Piccola morale/Parte terza/VII. La beneficenza e la gratitudine

Parte terza - VII. La beneficenza e la gratitudine.

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Parte terza - VII. La beneficenza e la gratitudine.
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VII.

LA BENEFICENZA E LA GRATITUDINE.

La beneficenza è sì bella virtù, cosi dolce ad essere praticata, che non si può pensare senza maraviglia esserci uomini che se ne astengano, anzi facciano ogni lor prova affinchè non succeda lore di esercitarla, anche quando a ciò sarebbero pur talvolta condotti dal proprio cuore. Per altra parte non meno bella virtù, e non meno dolce ad essere praticata, è la gratitudine; e qui ancora non puossi a meno di maravigliare delle continue lagnanze che far si ascoltano da tutte parti contro gl’ingrati, i quali, come la gramigna e l’altr’erbe nocenti, crescono, per quello almeno ne dice la pubblica voce, abbondantissimi in ogni luogo. A queste contraddizioni io non ho trovato migliore [p. 171 modifica]spiegazione della seguente: pochi esser i benefattori in quanto molti sono gl’ingrati, molti essere gl’ingrati in quanto pochi sono quelli che sappiano deguamente beneficare.

Seneca, il morale, ha scritto in proposito dei benefizii niente meno che un grosso volume, che il Varchi ci diede tradotto con quella sua continua nobiltà ed eleganza di stile. Altri forse il chiamerebbe stile tardo e annacquato. Ma da me ora si domanda discorso più rapido, e disinvolto da tutte le scolastiche sottigliezze; ristringeremo adunque tutte le avvertenze da aversi dal benefattore in una sola, che a prima giunta potrà sembrare paradossica, ma considerata con qualche tranquillità si vedrà essere in perfetto accordo colla ragione. Diciamo adunque che ucl far benefizio si ha da mirare al proprio bene, e sperarne soltanto quella mercede che possiamo procurarci da per noi stessi. A prima giunta potrebbe sembrare che ciò, più che altro. odorasse di egoismo; ma quand’anche fosse ciò vero, sarebbe un egoismo lodevole e da essere seguitato. Pensando nel far bencfizio al gusto che ne dobbiamo avere noi stessi, saremmo più che mai solleciti a praticarlo; poichè qual è l’uomo che, avendo in suo potere di procurarsi un piacere quest’oggi, ne differisca il conseguimento al dimani? Con ciò sarebbe tolto un grande sconcio dei benefizii, quello cioè dell’ arrivare col passo del soccorso di Pisa, o per lo meno di nou essere mai solleciti siffattamente [p. 172 modifica]da risparmiare il più possibile dei dolori dell’ansietà e dell’incertezza. Potrei citare la bella sentenza di Dante (Purg. XVII); ed è verissimo che chi ha bisogno di troppe moine e fregagione a bencficare, più assai usuraio di benefizii merita di essere chiamato che benefattore. Le preghiere, le lagrime, gli spasimi di chi ha bisogno di soccorrimento e se lo vede indugiare, non sono una specie di usura, forse più crudele ed ingiusta di quella che si fa per cifre e col pegno alla mano?

Riferendo il benefizio a noi stessi, non rimarremmo tanto incerti a pensare dei modi E fra i moiti che possono adoprarsi ci faremmo abili a trovar fuori senza contrasto il migliore. Ci sono di quelli che gettano il pane a’ poveri colla balestra, per cui è miracolo se non accoppano ad ogni poco que’ medesimi cui pretendono disfamare. Se si fa loro da qualche amico notare questa poco lodevole guisa di beneficare, e’ vi rispondono: che non vuolsi badare a certe bazzecole, ch’egli è abbastanza di dare, e chi riceve non dover esser di natura tanto facile a risentirsi. Quasichè la miseria non renda più risentiti, a quella stessa manera che dov’è piaga ivi è più malagevole toccare senza dolore! Uno scherno, un rabbuffo che sia detto ad un grande, ad un ricco, egli è nulla a paragone dell’avvilimento che ne viene al meschino ed al povero. Quei primi hanno di che consolarsi ad un girar d’occhi, quest’ul[p. 173 modifica]timi per lo contrario sono condannati a digerire nella solitudine ogni genere di offesa che lor sia fatta. Si avvezzano, suole dirsi comunemente; c per questo sarà meno ributtante l’uffizio di chi deve ammaestrarli in quest’arte difficilissima?

Operato il benefizio nou state pensando alla mercede che ve ne debbe venire. Forse che sarete benefattori per ciò solo di comperare l’altrui gratitudine? Ma non vi dicono tutte le storie, e i discorsi quotidiani di tutti gli uomini, che il mondo ribocca d’ingrati? Non vi basta la gioia ineffabile che avete provato in quel punto che molti occhi lagrimosi si rasciugarono per cagion vostra? Se questa spezie di gioia non vi appaga, vi predico una inquietudine continua. Non vi parrà mai che la gratitudine sia proporzionata al benefizio, dacchè il benefizio che avete operato è cosa ridotta all’atto e quindi possibile ad essere misurata, e la gratitudine sperata sta tutta nella vostra fantasia e nel vostro cuore, ambidue, non in voi soli, ma in tutti gli uomini, incontentabili e senza misura.

Veniamo un poco alla gratitudine. Anche in questa conviene aver molto l’occhio sopra sè stessi. Sarà o no egli pago il vostro benefattore di quella gratitudine che gli dimostrate? Ciò non fa al caso. Siategli grato, ed assaporate in voi stesso le dolcezze di questa cara virtù, che sola può alleggerirvi il peso degli obblighi contratti col vostro fratello, il quale senza ciò potrebbe sembrarvi in[p. 174 modifica]tollerabile. Sa di sale lo pane altrui, egli è vero; ma più che per altri per chi imparò ad esser grato. Le ingiuste pretensioni di chi benefica non vi danno ragione a credervi liberato dall’obbligo della gratitudine. Ma perchè considerarla un’obbligazione? Non vi accorgete ch’egli è questo un dono del ciclo, affinchè le dolcezze non siano tutte per quelli che possono beneficare.

Molte sono le specie di benefizii, e molte per conseguenza le specie di gratitudine. A nessuno è conceduto di poter dire: io non posso far nulla a pro del mio prossimo. E del pari nessuno può uscire con verità in quest’altro discorso: non ho modo a mostrarmi grato con chi mi fu generoso. Non faremo adesso quella lunga e stucchevole enumerazione di benefizii che tutti sanno e far possono da sé soli; noteremo all’incontro che chi ha in sé stesso il germe della gratitudine, e voglia tenerlo vivo e far che sempre più gli prosperi in cuore, deve tener l’occhio a molte cose che passano inavvertite tra gli nomini, in cui la tardità dell’ingegno procede dalla grossezza del cuore. Nascono alcune anime con si belle inclinazioni alla beneficenza, che non è parola, non sguardo che parta da loro in cui non si vegga vestigio di così nobile sentimento: tanto è per esse l’apparir loro infelice, quanto il guadagnarsi il loro rispetto e la loro affezione. Chi voglia per conseguenza esser loro grato quanto conviene, è d’uopo consideri come sappiano inibire a se medesime tutto ciò che [p. 175 modifica]può tornar doloroso, o, non foss’altro, spiacevole ai loro fratelli. E a meglio apprezzare questo difficile e continuo esercizio della beneficenza, che non è meno nobile perchè si palesi con atti minuti e passaggeri, egli è da badare alla misera proclività di certe altre auime che si compiacciono solamente di ciò che è l’altrui male. Ci accade talvolta di vedere alcuni ingegni mirabil mente disposti al frizzo, al sarcasmo, alla parodia, contenersi pel gentile ribrezzo di piagare profondamente, laddove non più vorrebbero che sfiorare la pelle. E chi ha senso di gratitudine pesi un abbassar d’occhi opportunemente, un torcere bravamente il discorso ad altro soggetto, una benigna circolocuzione a redimere un infelice scannato senza misericordia da una parola o da una reticenza maligna. Anzichè industriarci e cercare le ragioni vere o supposte che possono aver indotto altri a farne del bene, di che si raffredda in noi il sentimento della gratitudine e rimane irritata la nostra superbia, diamoci tutti a studiare questi minuti, e quasi diremo inavvertiti benefizii che ci vengono fatti ad ogni ora da chi possiede in grado eminente la celeste virtù della beneficenza. Può avervi occupazione più dolce pel nostro cuore? Ricordiamoci come fummo pazientemente ascoltati anche quando il nostro discorso era estremamente prolisso, e toccava argomenti di poca o nessuna importanza per altri che noi; con quanta ansieta ne fu chiesta ragione d’ogni picciolo nostro [p. 176 modifica]turbamento, e come in alcun nostro dolore non fummo lasciati soli; come ogni risposta ebbe un accento diverso proporzionato al fervore e al bisogno della domanda, accento suggerito dalla schietta natura, e cui l’arte più provetta ed instrutta studierebbesi vanamente di ricopiare. Col ripensare di questi benefizii, rinnoveremo all’animo nostro riconoscente molte di quelle gioie che ci furono rapite dal tempo. Potremo accorgerci per propria testimonianza, che il piacere della gratitudine non è punto inferiore a quello che viene dalla beneficenza. Chi ha saputo beneficare a dovere, saprà convenientemente apprezzare le dimostrazioni della nostra gratitudine. Non apparente agli occhi della moltitudine, ma vero e proprio di tutti i cuori gentili, è il legame che annoda benefattori e beneficati: nè forse mai meglio che in questo caso può adoperarsi l’emblema delle cetre, così dette eoliche, fra le quali è tale fraternità e consonanza di temperatura, che ove la prima sia scossa a dar tale o tal altra nota, quella nota medesima si rende senza più dalla seconda, tuttochè distante e non tocca da mano alcuna.