Poesie varie (Angelo Mazza)/A Melchior Cesarotti

Angelo Mazza

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Poesie varie Sonetti
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A MELCHIOR CESAROTTI.

     1
Or che le mura cittadine avvampano,
e a noi munge le carni ardente Sirio,
e gira il ferro, da cui pochi or campano,
quella che seco trae senno e delirio;
e invan lor forza e lor ingegno accampano
l’arti di Macaone e Podalirio;
liberi fiati di montan Favonio
trassemi a respirar il genio aonio.
2
E sotto l’arboscel che puote il fulmine,
poiché da Febo amato un di, proscrivere,
i’ vo’ la pace di quest’ermo culmine
e il tenor de’ miei giorni a te descrivere;
a te, ch’or pensi come tuoni e fulmine
l’orator magno che ci fai rivivere,
mentre che al fianco tuo destri s’assidono
di Atene i geni, e ’l bel lavor dividono.
3
Lieto m’accoglie genial tugurio,
dove la Parma vien tra monti a scendere,
su cui non suole di ferale augurio
disamabile augel gli orecchi offendere.
Qui tra ’l Genio e Sofia, tra ’l canto etrurio
giovami il tempo e le parole spendere,
vago d’udir come or le tronca or gemina
la vòlta in sasso sventurata femina.

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4
Qui spingono le fronti irsute ed orride
annosi gioghi, e quasi al cielo insultano,
sott’essi apriche collinette e floride
scendono valli, e d’ogni messe esultano;
qui son pianure che Vertunno e Cloride
veston di fiori e di bei frutti occultano;
e qui destre ai passeggi ombre dilatano
l’arduo cipresso e l’infecondo platano.
5
Dolce è il mirare ove il ruscel fuggevole,
la sponda di bei fior pingendo, mormora;
ove il cupo torrente spaventevole
divallandosi giú rota e rimormora;
ove piú l’erba ride, ir del festevole
gregge scherzando le lanose tormora,
e Linco invitar Dori a suon di calamo,
l’erbetta verde lor fornendo il talamo.
6
Quando del giorno il condottiero ignifero
torna l’aspetto delle cose a pingere,
sgravato i lumi dal vapor sonnifero,
amo seguir traccia di fere, e cingere
d’insidie il campo aprico e ’l bosco ombrifero,
dove de’ suoi color gode a me tingere
il viso alma salute, a que’ sol facile,
ch’odian la gola, il sonno e ’l lusso gracile.
7
Vien di fianco a costei, sciolta la treccia,
breve la gonna, sua minor sirocchia,
l’util Fatica, per cui lungo intreccia
stame la Parca alla vital conocchia.
Essa al corso, alla caccia ed alla freccia
la man spedisce, il fianco e le ginocchia;
d’arco e di reti, degli augei rammarico,
ondeggiandole a tergo il vario incarico.

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8
Se Stanchezza mi prende, un vecchio rovere
m’adombra il seggio, o un acquidoso salice,
e l’arida dal cor sete a rimovere
chinomi al fonte, e della man fo calice.
Quivi soletta verso me suol movere
Fille piú bella agli occhi miei d’Arpalice;
Fille che sempre, se vo lungi, adirasi
gelosa, e cheta su’ miei passi aggirasi.
9
E, o vibri dagli occhietti accesi ed umidi
un tremolo ver’ me dolce sorridere,
o lasci trasparir dal velo i tumidi
pomi che d’Ebe il primo fior fan ridere,
o prema i miei co’ suoi be’ labbri e inumidi,
mi sento tutto me da me dividere;
né s’acqueta il desio che il cor m’inanima,
se non le spiro in seno tutta l’anima.
10
Ma, s’ode il bosco che frascheggi instabile,
lieve e trepida fugge, e il viso torbida;
ed io, ricerche da lassezza amabile,
raccomando le membra all’erba morbida;
mentre un placido sonno disiabile
di sua molle rugiada i rai m’intorbida,
e mi dipinge in lusinghier fantasimi
le sfiorate delizie e i dolci spasimi.
11
Sia venticel, che con gli acuti sibili
venga del sonno la quiete a pungere;
sia Febo che, poggiando alto, insoffribili
facciami al volto sue quadrella giungere;
risvegliomi: e Ragion, che da’ sensibili
diletti i suoi miglior niega disgiungere,
a nuova traccia di piacer invitami,
e ’l gran teatro di natura additami.

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12
Degli elementi ammiro il bello ed utile
concerto, e ’l sol, di tutta luce origine,
distinguer l’ore, le nembose e rutile
stagion temprando e gli anni in sua vertigine;
e veggo il ricercar manco e disutile
di quanto avvolse entro fatal caligine
il sapiente incomprensibil Essere,
mille sul chiuso ver menzogne intessere.
13
Sebben di trarlo a luce ognor si adopera
l’umano istinto di conoscer cupido,
vien che indarno vi spenda il tempo e l’opera,
e torni ’l sofo alfin pari allo stupido:
chi lena addoppia nel lavor, chi sciopera,
chi un equabil cammin tenta, chi un rupido;
tutti a un termine van, se togli Socrate,
che sol sapea di saper nulla, e Arpocrate.
14
Come da quel di sapienza oracolo
diversi andâro i successor, che intesero
a far di vane idee vano spettacolo
ragion torcendo, e veritate offesero!
quanti del novo s’applaudian miracolo,
ove la nube per Giunon compresero!
o d’Epicarmo al paro e di Ferecide
sottilizzando somigliâr Mirmecide!
15
Né ’n bersaglio miglior colse Anassagora
d’un ’archetipa mente benemerito,
né per numeri e arcani arduo Pitagora
d’una vita non pago e d’uno interito;
Anassimandro in pria, poscia Diagora
e Strato, infetti del peggior demerito,
né lui che pose di ragion partefice
l’etere, e ’l foco d’ogni forma artefice.

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16
L’incerta e balda Opinion versatile
nell’Academo, nel Liceo, ne’ Portici
immagini fingea di senno ombratile,
vòti al di dentro, appariscenti cortici.
Qual su perno faria legno rotatile,
o marina onda raggirata in vortici,
dall’affetto rapito iva il Giudizio,
seco indivisi l’onestate e ’l vizio.
17
Cosí l’uom da ragion, sovran principio,
cui diello in guardia il ciel, torce vestigio;
nato a virtude, e di follia mancipio
dietro e’ cammina a ingannator prestigio;
questi esalta Caton, quei Plato e Scipio,
poi di pigrezza e d’ignoranza è ligio.
Oh uom, strano animal, difforme e vario
da te mai sempre, e al tuo miglior contrario!
18
Veggo il mal vilipeso onor del soglio
dal folle genio che i vulgari abbaglia;
veggo de’ grandi il fortunoso orgoglio,
or coperto di toga, ora di maglia,
correr gran mare e non veder lo scoglio,
incontro al qual fortuna alfin lo scaglia;
che i doni di costei move perfidia,
qual meretrice che all’avere insidia.
19
Né di ciò pago, il piú bel fiore a cogliere
volgomi d’ogn’insigne arte palladia,
che i secol prischi in sacra nebbia avvogliere
vollero, e ’l nostro di sua luce irradia;
né piú a quelli dar cerco, a questo togliere,
ma con par occhio guardo Ilisso, Arcadia,
Senna, Tamigi, e ovunque l’arti annidano,
sul Tebro, Arno, Sebeto e in val d’Erídano.

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20
Cerco i bei modi che godean le gelide
sorgenti d’Aretusa un dì ripetere,
cantando la gentil musa sicelide
le schiette gare del buon tempo vetere.
Cerco i grand’inni che sonâro in Elide
tra l’olimpica polve, alto per l’etere
seco levando nelle vie di gloria
le volanti quadrighe e la vittoria.
21
Né all’ardito teban altri s’approccia,
che quanti osan seguirlo a terra piombano.
Qual gira di mulin rota per doccia,
qual d’augei stormo che fuggendo rombano,
qual di torrente che d’alpina roccia
caschi, le accelerate acque rimbombano,
tal dei suoi modi, ch’io contemplo attonito,
è l’impeto, il vigor, la copia e ’l sonito.
22
Chi plettro mi dará, chi man pittorica,
ch’io quel divino colorir ritemperi,
e all’auree corde della cetra dorica
felicemente itale note attemperi?
Se non che al sol, quando in Aquario corica,
piú agevole è che il ghiaccio alpin si stemperi,
ch’io tragga a riva il fatichevol carico,
onde sol ricorrò stento e rammarico.
23
Veggo il cantor di Teo che sforza i tremoli
membri a lunghe d’amor giostre, e non tenui
calici avvalla, e gioventú par ch’emoli,
quasi vecchiezza non l’affranga e stenui.
Ove, presso bel rio, bell’arbor tremoli,
veggol far vezzi con Batillo ingenui,
e, trescando la vita incerta e rapida,
deridere il final giorno e la lapida.

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24
Co’ versi armati di saper socratico,
principio e fonte d’ogni bello scrivere,
piacerai Flacco, se al vil vulgo erratico
segni le tracce del diritto vivere:
o, spensierato del futuro, il pratico
di voluttá governo ami descrivere,
o sollevi gli eroi sugli astri lucidi,
o ’l codice d’Apollo apra e dilucidi.
25
Tu che allo spettro minaccioso orrifico
a cui d’Agamennòn cadde la figlia,
e incontro a Giove e al suo fulmin terrifico
imperterrite osasti alzar le ciglia;
tu che canti il vigor di Cipri onnifico,
e l’obliqua degli atomi famiglia,
dal cui cozzar e raccozzar fortuito
surser gli aspetti del mondan circuito;
26
non perché sciogli dal timor de’ superi
l’uom per te mai dell’avvenir sollecito;
non perché l’eternal cura vituperi,
e ciò che piace a voluttá fai lecito;
ma perché d’arte e vigoria tu superi
quanti fûr vati, il tuo volume io recito,
e imparo da qual nobile artifizio
tragga natura grazioso uffizio.
27
Or m’allettano i tersi ondosi numeri,
che la pietá fan chiara e ’l lungo esilio
di lui che il genitor trasse sugli umeri
dal foco che pascea le torri ad Ilio.
Oh lavoro immortal, oh pregi innumeri,
oh del Lazio splendor, divin Virgilio!
Se canti armi ed eroi, campagne o pecore,
posto col tuo, tutt’altro carme è indecore.

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28
Velato di sottil veste cerulea,
quale in sogno il troian sei vide assorgere,
da molta intorniato ombra populea
il biondo Tebro a te godea pur sorgere,
e a’ gran principi della gran romulea
cittá, donna del mondo, orecchio porgere:
Cesare intanto rivolgea nell’animo
il pio di sua progenie autor magnanimo.
29
Se non ch’erge su tutti ’l vol rattissimo
l’aquila cui fu nido il suolo argolico,
il meonio signor del canto altissimo
attico ionio doriese eolico.
Quanti tentâro l’avvenir tardissimo,
per corso epico, tragico, buccolico,
tenner lui dietro, e alle sue larghe tavole
colser gli avanzi dell’industri favole.
30
Oh sacre mense, ch’ove ben si scernano,
ogn’arte, ogn’uomo a ben formarsi invitano!
Quanti in sasso, in color, in bronzo eternano
le varie forme, cui, creando, imitano,
quanti col freno nazion governano,
quanti col labbro sapienza additano,
immagini, pensier, concetti, e prendono
quivi principi che dal ver discendono.
31
Omero è sol che pien meriggio slancia,
ricrescente Oceán, voga di Borea,
se mostra Achille, impareggiabil lancia,
porre a giacer l’alta possanza ettorea,
o ’l traboccar della fatal bilancia,
o la mischia de’ numi, a cui l’equorea
classe argiva e l’acquoso Ida tremarono,
e a Pluto di spavento i crin s’alzarono.

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32
È un retrogrado mar, un sol che debile
grandeggia e cade, un leggier austro e trepido,
se d’Ulisse gli error racconta, e '1 flebile
materno incontro all’atre case, e ’l tepido
ciel de’ culti feaci, e l’indelebile
di Penelope amor fra’ proci intrepido,
e ’l letto della maga e l’arti fetide,
e Calipso, ospital prole di Tetide.
33
Or la fiera mi trae dantesca immagine
dello invisibil mondo al trino imperio;
u’ mi disbrama d’ogni arcana indagine
nel tinto senza tempo aer cimmerio
l’accerchiata dolente ima voragine,
il monte albergator del desiderio,
l’inenarrabil ultima letizia,
ove il ben che non termina s’inizia.
34
Né il buon toscan, cui di ghirlanda idalia
filosofico amor cinse le tempie,
né oblio que’ due onde superba Italia
l’emula Francia di livor riempie.
Qual piú ricca discorre acqua castalia
le carte inonda al ferrarese, e adempie
quanto può studio e disegnar poetico
di Goffredo il cantor grave e patetico.
35
Qual clima, qual etá puote all’ausonico
ciel contrapporre il suo Petrarca, e ’l nobile
carme spirato da furor platonico
che pria nel fango s’avvolgeva ignobile?
A quel divinamente maninconico
cantar s’accende d’onestate il mobile
aer, che impara, e seco ogni erba e foglia,
come somma beltá spegne vil voglia.

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36
Or seguo il gran britanno, a cui non aere,
non terra valse, o stella, o sol por termine;
oltre il tempo e lo spazio ei salse; e traere
osò ne’ carmi Chi a se stesso è termine.
Poi seppe i primi amor casti ritraere,
che andar con ogni ben sí ratto al termine,
quando vergogna dell’antica moglie
spinse la destra a ricercar le foglie.
37
Ma l’affocata oscuritá visibile,
a Lucifero pena e domicilio,
e ’l lume ad uman guardo inaccessibile,
ove dal sen del Padre effulge il Filio,
e della spada il fronteggiar terribile,
che cenna a’ rei progenitor l’esilio,
fanno argomento di valor fantastico,
che par noi die’ qual fu cervel piú elastico.
38
I due pur veggio che sí bella ingiuria
agli anni han fatto, inni sciogliendo all’etera,
Frugon, Chiabrera, onor ambo a Liguria,
che da Pindaro in dono ebber la cetera.
Di tai poeti Ausonia oggi ha penuria,
che il favore tra noi d’Apollo invetera:
all’arti belle s’accompagna inopia,
sovrabbonda alle vili applauso e copia.
39
O pria sí cara al ciel contrada italica,
perché ad estranei vanti i nostri or cedono?
Forse della ferrigna etá vandalica
l’aspre vicende a contristarti riedono?
Guarda, che le nevose Alpi giá valica
Febo e le dèe, ch’ivi han Parnaso, e siedono
spirando estro, armonia, dolcezza a frigido
tedesco petto, e a sermon scabro e rigido.

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40
D’onor cotanto andrá ne’ tardi secoli
privilegiata l’ immortal Messiade
ove l’Atteso da quaranta secoli
compie il disegno dell’augusta Triade:
opra celeste, a cui rimpetto i secoli
del sommo vanto scemeran l' Iliade
quando dal vero non iscocchi erronico,
teso dal patrio amor, l’arco teutonico.
41
Ma tu sei nostro, o Metastasio, o genio
caro piú ch’altri al bel mondo femmineo:
facondia a’ labbri tuoi spirò Cillenio;
le Grazie vi stillar mele apollineo.
Rara, in chi bebbe al fonte almo ippocrenio,
teco è Onestá, svelata il bel virgineo
volto, e sorride, che Amor prenda e domini
per te similemente i numi e gli uomini.
42
Pur quel giocar d’affetti e quel sì magico
de’ sensi incanto e quel romanzo eroico
tanto son lungi dal decoro tragico,
quanto dal mar d’Atlante il flutto euboico.
Strano a vedersi un fier roman, di tragico
comico fatto, epicureo di stoico.
Miseri eroi, che sì d’amor folleggiano,
giostran per donna e nel morir gorgheggiano!
43
Te studio alfin, che i dì sereni e i nubili,
i lunghi, i brevi e quei che han fiori e pampano,
e le tempre dell’anno indissolubili
orni degli estri che nel sen t’avvampano.
Van, come in cielo, le stagion volubili
ne' tuoi versi alternando, e si ristampano
d’esse gli aspetti sì fra lor dissimili,
che dubbio è se tu il vero, o il ver te assimili.

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44
Ma dove i’ lascio quel che al gran meonio
emulo, e forse vincitor, fe’ nascere
il fosco aer ventoso caledonio,
feroci anime alpestri usato a pascere?
Quello per cui t’applaude il genio ausonio,
però che il festi, amico, a noi rinascere,
cingendo un lauro onde pensosi ir debbono
Caro e Selvaggio, che l’ugual non ebbono?
45
Piaccion tuoi carmi, se ’l susurro e ’l tremito
di leve aura e di rio corrente spirano;
se fragor cupo di tempesta e fremito
aspro di venti che col mar s’adirano;
se duro affronto di guerrieri, e gemito
d’aeree forme che sul nembo girano;
o destrier di sonante unghia che scalpiti,
o bell’occhio che pianga, o sen che palpiti.
46
In essi io spazio con la mente, e pascolo,
rara virtude, idee leggiadre e tenere,
o parli Cucullin, cuor grande e mascolo,
o Fingallo da sé non mai degenere;
o innamorati avidi sguardi il pascolo
sfiorin gentile di pudica Venere:
natura in lor se stessa ama detergere,
e di vergogna i culti tempi aspergere.
47
Qual s’adunan gli augelli al fiume, al nemore,
per lasciar l’anno che qui manca, e riedere
ove il ciel mite e d’ogni bruma immemore
suole di buon tepor giorni concedere:
tal io, qualor volgo tue carte, al memore
pensier sento l’idee raccôrsi, e chiedere
giorno di vita imperturbato e vivido,
ove non possa oblio né tempo livido.

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48
Altre, che aprir novella via mi spronano
lá ’ve luce di ver fiammeggi e domini,
della prima Bellezza a me ragionano
gioia de’ numi, almo desio degli uomini;
altre l’incanto d’armonia risonano,
vaghe che suo cantor la dea me nomini,
la dea che ha un lauro su la cima aonide
non còlto ancora, se nol colse Armonide.
49
Poi come avvien, le forosette mungano
le vacche del soverchio peso querule,
cadendo l’ombre giá, che i monti allungano,
e le strade del ciel fatte piú cerule,
né piú lor dolci note in un congiungano
usignuoletti, rondinelle e merule,
strillando sol nelle deserte grottole
upupe meste e inauspicate nottole;
50
cheto i’ men torno all’ospital ricovero,
dove Fillide mia gradito apprestami
cibo senz’arte e di lautezza povero;
né stranio vin fumoso il capo infestami.
Care dolcezze, che non hanno novero,
la memoria del giorno al cor ridestami;
finché, legando le palpebre, a sciogliere
viemmi il sonno le membra, e i sensi a togliere.