Prima morire/VI
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VI.
Augusto a Leonardo
Mi consigliavi di cambiare alloggio addirittura per non veder più la signora Eva. Ebbene, sai cosa ho fatto io?
Sono andato in casa sua.
Grida pure che amo provocare i pericoli e le lotte, che scherzo col fuoco, ed è colpa mia se brucio.... Grida, e poi avrai gridato al vento; ed io ti risponderò che c’è qualche cosa più forte di noi, più forte della virtù umana, ed è la fatalità.
Una sera andando al caffè Martini, trovai quel tal conoscente di cui t’ho parlato in una mia lettera. Il signor Malvezzi, l’uomo di mezza età e di buon senso; quello perfettamente felice.
Si parlò della mia opera. Egli è uno di quegli abbonati assidui della Scala, che hanno acquistato gusto musicale a forza di frequentare il teatro, e di sentire musica buona e buoni artisti. Conosce il signor Ipsilonne ed il signor Trestelle della Commissione teatrale.
Mi disse che voleva sentire qualche pezzo del Re Lear; che, se l’avesse trovato buono, l’avrebbe raccomandato, e credeva d’avere bastante influenza per farlo rappresentare alla Scala.
Ti lascio pensare in che esaltamento mi pose quella proposta.
La mia opera, la mia speranza, il lavoro delle mie ore dolorose, lo sfogo della mia anima, avrebbe risuonato finalmente in un grande teatro. Avrei potuto udirla eseguita da un’orchestra numerosa, intelligente, ben diretta. Quei gridi di passione ch’io sogno quando penso alla donna, li avrei uditi da una vera voce di donna, di soprano, d’artista; non dai tasti d’avorio del mio pianoforte.
E, guardando il pubblico in faccia, quella grande massa di esseri umani d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione, avrei potuto vedere se fosse commosso di quanto io ho sentito, se avesse pianto delle lagrime che ho stillate in quelle note, se fosse esaltato dal mondo idealmente bello che la mia fantasia intravede. Avrei potuto sapere finalmente se è genio o delirio che agita il mio pensiero.
Non ricordo precisamente cosa risposi al signor Malvezzi. Ma fu un tale impeto di riconoscenza e di gioia che lo commosse.
— Venga a casa mia — mi disse. — Ho un buon pianoforte di Erard, e mia moglie è una pianista valente. Potrà dirle anche lei il suo parere. E potrà anche aiutarla, forse più di me. Mentre io la raccomanderò agli uomini che hanno influenza alla Scala lei la raccomanderà alle loro mogli, lo farà conoscere. Conosciamo i critici musicali più autorevoli, vengono a passare la sera da noi. Potrà farsi sentire; vedrà....
Tutto questo è semplice, è puro. E come un’acqua che scorre alla china. Ci si guarda bene in fondo; ma non c’è ombra di bruttura. Tutto è limpido, e riflette gli azzurri sereni dell’arte.
O, va a lottare colla fatalità. La tentazione, il pericolo della colpa, erano là; in quella cosa tanto semplice e pura; in un’offerta amichevole; nella prova della mia opera.
Andai in casa di quel signore. Egli stesso mi accompagnò. Hai già indovinato, nevvero?
Era la casa che fa angolo nella contrada accanto alla mia, ed ha le finestre nel mio stesso cortile. Ed egli era marito della signora Eva.
Avrei dovuto non andarci, eh? Dacchè l’ho saputo, dacchè ho veduto che era l’inquilino dell’appartamento di contro....
Ebbene, non ho saputo nulla; non ho veduto nulla. Non m’era mai venuto in mente di domandare a quel signore dove abitasse. M’aveva detto:
— Se volesse favorire a casa mia....
Ed io avevo accettato. E quando c’eravamo, messi d’accordo per la sera seguente, aveva soggiunto:
— Allora possiamo trovarci qui dopo pranzo, al solito. Alle nove usciremo insieme, e la presenterò alla mia signora.
La cosa non poteva essere più semplice. Ancora il domani a sera, quando ci trovammo, ed egli mi prese il braccio e s’avviò su per la via Manzoni, e poi passò davanti alla mia porta è voltò nella via della Spiga, non pensai che potesse condurmi appunto nella casa che aveva i balconi interni verso il mio cortile.
Fu soltanto quando si fermò al portone che ebbi un primo sussulto di paura. Ma allora era troppo tardi. Cosa poteva fare? Dovevo piantarlo là e fuggire come un pazzo?
Era una casa vasta con due grandi cortili; potevano esserci molti inquilini. Ma questo non mi rassicurò affatto. Da quel momento fui sicuro che andavo in casa della mia vicina del bagno, come fui sicuro che non potevo tornare indietro.
Il breve tempo che impiegai a traversare il primo cortile ed a salire quella scala, fu uno di quei momenti laboriosi del pensiero, come ne accadono nelle grandi agitazioni dell’animo. Di quelli che lasciano impressione d’un tempo lungo lungo, diviso in varie fasi di sorpresa, di sgomento, poi di ragionamento, di riflessione; poi del rassicurarsi, del persuadersi che infine si è perfettamente forti e che non c’è fondamento ad impaurirsi perchè poi.... ecc. ecc.
Io ricordo quei pochi momenti come una lunga ora di riflessione. Per me uno degli eccetera rassicuranti era che non avevo tentato menomamente di offendere quella signora, che non le avevo mancato di rispetto.
È vero che le avevo scritto quel biglietto, il quale, a ripensarci, mi mortificava un poco; e poi c’era stata di mezzo quella sua lettera trovata nel libro, ed il valzer; e non sapevo se il marito fosse informato di tutto codesto, o piuttosto sapevo che non lo era; che non poteva esserlo. Ma infine io non le avevo fatto la corte; ella non aveva mostrato nessuna civetteria riguardo a me. Quanto era accaduto fra noi erano semplici rapporti da vicini di casa. Un po’ strani, se si vuole, ma affatto casuali....
Quando entrai nel salotto però mi batteva il cuore, ed un pensiero affannoso mi martellava il cervello:
— Come mi accoglierà?
Vidi un circolo di signore, e m’inchinai profondamente per avere un pretesto di abbassare il capo. Mi sentivo arrossire.
— Il maestro Cato, di cui t’ho parlato più volte, disse il signor Malvezzi, presentandomi alla sua signora. Poi, volgendosi a me, soggiunse: - La mia signora.
Alzai gli occhi dopo aver ripetuto l’inchino; ed ero pronto a stringere la mano che avrebbe dovuto essermi stesa, ed a mettere un’iliade di scuse, di preghiere, di genuflessioni in quella stretta di mano.
Ma la signora Malvezzi non mi stese la sua. Mi fece appena un piccolo saluto, e mi lanciò uno sguardo che era una pugnalata.
C’era tanta fredda alterigia, tanta intenzione di mortificarmi in quell’accoglienza, che mi sentii rimescolare il sangue.
Le donne, a forza di dissimulare i loro sentimenti in omaggio alle convenienze sociali, di cui sono schiave, imparano a dare ad un’occhiata l’espressione energica e schiacciante d’un colpo di frusta, mentre vi salutano, in apparenza, con cortesia.
Quel saluto diceva apertamente che era un’impudenza da parte mia il presentarmi in casa sua dopo quanto avevo fatto.
Che cosa pretendevo ancora? Che cosa speravo? Non sapevo capire che certi sfregi una donna non li perdona? Ah! avevo voluto spingere l’occhio profano nel suo gabinetto da bagno? E credevo che questo fosse un biglietto di presentazione presso di lei? Ma era un cartello di sfida, signor mio, quella vostra letteruccia pudicamente insolente. Era una provocazione quel vostro valzer melodioso; e se non ci fosse qui mio marito e quest’altra gente, ve lo getterei in faccia il vostro biglietto, signor custode del mio decoro, vi schiaffeggerei col vostro valzer sentimentale....
Mi sentii proprio schiaffeggiato, ed il mio orgoglio s’infiammò. Avrei voluto stritolarla, quella donna che aveva temuto d’amare. Mi apparve brutta in quel momento.
Avevo il cuore gonfio di fiele; fremevo sotto il peso di un insulto, e non potevo scuotermelo di dosso, non potevo domandare soddisfazione a nessuno, non potevo battermi con quella signora come avrei fatto con un uomo.
Quando il signor Malvezzi mi condusse al pianoforte, le mie mani tremavano convulsamente, non sapevo io stesso cosa sonassi. Invece di eseguire un pezzo della mia opera, scelsi La tempesta di Rubinstein. Avevo bisogno d’un pezzo mosso, rumoroso, forte, per dissimulare, per quanto era possibile, il tremito nervoso che mi scoteva tutto.
Compresi che non avevo fatta buona impressione. Gli uomini che vennero a stringermi la mano mi dicevano soltanto: "Bravo, bravo". Ma era un complimento, e non cercavano di nasconderlo.
La padrona di casa, che suo marito andò a pigliare e condusse accanto al piano, mi disse:
— Malvezzi vorrebbe sentire qualche cosa di suo. Pare che stia scrivendo un’opera....
Lei si escludeva affatto da quel desiderio. Il signor Malvezzi la guardò maravigliato di quella scortesia, e prese la parola per rimediarvi:
— Ho promesso a mia moglie un pezzo della sua opera, e si trova delusa di sentire soltanto La tempesta che suona anche lei.
Io stavo là ritto, mordendomi le labbra. Provavo un amaro piacere a vederla obbligata di dirmi qualche cosa. Non rispondevo nulla per non toglierla d’imbarazzo. Il marito insistè:
— Via, diglielo tu, Evelina; «a tanto intercessor nulla si niega....»
— Io non posso obbligarlo a sonare se non si sente di farlo. Sarebbe un’indiscrezione... disse la signora.
Era veramente un congedo. Era dirmi che non dovevo sonare, era avvertirmi che avevo sonato male, dacchè lei s’era accorta, senza che io lo dicessi, che non mi sentivo di farlo.
— Infatti, risposi coi denti stretti dalla rabbia, non mi sento. La prego di dispensarmi.
Mi accennò col capo che ero libero, e se ne andò.
Poco dopo uscii anch’io fremente di sdegno, smanioso di schiacciare quella donna che mi aveva schiacciato.
Passai la notte al mio scrittoio, ma senza pensare una frase, senza scrivere una nota. Ero accasciato sotto il peso dello sfregio patito; arrossivo ancora a quel ricordo, e piangevo, sì, piangevo di rabbia sui miei pugni stretti.
È una maledizione del cielo. Quell’uomo mi era apparso come un buon genio: m’aveva dato una speranza, m’avrebbe guidato nella via difficile del successo, avrebbe fatto rappresentare la mia opera. E sua moglie ha fatto crollare tutto quell’edificio.
Ora non avrò più chi mi appoggi. La mia opera è un lavoro inutile. C’erano là alcuni critici musicali, che ridevano sotto i baffi mentre mi stringevano la mano. A quest’ora sono persuasi che sono un ignorante, che non so neppure sonare un pezzo che ogni buon dilettante eseguisce. Figurati come accoglierebbero l’annuncio d’un’opera mia!
Ormai la mia esistenza non ha altro appoggio che i miei scolari. Cinque lire al giorno. «Questo di tanta speme oggi mi resta».
Augusto.