Piccola morale/Parte terza/IX. Buona fede e spensieratezza

Parte terza - IX. Buona fede e spensieratezza.

../VIII. Coraggio e temerità ../X. Concentramento e dispersione IncludiIntestazione 22 aprile 2024 75% Da definire

Parte terza - IX. Buona fede e spensieratezza.
Parte terza - VIII. Coraggio e temerità Parte terza - X. Concentramento e dispersione
[p. 184 modifica]

IX.

BUONA FEDE E SPENSIERATEZZA.

Egli è facile il dire in generale altra cosa essere la buona fede, altra la spensieratezza; ma, come si viene a cercar le ragioni per le quali all’una si accorda per universale consentimento il titolo di virtù, all’altra quello di vizio, ecco sorgere difficoltà senza fine, ecco intralciarsi il discorso, e l’animo intento a pronunziare giudizio rimaversene incerto.

Che cosa è, per verità, buona fede? Egli è un trasfondere nella fiducia un poco di credulità; un mescolare a ciò che procede da ragionamento ciò che deriva da semplice pigrizia o inettitudine dell’intelletto; un volere giudicare delle cose secondo ci sono riflettute dalla nostra natura individuale; che più? egli è un credere per solo bisogno di credere, fors’anco per un po’ d’insufficienza di esaminare e di confrontare. Ma la spensieratezza, a bene guardarla, coincide ancor essa ne’ medesimi termini, o in termini poco da quelli dissomiglianti. Chi voglia attentamente considerare le cose, troverà che il più delle volte la differenza tra buona fede e spensieratezza è segnata non [p. 185 modifica]altrimenti che dagli effetti. Ma l’uomo deve egli contenersi entro l’angustia di questo confine? Deve contentarsi di non vedere più là di quello possono le bestie, egli a cui fu dato di portar alta la testa, e per conseguenza di mirar oltre i prestigi del mondo sensibile?

Confesso di avere più volte dubbiato in questi pensieri; e (tuttochè nemico apertissimo delJa doppiezza, e quindi desideroso oltre modo di trovare, se mi fosse possibile, il limite impercettibile dopo il quale la lealtà si muta in balordaggine) non ho mai saputo cavare dalle mie considerazioni tanto costrutto, quanto bastasse a farne soggetto ad una di queste mie chiacchiere di costumi. Quando, sere sono, trovandomi a dialogare con amica persona, in cui l’ingegno ed il cuore nulla hanno di comune coll’universalità de’ pensieri e de’ sentimenti del più degli uomini del mio tempo, mi fu udita una semplicissima frase che mi diede netta la distinzione fra buona fede e spensieratezza, quale si era da me lunga pezza cercata. Niente più facile, diceva il bravo e buon uomo, che l’ingaunarmi la prima volta; non so chi fino a qui m’ingannasse la seconda. Questo discorso non ha nulla di singolare, e detto da altri non ci avrei posto mente; ma pronunziato da tale, di cui l’acume naturale ini avrebbe fatto pensare che non dovesse rimauere ingannato neppure una volta, e per altra parte l’ottimo cuore che non fosse bastante a guar[p. 186 modifica]darsi delle frodi successive, mi dette cagione a pensare, e, dopo aver pensato, a conchiudere essere appunto questo il vero confine da me ricercato tra una virtù ed un vizio, appuntati ambidue nella bontà e dolcezza dell’animo.

Lasciarsi ingannare la prima volta che cosa è alla fine, fuorchè rifuggire coll’animo geutile dal condensare le generali osservazioni che ti vennero fatte in molti individui sopra quell’unico che hai sotto gli occhi? All’incontro lasciarsi ingannare la seconda, non è egli rinnegare l’uso della propria ragione, per cui ti converrebbe conchiudere che quelle generali osservazioni sono benissimo riferite all’individuo con cui hai che fare? Nel primo caso l’astenersi dal credere da una brutta passione, quale si è la diffidenza, passione da lasciarsi ai deboli e ai delinquenti; nel secondo non posso che compiangere il ripudiare che si fa il più bel dono forse a noi conceduto dal cielo, quello cioè di riferire i generali principii alle congiunture particolari, nel che sta alla fine uno de’ principali vantaggi che gli uomini possano ritrarre dal ragionamento. Ben fa dunque chi comincia dal credere a’ suoi fratelli, quando non abbia motivi che gli attraversino questa gentile disposizione del proprio animo, e in ciò mostra buon cuore; male chi continua ciecamente a prestar fede al fratello da cui fu ingannato, palesando con ciò di aver poco sano il cervello.

In una casa fuori di Venezia, nella quale un tem[p. 187 modifica]po, era solito di trattenermi non poche ore, ci aveano due quadri rappresentanti la famiglia del contadino che invita il satiro a saggiare della polenta testé rinversata. La favola del satiro è a tutti nota: com’egli, dopo essersi la prima volta scottato colla vivanda bollente, non osasse la seconda accostarla alla bocca. Da quel fatto se ne trae anche un’altra moralità, ma mi contento di questa che fa proprio al mio caso. Ora que’ quadri erano dipinti da certo abate — ah molliter ossa quiescant! — che visse oltre a novant’anni, tuttoche studiosissimo di latino e di greco notte e giorno, e maestro di gioventù il più del suo tempo; e forse che giunse a tale decrepitezza per merito del buon umore e del violino che suonava nell’ore de’ suoi diporti. E quell’abate a chi credeva ogni cosa, fossegli detto che i gamberi avevano posto il nido sui gelsi; a chi non credeva nulla, quand’anche la verità del racconto fossegli fatta toccare con mano. Ah molliter ossa quiescant! Ed ora ch’egli è sotto terra non so se vorrà più negar fede a nessuno, o se a nessuno verrà voglia di andargli a piantar carote nel campo santo. Finch’era vivo, come udivasi raccontare alcuna cosa che avesse sentore di falsità, se ne sbrigava con un paio d’arcate del suo violino. Benissimo! diceva, a meraviglia e giù con quanta forza gli avevano lasciato sul braccio i suoi novant’anni. Ah molliter ossa quiescant! E basti di lui. Vedine la [p. 188 modifica]biografia latina stesagli dal Ferrari tra quelle degli illustri del Seminario padovano, e italiana a facc. 35 del vol. II della Biografia degl’Italiani illustri de’ secoli XVIII e XIX, pubblicata dal prof. De Tipaldo.

Tornando al mio proposito, sarà da cercare in ogni tempo la compagnia di chi crede, e da tenersi onorati dall’amicizia di chi saprebbe a tempo non credere. Ma il tuo cuore deve desiderare di battere l’ultima volta sotto la mano di chi possa dirti: fui ingannato, e lo sarò ancora, sempre però non più d’una volta, e di ciò mi reco in superbia. Oh che lieve ingannar chi s’assecura! scriveva il maestro degli affetti gentili, e questo è l’elogio della buona fede. Erit ille notus quem per te cognoveris, si legge fra le ammonizioni del liberto d’Augusto, e qui gli spensierati hanno occasione, volendo, di rientrare in sè stessi.

Credere in somma non è operare sopra pensiero; e per altra parte chi mai non pensa dà grande motivo a presumere che non sappia neppure a suo tempo sentire.