Piccola morale/Parte terza/VIII. Coraggio e temerità
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VIII.
CORAGGIO E TEMERITA’.
Coraggio e temerità sono assai di sovente scambiati uno per l’altra dalla comune degli uomini; e bisogna par confessare che molte volte occorre una grande reltitudine e tranquillità di giudizio a uon cadere in simile errore. Amando noi il coraggio come una delle principali virtù che onorino l’uomo, e non potendo per altra parte non avere la temerità nel debito spregio, ci sentiamo tentati a scrivere qualche cosa su questo proposito.
Il coraggio procede, a parer nostro, da scienza; la temerità da ignoranza. La conoscenza necessaria al coraggio ha due parti, quella del fine cui tende, e dei mezzi opportuni al conseguimento di quel dato fine. La temerità non ha esatta notizia del fine, e tra i mezzi che se le parano innanzi non bada piuttosto a questo che a quello. Il coraggio sceglie tempi, luoghi, ed ogni altro genere di acconcezza; per la temerità ogni tempo, ogni luogo é bastante, nè vi ha cautela onde curi, né avvertenza di cui si giovi. La temerità è semipre repentina; non deve dirsi che il coraggio sia sempre lento. Alcuna volta la sua prontezza avanza quella della temerità stessa; ma ciò accade soltanto date alcune circostanze che rendono necessaria una tale prontezza. Anche quando da rsso si opera prontamente, l’operazion sua nou è senza consiglio, essendosi resa ad esso abituale la riflessione e i principii secondo i quali conforma i proprii atti; anzi costituendo appunto questi principii e questa riflessione la sua natura, può sembrare che da esso si faccia all’impensata ciò ch’è frutto di molto pensiero. Per simil guisa l’esperto suonatore, esercitato a scorrere coll’arco o colle dita sopra lo strumento, anche quando ciò faccia sbadatamente e senza proposito, non altro può trarne salvo consonanze ed accordi. Ciò posto, non può averci coraggio che nelle azioni virtuose, e di altri mezzi non può far uso il coraggio che degli onesti. È la virtù che imprime nella coscienza dell’uomo quel sigillo di forza, dalla quale soltanto può derivare il coraggio; è nell’accordo dei mezzi col fine, il quale essendo onesto, onesti essi pure esser devono, che il corag gio ritrova quell’armi che sente essergli convenienti. Quello che sembra coraggio e mira ad un fine non retto, è temerità senza fallo; diciamo lo stesso dei mezzi. Quante volte tra il giudice iniquo e l’innocente accusato non si scambiarono le parti! E dove a quello avrebbe toccato tremarc, o rimanersi per lo meno ammirato e confuso d’innanzi all’inquisito, fece inganno alla propria coscienza, armandosi di un’aspra severità e di un torbido zelo che sembrava il coraggio della giustizia, ed era la temerità del sopruso; laddove il preteso colpevole manifestava nella pretesa temerità delle sue risposte tutto il sereno coraggio dell’innocenza e della virtù.
Compagna al coraggio in qualunque prova è la costanza. Mirando sempre ad un fine, e non mai da quello stogliendosi co’ proprii pensieri e co’ proprii voti, e adoprando mezzi intimamente legati fra loro e col fine stesso, non c’è luogo a divergenze, a titubazioni. Notisi però che questa costanza deve cercarsi nella parte più sustanziale dei sentimenti e delle opere di un individuo, non già in quelli che più non sono che accidenti. La costanza deil’uomo coraggioso non è ostinazione. Molte volte accade anche all’uom coraggioso di ritornare sui proprii passi, e darsi per vinto, ed oh! quanto maggior corag gio si richiede a soggiacere di tal maniera, che a sovrastare per guisa men virtuosa! La temerità all’incontro non ha costanza veruna; ora cammina per la via dritta, ora ne va di traverso, quando colla testa alta per voglia di sembrare eminente, quando carponi, sperando che anche le mani le giovino a giugnere più velocemente alla meta. Non se le parli di ritrattazione! Sregolata in ogni suo pensamento, crede costanza l’insistee nella perpetua mutabilità dell’errore; e mentre non si vergogna di rinnegare e di avvilire la effettiva dignità di tutta la specie, si picca di sostenere, anche col sangue se occorra, la dignità immaginaria dell’individuo.
La vittoria del coraggio è sicura. Siccome l’nomo coraggioso non può essere egoista, nè combattere per le individualità, se non in quanto esse individualità rappresentino l’ordine generale delle idee vere e giuste alle quali si tiene fedele; così, quand’anche soccomba individualmente, trionfa nella generalità de’ principii pei quali s è immolato. Lavater ucciso sull’uscio di una capanna, difendendo il pudore di chi l’abitava dalla militare licenza, fece dimostrazione del vero coraggio, e contribui, per quanto si poteva e doveva da un uomo, al trionfo della giustizia sulla violenza. La temerità del soldato che l’uccise cagionò forse una misera gioia all’assassino, agevolando l’adempimento del brutale disegno; ma non tolse al martire dell’onestà di dare al mondo una solenne e fruttuosa lezione.
Non è dunque da dire, come costumasi ordinariamente, alle genti: non mettete il vostro coraggio in azioni non virtuose; ma dir loro invece ricordatevi che quello il quale si adopera in azioni malvagie non è coraggio. Fra chi niega di acconsentire ad una iniqua proferta, e chi gli tiene al collo il pugnale per far si ch’egli acconsenta, quale dei due e il coraggioso? Si potra forse opporre da taluno, che i pericoli coi quali deve lottare l’uom temerario danno un’apparenza poco meno che eroica alla sua impresa. Al che rispondo, che dei pericoli ch’egli affronta l’uom temerario non ha un giusto concetto, e in tanto appunto gli affronta, in quanto non gli conosce perfettamente. Credete che quando l’uom temerario si mette ad un atto iniquo, ne venga a quell’atto con deliberazione di soggiacere a quel di peggio gli accada, fosse pure la morte? O credete per altra parte, che quando dice: voglio giugnere a capo di tale o tale altra cosa, dovesse costarmi la vita; intenda che questo gli possa facilmente incontrare? Confesso che io non so credere ciò dell’uom temerario, si bene del coraggioso, il quale come si mette ad un impresa, in quanto essa impresa gli è comandata dalla propria coscienza, ba fatto rinunzia di tutti i beni, e della vita medesima, che di tutti pur sembra, ed è, per certi rispetti, il maggiore.
La subitaneità colla quale procede l’uom temerario non è indizio della sua avventataggine? Che ne sa egli di nulla che gli possa succedere? Arrestatelo alquanto nella sua furiosa spavalderia, ditegli un poco fratello mio caro, egli ti converrà tollerare questo e quest’altro, e riuscire da ultimo a brutto fine. Che ne avverrà dalla sua deliberazione? In rarissimi casi, e forse in que’ soli che la ragione abbia del tutto perduto il suo lume, vedrete rimanergli saldo il proponimento. Tutto al contrario ove trattasi dell’uom coraggioso; non v’è pericolo al quale non sappia di dover venire, non c’è dolore il quale non sia disposto di tollerare. Che decoro ci ha egli nella temerità? Che titolo ha dessa alla nostra stima? Stimeremmo il pazzo che si getta nel fiume per annegarsi? Sia riserbata la nostra stima a chi, sapendo di potersi annegare, spicca nulladimeno l’eroico salto, a salvare, se gli succede, il fratello che affoga.
La temerità, essendo passione più assai bestiale che umana, non ha durata; e come si accheti il ribollimento di quegli amori, o cessi lo spasimo di quelle fibre che la irritarono, può accadere che la codardia più schifosa, la debolezza più abbietta le tengano dietro. Il coraggio per lo contrario, come quello che procede da ragione, e sol da essa è regolato, rimane sempre intero, nè mai si abbassa. Le forze corporali, essendo non più che ministre, insorgono pronte alla sua chiamata, e pronte del pari rimettonsi, cessato il bisogno; e quand’anche rimangano estenuate dall’esercizio, il coraggio, che non è confondibile con la forza per modo alcuno, mantiensi pur sempre lo stesso, e nulla perde della sua digrità e della sua efficacia. La temerità, quando abbia consumato il suo pravo lavoro, si mostra fiacca e prostrata; il coraggio, all’incontro è più nobile e bello, se così possiamo dire, che non si era mostrato da prima.
Simbolo del coraggio noi proponghiamo la statua dell’Apollo trionfatore del serpente Pitone, miracolo delle arti antiche. L’aura della vittoria serpeggiando per tutto il corpo dell’eroe giovinetto non lo gonfia o commove soverchiamente; nulla di trasmodato ne’ contorni delle sue membra, o ne’ lineamenti del suo volto. Noi sappiamo che la dura prova alla quale si è posto è finita più assai da quegli occhi, che ne parlano al cielo come di un dovere adempiuto, che da verun indizio particolare che si manifesti in veruna parte di quel suo corpo, che è pure tanto pieno di espressione e di vita. Le mosse di que’ piedi, di quelle braccia, di quel collo, di tutta quella mirabile sua persona, non accusano alcuna necessità di riposo, son anzi li li per tornare alla prova, quando un mostro novello domandasse la forza di quella mano. Ma non minacciano, ma non insultano, ma non braveggiano. La battaglia fu giusta, la vittoria è tranquilla.
Non mi indugierei volentieri a descrivere l’uom temerario che ritorna dalla sua impresa. Senecci ha dato la descrizione dell’uom collerico; di poco diversa sarebbe qucila del temerario quanto a schifosità. La bellezza esteriore, o sensibile delle attitudini viene anche in questo caso, come negli altri tutti, a rappresentare la bellezza interiore o morale di un’azione. Chi abbia il vero sentimento del bello deve conoscere dalla fisonoania, dal gesto, da tutti in somma i movimenti della persona, chi sia coraggioso e chi sia temerario. Vedrete il primo fermo, raccolto, e nello stesso bollore della mischia, per certa tal qual maniera, composto; l’altro lanciarsi, imbizzarrire, scoatorcersi, e, anche dopo terminato lo scoutro, non trovar pace.
Condotto il discorso a questo confine potrà domandarsi se convenga per nulla alle donne un tal argomento. Mi tuttociò che può assumere le forme del bello non è compreso nel loro regno? Anche questa però, come ogni altra dote dell’animo e della persona, esser non deve nella donna la stessa di quella si mostra nell’uomo; e avrebbe pure il bel soggetto a trattare chi volesse assegnare le differenze di questi due generi di coraggio.