Patria Esercito Re/Parte prima/Agonia di una Repubblica
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Agonia di una Repubblica
Il morbo infuria, |
I pochi vecchi superstiti, i quali hanno la fortuna, o la disgrazia, di sopravvivere al volo di oltre mezzo secolo di eventi, ricorderanno gli epici giorni del 1848, quando, al grido di Viva Pio IX, s’intrecciavano ai tre colori del Labaro italiano i due colori bianco e giallo del Labaro papale. Ricorderanno lo scoppio irrefrenabile di entusiasmo con cui, dall’Alpi retiche alle Nebrodi estreme, si salutava l’apparizione del Vicario di Cristo in terra, che aveva impugnata in quei giorni la spada radiosa dell’Angelo della redenzione italica. Ricorderanno, se regge loro la mente, come davanti a Lui si prosternassero i cuori, le menti, le ginocchia dei popoli di tutte le terre d’Italia; come, calde di una novella fede, sciogliessero voti, ergessero busti e monumenti, a gloria e onore del papa rivoluzionario; l’effigie sorridente del quale, pinta in tela, miniata in avorio, fusa in argento ed oro, veniva adorata e benedetta come quella di un santo liberatore. E armille, e medaglie, e altri gingilli, ornavano in quei momenti il petto degli uomini, il seno delle donne; amuleti sacri di patria salute. E dappertutto, inni al Pontefice e alla Croce!
Ma — ahimè! — dopo pochi mesi, alla gioia, all’entusiasmo, succedevano il disinganno e il dolore!... Succedeva l’odio all’amore! Perocchè Pio IX, costretto da crudeli esigenze politiche, e, più ancora, dalla minaccia di uno scisma fra cattolici dell’Austria, dovette ripiegare la bandiera, segnacolo di libertà, ringuainare la spada vendicatrice, raccogliersi taciturno in S. Pietro, per prepararsi a piangere più tardi nel suo rifugio di Gaeta!
Parve allora — ed era, pur troppo! — una defezione. Si gridò all’inganno, al tradimento. Le benedizioni dei popoli si cambiarono, lì per lì, in invettive, in vituperi; gl’inni dei poeti, in satire atroci!
Ma chi potè leggere, in quei giorni, nel fondo al cuore di Mastai Ferretti? Chi potè vederne e contarne le lacrime?... Chi? chi mai, nel momento dell’ira, potè sceverare, con sereno giudizio, la causa, la portata dell’angosciosa diserzione?
Lagrime di coccodrillo, si dissero allora; ma che fossero lagrime sincere di un’anima italiana, lo proverebbe, invece, la stupenda lettera che nel Giugno del 1848 stesso, Pio IX dirigeva a Ferdinando I, esortandolo a cessare dalle armi e riconoscere la nazionalità italiana; fare colla novella Italia degli italiani, la pace!
È un documento, ignorato dai più, sperduto in quei giorni di rivoluzione, che indarno il Gabinetto di Vienna avrebbe desiderato apocrifo, e che noi troviamo stampato in un Supplemento al Foglio di Verona — foglio ufficiale dell’Impero, redatto da F. G. Crivelli — colla data di martedì 20 giugno 1848. Mentre, cioè, a Venezia s’era da circa quattro mesi proclamata la repubblica; e, a Trieste, il contrammiraglio Albini, comandante la flotta sarda, sosteneva il blocco della città, in onta alla protesta collettiva di tutti i Consoli delle potenze estere ivi residenti; e mentre tutte le contrade d’Italia erano in fiamme.
Il lettore giudichi se l’importanza del documento, e la spinta del cuore onde usciva, possano attenuare e mettere sotto nuova luce la memoria del sommo Pontefice. Noi lo riproduciamo nella sua integrità, come il foglio austriaco ce lo porge.
Missiva di Pio IX all’Imperatore d’Austria.
“Costumò sempre la Santa Sede, in mezzo le guerre che abbeverarono di sangue la terra cristiana, parlare parole di pace; e mentre già noi, nella nostra allocuzione del 20 aprile decorso, protestavamo che ripugnava al nostro cuore paterno il dichiarare la guerra, avevamo espressamente esternato il nostro più vivo desiderio di contribuire alcun poco alla pace. Non fia dunque certo discaro alla Maestà Vostra, se noi ci rivolgiamo alla pietà e coscienziosità della Medesima, con affetto paterno, esortandola ad astenersi da una guerra che, senza riguadagnare gli animi dei Lombardi e dei Veneziani dell’Impero, trarrebbe seco una lunga serie di calamità, dalle quali certo la Maestà Vostra abborrisce del pari che le disapprova. Nè sarà pure disaggradevole alla generosa Nazione tedesca, se Noi la invitiamo a smettere ogni odio, e con utili rapporti di vicinanza amichevole, a fondare una dominazione, che sarebbe, a gran pezza, più nobile e più avventurosa di quella che si appoggiasse alla spada.
Nutriamo fiducia che la stessa Nazione, la quale va con diritto superba della sua nazionalità, non porrà l’onor suo in sanguinosi tentativi contro la Nazione italiana, ma piuttosto in riconoscerla magnanimamente siccome sorella — che tutt’e due, quali figlie, son care al nostro cuore paterno — e tornar di bel nuovo a’ suoi naturali confini, per abitare contigue in condizioni onorevoli nella benedizione del Signore.
Noi preghiamo pertanto il Datore di tutti i lumi e l’Autor d’ogni bene d’infondere pie deliberazioni a Vostra Maestà, mentre col fervore dell’animo nostro impartiamo alla Medesima ed alla Maestà dell’Imperatrice ed all’Imperiale famiglia l’apostolica benedizione.
Pio IX papa„.
La Gazzetta Viennese, la quale fino dal 9 giugno 1848, aveva riportata la lettera del Santo Padre, la faceva seguire, a denti stretti, e con un’acre ironia, molto poco cristiana, da questo commento:
“Non può negarsi che la Santa Sede non sappia, a suo tempo, e in armonia col soggetto, sempre far uso delle molteplici esortazioni che le sovrabbondano. Certo, in altre circostanze, se per esempio, le provincie insorte dell’Austria abitate non fossero da Italiani, avrebb’ella saputo raccomandare con molta edificazione la dovuta obbedienza de’ sudditi all’autorità preposta da Dio, siccom’ella al presente, colla massima unzione, predica all’imperatore d’Austria la pace, ed ai popoli la nazionalità e il tesoro di devota eloquenza, che non ha mai quindi a soffrire il difetto di un testo, per provare, con piena evidenza di tutte le anime credenti, quello che a lei giova spacciare„.
E il Messaggiere d’Innsbruck, propinando anch’esso la sua dose di ironia e di veleno, soggiungeva:
“Come può il protettore di tutti i diritti, il Pontefice, comandare al nostro Imperatore di rinunciare bonariamente a possedimenti assicuratigli da sacri trattati e proditoriamente assaliti?
Se le Alpi sono, realmente, i confini naturali d’Italia, come viene accennato nella lettera summentovata, noi siamo autorizzati ad aspettarci che il Piemonte ceda il suo territorio posto al di là di quelle, alla Francia, a cui spetterebbe, con maggior diritto che una parte del Tirolo all’Italia. È egli stato fatto a Carlo Alberto, da Roma, un uguale invito di rimettere la spada nel fodero?... E perchè non lo si legge nei pubblici giornali?... Cosa strana! solo verso l’Imperatore Ferdinando non debba essere usato alcun riguardo?... Solo egli, il buono, l’innocente, debba essere sagrificato per i peccati del mondo?... S’egli poi risponderà alla suddetta lettera, è ciò intorno a cui crediamo di dubitare. Sì, lo diciamo e ripetiamo: volesse Iddio che quella lettera fosse apocrifa!„
E, difatti, il buono e innocente, debole e ingenuo imperatore Ferdinando I, si guardò bene dal rispondere alle esortazioni del Pontefice; ma messo, come chi dicesse, fra l’uscio e il muro, trovò cosa più spiccia e più comoda prendere la via dell’uscita: abdicò nelle mani del giovane Francesco Giuseppe, e avvenne.... quello che avvenne!
Quattordici mesi dopo quel giorno memorando che la città dogale — Venezia — il marzo 1848, infrante le catene della servitù straniera, fra l’entusiasmo frenetico di un popolo libero, proclamava in piazza S. Marco, la Repubblica, e portava, a braccia di popolo, in trionfo Manin e Tommaseo, tolti alle carceri; quattordici mesi dopo — diciamo — cioè la sera del 4 maggio 1849, il Feld-maresciallo Radetzky — l’uomo di ferro dell’Impero Austriaco — giunto presso il II Corpo di Riserva, comandato dal tenente-maresciallo Haynau, ha preso alloggio a Mestre, nella casa dei conti Papadopoli — i quali, certamente, avrebbero, in quel momento, volontieri rinunciato a tanto onore!
Radetzky era giunto mentre si stavano apprestando gli ultimi lavori d’assedio contro il forte di Marghera, e già iniziato anche il fuoco delle batterie. Esso, appena giunto, mandò ai veneziani assediati un proclama, nel quale, dopo aver dichiarato che non parlava come guerriero, nè generale, ma — bontà sua! — come un padre amoroso; metteva davanti ai loro occhi le terribili conseguenze cui era dannata Venezia, ove persistesse nella lotta. E scriveva:
“Io sono arrivato dal mio Quartiere generale di Milano, per esortarvi l’ultima volta — l’ulivo in mano, se date ascolto alla voce della ragione, la spada nell’altra, pronta ad infliggervi il flagello della guerra fino allo sterminio, se persistete nella ribellione„.
E il Feld-maresciallo, scrivendo, a quel modo, intendeva parlare da padre amoroso!
Così, dopo aver concesso ai Veneziani le solite ventiquattrore di respiro, cioè fino alle ore 8 del mattino del successivo 6 di maggio, riassumeva in una specie di estratto Liebig — le seguenti condizioni:
“Primo: Resa piena, intera e assoluta.
Secondo: Reddizione immediata di tutti i forti, arsenali, ecc. ecc. Il conte Radetzky. Consegna di tutti i bastimenti da guerra, materiali e tutti gli oggetti di proprietà del pubblico Erario di qualsiasi sorta.
Terzo: Consegna di tutte le armi, tanto quelle appartenenti allo Stato, quanto ai privati.„
Poi, come concessione:
“Quarto: Permesso di partire da Venezia a tutte le persone che volessero lasciare la città, tanto da parte del mare quanto da quella di terra.
Quinto, finalmente: Perdono generale per tutti i semplici soldati e sott’ufficiali delle truppe di terra e di mare; aggiungendo che fino all’ora stabilita sarebbero cessate le ostilità.„
Alla, diremo così, paternale del Maresciallo, il Governo Provvisorio, in data del 5 maggio 1849, rispondeva:
Il tenente-maresciallo Haynau, con Nota 26 marzo, fece già al Governo provvisorio di Venezia quella intimazione di resa che è sostanzialmente portata dal proclama di V. E., in data di ieri, acchiuso in un involto a me diretto.
Nel 2 aprile furono convocati i rappresentanti della popolazione di Venezia, ai quali il Governo diede comunicazione della detta Nota del tenente-maresciallo Haynau, provocando dall’Assemblea una deliberazione sulla condotta ch’esso Governo doveva tenere nelle già conosciute condizioni politiche e militari d’Italia.
L’Assemblea dei rappresentanti ha unanimamente decretata la resistenza, e me ne diede l’incarico.
Al proclama, dunque, della E. V. non posso fare altra risposta che quella che mi è stata prescritta dai mandatari legittimi degli abitanti di Venezia.
Mi pregio poi di far noto alla E. V. che sino dal 4 aprile, mi sono rivolto ai Gabinetti d’Inghilterra e di Francia, affinchè, continuando la loro opera di mediazione, vogliano interporsi presso il Governo Austriaco per procurare a Venezia una conveniente posizione politica.
Ho speranza di ricevere fra breve la comunicazione ufficiale delle benevoli pratiche delle prefate Alte Potenze; specialmente dopo le nuove istruzioni che ho trasmesse a Parigi il 22 dello stesso mese.
Ciò non toglierebbe che le trattative potessero aver luogo anche direttamente col Ministero Imperiale, ove la E. V. ciò stimasse opportuno per giungere ad uno scioglimento più facile e pronto.
Spetta adesso alla E. V. il decidere se, durante le pratiche di pacificazione, abbiano ad essere sospese le ostilità, per evitare, forse, un inutile spargimento di sangue.
Aggradisca la E. V. le attestazioni dell’alta mia stima e profonda considerazione.
Manin„.
A S. E. il Feld-maresciallo conte Radetzky, Comandante in Capo delle I. R. truppe in Italia, presso Mestre. |
Alla quale lettera, il fiero maresciallo rispose: che S. M. il suo amato Sovrano, essendo deciso a non permettere mai l’intervento di Potenze estere fra lui e i suoi sudditi ribelli, ogni speranza del Governo rivoluzionario era illusoria, vana, e fatta solamente per ingannare i poveri abitanti. E, come stretta finale, conchiudeva:
“Cessa dunque, d’or innanzi, ogni ulteriore carteggio, e deploro che Venezia abbia a subire la sorte della guerra„.
Se non che, interveniva intanto un fatto nuovo. Carlo Ludovico De Bruck, vecchio amico di Venezia e dell’Italia, interpretando la risposta di Manin come una buona disposizione a entrare in trattative col Governo di Vienna — ottenutone il consenso dal Consiglio dei Ministri, e proprio nel momento che il forte di Marghera era già caduto in mano degli Austriaci — diresse a Manin la seguente lettera:
Nella risposta da Lei data, il giorno 6 di maggio, al proclama del 4 dello stesso mese, di S. E. il Feld-maresciallo Radetzky, Ella fece allusione a dirette trattative col ministero Imperiale, per giungere ad uno scioglimento più facile e pronto.
Quantunque non saprei in che possano consistere queste trattative, pure, per esaurire ogni via di moderazione, sono autorizzato di prevenirla che mi trovo presente al Quartier generale presso Mestre, fino a domani alle ore 8 antimeridiane.
Mestre, 31 maggio 1849.
L’I. R. Ministro del commercio |
Manin rispondeva:
Venezia, 31 maggio, 1849.
Nella mia lettera del 5 corrente, io avevo l’onore di annunziare a S. E. il Feld-Maresciallo conte Radetzky, che dal Governo provvisorio di Venezia, erano stati invocati i buoni uffici del Governo francese ed inglese; affinchè, continuando la loro opera di mediazione, contribuissero ad ottenere, per questo paese, una conveniente condizione politica; ed entrare in trattative dirette col Gabinetto di Vienna, qualora esso Feld-maresciallo, trovasse ciò opportuno per conseguire uno scioglimento più facile e pronto; che è quanto dire, per ottenere più praticamente, e più facilmente, che fosse accordato a Venezia una conveniente condizione politica.
S. E. il Feld-maresciallo, nella Sua replica del 6 corrente, rifiutando l’idea di ogni mediazione, nulla diceva rispetto le trattative dirette; le quali sembrarono anche escluse da S. E. il ministro degli Affari Esteri a Vienna, che veniva sul proposito interpellato dall’Ambasciatore francese ivi residente.
Ora, la E. V. con la Sua lettera d’oggi, dichiara d’essere autorizzato a trattare col Governo di Venezia; ond’io, ottenutane speciale autorizzazione dall’Assemblea dei rappresentanti di questa popolazione, ho l’onore di comunicare alla E. V. che sono pronto e disposto ad intavolare le pratiche occorrenti per divenire a un componimento, che assicuri una conveniente condizione politica al mio paese; e a tal fine, prego la E. V. che si compiaccia accordare regolare salvacondotto a due cittadini di mia confidenza, che a questo effetto si porteranno a Milano, o in quell’altro luogo che alla E. V. sembrerà più conveniente.
Gradisca la E. V. ecc. ecc.
Manin„.
I due cittadini scelti furono, per la prima volta, Giuseppe Calucci e Giorgio Foscolo. Lunghe furono le pratiche verbali e scritte da ambo le parti; tanto che, pur troppo, il rancido proverbio: che le cose lunghe diventano serpi, non ebbe mai, più dolorosa affermazione.
Le trattative si svolsero su tre proposte, messe avanti dal ministro De Bruck; ma non ancora approvate dal Gabinetto di Vienna. Eccole:
— Costituzione di un Regno Lombardo-Veneto, con appositi Statuti.
— Divisione in due grandi sezioni, una Veneta, una Lombarda.
— Venezia, città Imperiale, con un proprio regime municipale.
Tali trattative, scritte a verbale, dovevano durare non oltre il 9 di giugno. Prima della quale data, tornati dalla conferenza i due incaricati, scrivevano da Venezia al De Bruck stesso, che, avendo egli dichiarata la impossibilità di porre per base delle trattative la indipendenza assoluta di Venezia — sul che appunto si aggiravano specialmente le loro istruzioni — sarebbe stato loro impossibile di far convocare l’Assemblea; nulla avendo in mano di concreto.... se non qualche cosa che rispondeva a una semplice capitolazione. E aggiungevano:
“Ci duole il dirlo, ma la risposta che n’avemmo, non migliorò la nostra posizione. Denudiamo la cosa da ogni prestigio: quale offerta faremmo noi, fuorchè quella di discendere a una semplice capitolazione? E si accerti, Eccellenza, che il popolo di Venezia, pieno ancora delle tradizioni di una libera vita, abituato ormai da quindici mesi all’indipendenza, — affezionato maggiormente a queste nuove sue istituzioni, perchè comperate con sagrifici di sangue — non ascolterebbe nemmeno il Governo, se gli parlasse un tal linguaggio; e, per la prima volta, getterebbesi il seme della discordia e dell’anarchia.
V. E. ci disse, è vero, dover noi avere l’intimo convincimento che in Austria più non sono gli uomini del passato; che liberale è il Ministero; che indubbiamente avremo libere istituzioni; ma le lontane speranze potranno mai indurre il popolo a una capitolazione?
Siamo certi, Eccellenza, di tutta la rettitudine delle di Lei intenzioni; siamo certi che se la di Lei opinione non venisse seguita, Ella, per avventura, si ritirerebbe: ma dopo questo, che sarebbe di noi? Anche nel 1815 avemmo grandi promesse....„.
E terminavano:
“S. M. l’Imperatore, il 16 settembre 1848, prometteva che del Lombardo-Veneto avrebbe fatto un Regno separato, tributario sì, ma avente una esistenza politica, e le cui guarentigie sarebbero state più ampie di quelle che ora ci vengono accennate come progetto di probabile approvazione. Se questa idea di un Regno separato non divenne assolutamente impossibile, sia questo, per noi, dato su cui aprire le nostre trattative; e siamo certi, che, specialmente applicando ad esso la idea accennata dalla E. V. di costituire Venezia la capitale del Veneto, noi verremo con tali istruzioni, onde terminare prontamente una guerra, la quale turba non poco il bene di tutto lo Stato.
Eccellenza! il giorno in cui Ella assunse di proteggere le sorti di Venezia, assicurando così la durevole pacificazione dell’Italia settentrionale, si pose sul cammino di una grande gloria politica: progredisca in questo cammino, cerchi di cogliere la palma, ed avrà la benedizione del popolo, ed un nome onorato nella storia colossale di questi tempi.
Spiegato in siffatta guisa il nostro pensiero, dipendiamo da V. E., e cogliamo l’occasione, ecc., ecc. — Firmati: Giuseppe Calucci, Giorgio Foscolo„.
A questa dei delegati, tenne dietro, da Milano 11 giugno, un’altra lettera di De Bruck, così concepita:
La risposta, in data del 9 corrente, con cui le LL. SS. vollero favorire la mia del 5, non potea a meno di destare in me il senso dispiacevole, che non siensi abbastanza compresi i principii che solo possono formare base ad un avvicinamento.
Mi si assicura, che, nelle trattative, da parte mia non si sarebbero offerte che speranze. Ma, o si voglia considerare la posizione del Regno Lombardo-Veneto in faccia alle provincie dell’Impero — ed in questa parte sta il fatto ormai compiuto della Costituzione 4 marzo, di cui ad ogni buon fine acchiudo un esemplare, la quale stabilisce per principio fondamentale ed indeclinabile, che il Regno stesso forma parte integrante della Monarchia, — oppure si voglia considerare la Costituzione speciale di queste Provincie, ed avvisare in modo concreto ai rapporti di un Regno Veneto col resto della Monarchia, e specialmente nel Regno Lombardo, allora si presenta meglio definito il campo, sul quale solo è dato di venire a trattative; le quali avrebbero per risultamento, non già speranze o promesse, ma la concessione effettiva di tutte quelle istituzioni che fossero possibili col suaccennato principio della costituzione 4 marzo p. p.
Rassicurate le LL. SS. che per tal mezzo arrivare si potrebbe ad una positiva e soddisfacente combinazione, e rimanendo così rimossi i dubbi che sembravano averne impedita la iniziativa, non abbandono la speranza che l’assennatezza di codesti cittadini, penetrata dalla gravità delle circostanze, non vorrà lasciarsi sfuggire la propizia occasione di concorrere, col fatto proprio, a stabilire la condizione futura della patria, anzichè abbandonarla all’esito, non più dubbio, nè lontano di una guerra micidiale e devastatrice.
Le LL. SS. apprenderanno, da questa leale e franca mia risposta, quanto apprezzavo il franco e leale loro linguaggio, e vorranno accettarla quale nuovo pegno del vivo desiderio che ho di allontanare dai loro concittadini ogni maggior disastro, e di contribuire, nello stesso tempo, per quanto io possa, al loro benessere ed alla loro dignità nazionale.
L’I. R. Ministro del commercio |
Appena ricevuta la lettera del Ministro, i due delegati, nel tempo che la comunicavano a Daniele Manin, rispondevano a De Bruck, ringraziandolo, e avvertendolo che sarebbe stata tosto convocata l’Assemblea dei rappresentanti per le relative deliberazioni.
Daniele Manin, dal canto suo, presa cognizione di tale lettera, in data dal 18 giugno, scriveva:
Come i miei incaricati ebbero l’onore di scrivere a V. E. il giorno 13 corrente, il Governo andava a convocare l’Assemblea dei rappresentanti, per comunicare alla stessa il tenore delle cose seguite, e specialmente quello della lettera che la E. V. si compiaceva dirigere sotto la data dell’11.
L’Assemblea, non sapeva prevedere a quali pratiche conseguenze possa condurre l’applicazione del principio posto nella succitata lettera della E. V., trovò di non poter prendere una determinata deliberazione; ma autorizzò il Governo a progredire nelle negoziazioni, per poi presentarle un trattato concreto.
Io quindi, nella speranza che si possa giungere a determinare le Istituzioni del Regno, ed i suoi rapporti coll’Impero, in modo che guarentisca il nostro benessere e la nostra dignità nazionale — secondo le espressioni della E. V. — invierò quali incaricati per le trattative, i signori Giuseppe Calucci e Lodovico Pasini; e prego la E. V. di farmi tenere pei medesimi il salvacondotto, e stabilire il luogo ed il giorno in cui dovrebbero tenersi le conferenze.
Manin„.
Non sappiamo di preciso quali fossero le ragioni che determinarono la sostituzione del delegato Lodovico Pasini al delegato Foscolo, nè vale la pena di approfondire la cosa; ma ammiriamo lo studio e l’abilità di Daniele Manin nel guadagnar tempo... sperando dal tempo e dagli avvenimenti, il bene del proprio paese.
E questa, forse, era anche la speranza del ministro austriaco, il quale, in data del 19 giugno, cioè due soli giorni dopo, rispondeva:
Poichè nella di Lei lettera del 17 corrente, mi viene espresso il desiderio di conferire con me sulle future Istituzioni del Regno Lombardo-Veneto, e i suoi rapporti coll’Impero, in modo da guarentire il benessere di codesti cittadini, e la loro dignità nazionale, io mi presterò di buon grado un’altra volta ad assecondare, in questa parte, il desiderio medesimo, a risparmio di maggiori disastri e rovine.
I due rappresentanti vorranno quindi presentarsi il giorno di giovedì, 21 corrente, alle ore 8 antimeridiane, ai nostri avamposti militari, per essere accompagnati alla stazione della Strada Ferrata presso Mestre, ove si troverà un traino apposta per condurli a Verona, dove sarò per attenderli.
Milano, 19 giugno 1849.
L’I. R. Ministro del commercio |
Ed ecco i rappresentanti di Venezia in viaggio per un nuovo tu per tu col mediatore volonteroso dell’Impero Austriaco.
Lunga fu la conferenza. In questa si venne a più particolareggiate spiegazioni, così sulla forma politico-amministrativa da darsi alle Provincie Venete, ritenendone a capo Venezia, come sulle principali modalità generali da adottarsi, tanto rispetto alla parte finanziaria, commerciale e materiale della città di Venezia, quanto rispetto al perdono, ed alle garanzie personali da concedersi agli individui facenti parte delle milizie, o maggiormente compromessi nelle politiche vicende.
Il ministro, ritornato a Milano, dopo la conferenza, e abboccatosi col Feld-maresciallo, vennero combinate insieme le trattative, riepilogate nel foglio che segue:
Dopo la conferenza che abbiamo avuto in Verona, nei giorni 21 e 22 corrente mese, cogli incaricati signori Calucci e Pasini, avvisai superfluo di ritenere ancora l’argomento della futura condizione politica di Venezia, giacchè ogni migliore illustrazione in proposito può aversi, e dai precedenti miei fogli, e dagli stessi signori prenominati, ai quali, anche verbalmente, non mancai di progredire nell’argomento le più date e precise spiegazioni.
Relativamente poi agli altri oggetti, sui quali si aggirano parimenti le conferenze testè avute coi signori incaricati Calucci e Pasini, mi affretto a dichiarare, di concerto con S. E. il Feld-maresciallo conte Radetzky, che, ritenute ferme le condizioni accordate dalla E. S. nel proclama del 4 maggio p. p., nulla osta di accordare e determinare ulteriormente quanto segue:
La detta Carta avrà corso legale soltanto in Venezia, per l’accennato diminuito valore, fino a tanto che, d’accordo col Veneto Municipio, sarà ritirata e sostituita; il che dovrà aver luogo entro breve spazio di tempo. L’ammortizzazione poi di questa nuova Carta, dovrà seguire a tutto peso del Municipio, mediante la già decretata annua sovraimposta, in ragione di centesimi 20 per ogni lira d’estimo, e con altre misure sussidiarie, onde affrettare la totale estinzione, prevalendosi anche della creata Banca Nazionale Veneta, che viene a tale effetto conservata.
In riguardo di questo aggravio, non saranno inflitte multe di guerra, ritenendo però ferme quelle che furono già inflitte ad alcuni abitanti di Venezia relativamente ai loro possessi di terra ferma.
Queste sono le ultime condizioni, che S. E. il Feld-maresciallo conte Radetzky trova di accordare; ritenuto però, che, se entro otto giorni non vengono accettate, dovranno ritenersi come non avvenute.
Quando venissero accettate, basterà che ne sia fatto consapevole S. E. il tenente-maresciallo conte Thurn, comandante il II Corpo d’armata; ed in allora S. E. il conte Radetzky, si darà prontamente la cura di recarsi a Mestre per combinare la esecuzione, insieme ai Commissarii che verranno spediti come incaricati di assistervi.
Io pure vi assisterò, e mi sarà sommamente grato di avere contribuito a salvare Venezia da quei disastri, ai quali, colla guerra, avrebbe dovuto miseramente soggiacere.
Milano, 23 giugno 1849.
L’I. R. Ministro del commercio |
A queste condizioni finali, susseguì, per ultimo, la seguente spartana risposta:
- “Eccellenza!
Ho comunicato all’Assemblea dei rappresentanti, il rapporto che i signori Calucci e Pasini fecero al Governo, intorno alle conferenze avute con V. E. in Verona i giorni 21 e 22 giugno, e la lettere che mi faceste l’onore di scrivere il dì 10 da Milano; e l’Assemblea stessa, nella sua sessione di ieri, ha presa a scrutinio segreto, con 105 voti sopra 118, la seguente deliberazione:
Udite le comunicazioni del Governo;
“Nell’atto che adempio al dovere di porgere a V. E. la presente comunicazione, non posso dissimularle il mio rincrescimento, che l’indole dei patti proposti abbia resa vana la nostra sincera intenzione di giungere ad un accomodamento reciprocamente onorevole e soddisfacente.
Aggradisca V. E. le attestazioni della mia profonda considerazione.
Manin„.
Ed eccoci alla resistenza ad ogni costo!
Ma già da una ventina di giorni dopo la risposta del Manin, erano cominciate a mancare le carni, il vino, il pane. Le botteghe dei fornai erano assediate da mane a sera da una folla di donne e di uomini, per averne un tozzo solo, e anche questo composto di cattiva segala, e, più avanti, nero come il cioccolatte. Bloccate le botteghe dei biadaroli dalle donne per riuscire ad avere una manata di farina gialla; la metà di queste tornavano a mani vuote, impedite dalle violenze dei più forti. Ogni giorno, ogni ora, può dirsi ogni minuto, Venezia, la grande malata, si avvicinava all’agonia. Il blocco oramai minacciava di condurla agli estremi. Non più grano; fermi i mulini.... il morbo, la fame, s’incaricavano della estrema unzione! Eppure essa sopportava ancora le ultime strette, sostenuta dal pensiero della patria.
Pur troppo, però, il malcontento, suggestionato dai nemici interni e dalla disperazione, cominciava a rivelarsi non soltanto a parole ma, ahimè! altresì a fatti. Alcuni manifesti del Governo, e dell’Annona, venivano lacerati, e i nomi dei sottoscritti imbrattati di sudiciume. Gli spedali rigurgitavano di ammalati e di feriti. E, intanto, il piazzale del ponte sulla laguna era bersagliato dalle palle e dalle bombe austriache. Saltavano in aria le polveriere lasciando per le terre morti e feriti, Un globo incendiario, fra gli altri, senza un provvidenziale vento impetuoso, sarebbe caduto fino in piazza S. Marco, con quale danno ognuno può figurarlo!
Dalla bocca degli affamati usciva ormai, per quanto timido, il grido di capitolazione!
Tutta Italia è nuovamente in catene; e Venezia, l’ultimo asilo della sua libertà si trova, anch’essa, negli estremi rantoli dell’agonia!
Dall’onde della sua laguna, levasi lugubre, desolato il canto di Arnaldo Fusinato, ch’era di presidio, durante l’assedio, nell’Isola del Lazzaretto Vecchio:
A VENEZIA!
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Uno dei soliti corrispondenti prezzolati, nel Giornale di Verona, in data del 24 luglio, scriveva:
“Ieri una quarantina di soldati austriaci diedero un assalto al gran piazzale del ponte della ferrata, alla batteria Veneta, inchiodandone i cannoni e portando via la bandiera. Si può affermare che sette ottavi della popolazione desidera il ritorno degli Austriaci, e si augura al più presto la loro venuta, almeno per portare alla bocca un tozzo di pane. Non passeranno quindici giorni e saranno costretti a chiamarli, se non vorranno morire di fame„.
La tetra profezia del losco corrispondente divenne realtà. Non dopo quindici giorni, ma precisamente dopo un mese dalla data posta in testa alla corrispondenza, Venezia, la gloriosa Venezia, bersaglio alle granate austriache, estenuata dalla fame, decimata dal morbo, dovette, il 24 agosto 1849, alzare sui ruderi de’ suoi baluardi la bandiera bianca, chinare il capo.... ed arrendersi!