loro ardente curiosità, il loro spirito intraprendente.
Dopo alcune pagine era Cristoforo che, vedendo il corvo col suo immenso becco affondato nella bottiglia, diceva gravemente:
— A raven.
Ed Amerigo rispondeva con sussiego:
— Yes.
Così giunsero in fondo al libro.
Forse nella loro natura manca la corda della giocondità. Sono seri come il loro babbo. Ma tuttavia, vorrei pur trovare una corda qualunque che vibrasse in questo piccole creature. La loro apatia mi fa male, ne soffro.
Dacchè mi sono assunto l’incarico di educarli, debbo amarli, o almeno agire a loro riguardo come se li amassi. Nell’educazione d’un fanciullo vi sono tali dubbi, tali esitazioni, tali problemi da sciogliere, tali risoluzioni da prendere, che è necessario potersi inspirare ad un grande affetto, per aver la coscienza di agire puramente nell’interesse del piccolo individuo che ci è affidato.
Io credo che sia una parte, forse la massima parte, del mio dovere, cercare di risvegliare i sentimenti di questi fanciulli, di far loro sentire più che sia possibile, la benedizione della vita.
A questo modo non sanno di esistere. Sono come pianticelle, non conoscono nè la gioia nè il dolore.
Vi sono momenti in cui desidero che accada qualche cosa di atroce; che il marchese cada dal cavallo e si rompa una gamba, che si faccia in paese un’esecuzione capitale, per vedere se quei giovani cuori, morti alle sensazioni liete dell’infanzia, si risvegliano almeno alle impressioni del dolore, dello spavento, della pietà.
Ti assicuro che se domani appiccassero un uomo qui, io, che amo tutta l’umanità d’un immenso amore fraterno, che sogno soltanto di giovare ai miei simili, di perfezionarmi nel bene, di sentirmi buono, sarei là, davanti a tutti, ai piedi, del palco, conducendo come un cannibale i miei piccoli allievi a pascersi della vista del sangue. Se lo spettacolo della sofferenza, della violenza, della morte potesse scuoterli!
È un pensiero orribile. Non puoi figurarti nulla di più penoso che l’esistenza di queste creaturine, la cui anima è chiusa ai nostri sentimenti, che accettano passivamente le nostre idee, che rimangono chiuse in sè stesse, e non lasciano mai apparire quello che accade nel loro piccolo cuore.
Il nostro pranzo è un pasto solenne che si fa alle sette della sera, ed all’estate all’otto, nella sala da pranzo illuminata, con un servitore in guanti di cotone bianco dietro ogni persona, ed il credenziere francese, che sorveglia maestosamente perchè tutto proceda nell’ordine più scrupoloso.
Puoi figurarti la libertà di parola che si può avere dinanzi a quei testimoni. Non parliamo quasi affatto. Io sono un borghese incorreggibile. Quel servitore dietro la sedia mi dà soggezione. Mi affanna. Mangio tanto in fretta da affogarmi per dargli il piatto che aspetta; ma subito dopo ne aspetta un altro, ed io sono daccapo ad ingozzar bocconi su bocconi, senza mai riescire a liberarmene. Come ripenso ai nostri pranzi all’osteria, dove eravamo in piena libertà, e bisognava picchiare una fanfara col coltello sul bicchiere e con parecchi bis, a costo di romperlo, prima di udirci rispondere dal cameriere svogliato: Vaaa!
Dopo il pranzo i bambini hanno la lezione d’equitazione che prendono dallo stesso marchese. È un cavallerizzo espertissimo. Se non lo vedessi ai due inevitabili pasti del mattino e della sera, potrei crederlo un centauro perchè sta sempre a cavallo.
Così finisce la nostra giornata. La sera sono in libertà, e per lo più vado a passarla dal farmacista per respirar un po’ d’aria borghese. È una buona famiglia, punto interessante, ma dove si vive senza soggezione, senza servitori inguantati, senza un marchese a cui si debba parlare con sommissione.
Un’altra volta mi rifarò di questa pittura aristocratica, parlandoti delle serate in farmacia.
Leonardo.