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destano, e tuttavia così avvezzi a destarla, che ormai non ne parlano più.
Sentono continuamente parlare intorno a loro un linguaggio che non comprendono e che li isola. Sono sempre soli loro due, vivono la stessa vita; osservano le stesse cose, fanno le stesse riflessioni, pochissime per tutti e due, e non sentono il bisogno di discorrere, perchè si comprendono troppo. A questo modo passano senza carezze, senza gioie, senza allegria, senza chiasso, la loro infanzia sonnacchiosa.
Io ci ho posto affetto per la pietà che m’inspirano; ma non sono amabili; non hanno nessuna delle attrattive della loro età.
Qualche volta, uscendo solo, provo il bisogno d’entrare nelle fattorie dove formicolano decine di ragazzi, irrequieti, nervosi, curiosissimi. Bimbi che diguazzano nell’acqua sucida come le oche, poi vengono ad aggrapparsi colle manine alle mie ginocchia per poter alzare la testina tanto che basti a guardarmi in viso, senza cadere indietro. Monelli impertinenti che mi si piantano davanti colle gambe aperte e le mani dietro il dorso, e mi gridano in faccia: «È il maestro dei marchesini» Bambine vane, che stendono le manuccie sucide ai ciondoli del mio orologio, e si incantano stupidamente a guardare l’oro che luce. Frotte di marmocchi villani, mezzo idioti, che mi corrono dietro per lunghi tratti di strada, con un grande rumore di zoccoletti, contenti e non mai sazi di vedere un signore.
Provo un vero bisogno di accostare quell’infanzia vivace, gioconda, rumorosa, per combattere la tristezza che m’inspirano questi bambini pallidi.
Tornando dal passeggio, andiamo in sala da pranzo,