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dove troviamo infallantemente il marchese di San Lorenzano, che ci aspetta per la colazione.

I bambini gli danno il solito buongiorno svogliato:

Bonjour, papa — o: Good morning, Father — o: Guten Morgen, mein Vater — a seconda della lingua che debbono parlare nella settimana; poi si mettono a tavola, e non parlano più.

Il marchese scambia qualche parola con me per debito di cortesia, senza interessarsi menomamente alle mie risposte, senza mai entrare in una discussione, ed appena ha finito di mangiare, prende il Figaro o il Times e si mette a leggere.

Io capisco che quello è un congedo, piglio con me i miei scolaretti, e me ne vado nello studio. È una camera vasta, ariosa, disadorna, con una grande tavola quadrata nel centro, una scrivania per me, poche sedie di varie altezze perchè s’adattino alla statura dei bambini, una libreria che occupa tutta una parete, e delle immense carte geografiche appese; mappamondi, sfere ed altri oggetti di studio, sono sparsi qua e là sopra apposite colonnette. La luce entra a larghe ondate da un vasto balcone che occupa metà della parete in faccia alla libreria, e domina il versante della collina, e più lontano il mare. È la camera riservata a noi, e ci passiamo la giornata.

È una nuova fatica ogni giorno il tentare di far fare ai ragazzi un po’ di ricreazione, prima che si mettano allo studio.

Se dico loro di giocare, si pigliano per mano e vanno a piantarsi dinanzi al balcone, poi restano là, immobili come due bambole, scambiandosi di tratto in tratto qualche osservazione inconcludente:

— Io non posso guardar fisso il sole. E tu?