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Immediatamente si apre l’uscio e compare un servitore puntuale, silenzioso come il fantoccio di una scatola a sorpresa.
È un Tedesco, ed io gli domando nella sua lingua:
— I signorini sono pronti?
— Ia, mein Herr, — risponde il fantoccio.
— Dite che favoriscano scendere; io li raggiungo.
Il fantoccio rientra nella scatola. Io prendo un ombrello, un cappello di paglia e scendo le scale.
Nell’atrio, presso la scalinata che mette al giardino, trovo i miei scolari languidi e biondi e scoloriti, talmente uguali fra loro che si confondono come Giroflé e Girofla, come un atto notarile fatto in doppio originale.
La cameriera che li ha accompagnati in quel gran viaggio giù dalle scale, ed è stata a custodirli finchè io non fossi venuto a rilevarla, appena mi vede si ritira colla gravità di chi sente d’avere compiuto un dovere.
I due ragazzi mi si fanno incontro lentamente, e mi dicono, uno dopo l’altro, con voce svogliata:
— Good morning, sir.
Oppure se è la settimana del tedesco:
— Guten Morgen, mein Herr.
Naturalmente, siccome la mia idea fissa sarebbe di infondere un po’ di vita in questi due fantoccini bianchi coi capelli di stoppa, anch’io ricomincio ogni mattina lo stesso discorso:
— Che bisogna animarsi, alzar la voce, muoversi, correre. Non sentono come si respira bene il mattino? Che aria pura! Ah!!! allarga i polmoni; ringiovanisce. E la natura? Non è bella come un poema, colla sua immensa gradazione di verde, colle