Orlando innamorato/Libro secondo/Canto nono

Libro secondo

Canto nono

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Libro secondo - Canto ottavo Libro secondo - Canto decimo

 
1   Odeti ed ascoltati il mio consiglio,
     Voi che di corte seguite la traccia:
     Se alla Ventura non dati de piglio,
     Ella si turba e voltavi la faccia;
     Alor convien tenire alciato il ciglio,
     Né se smarir per fronte che minaccia,
     E chiudersi le orecchie al dir de altrui,
     Servendo sempre, e non guardare a cui.

2   A che da voi Fortuna è biastemata,
     Ché la colpa è di lei, ma il danno è vostro?
     Il tempo viene a noi solo una fiata,
     Come al presente nel mio dir vi mostro;
     Perché, essendo Morgana adormentata
     Presso alla fonte nel fiorito chiostro,
     Non seppe Orlando al zuffo dar di mano,
     Ed or la segue nel diserto in vano,

3   Con tanta pena e con fatiche tante,
     Che ad ogni passo convien che si torza.
     La fata sempre fugge a lui davante;
     Alle sue spalle il vento se rinforza
     E la tempesta, che sfronda le piante
     Giù diramando fin sotto la scorza.
     Fuggon le fiere e il mal tempo li caccia,
     E par che il celo in pioggia si disfaccia.

4   Ne l’aspro monte e ne’ valloni ombrosi
     Condutto è il conte a perigliosi passi.
     Callano rivi grossi e roïnosi,
     Tirando giù le ripe, arbori e sassi,
     E per quei boschi oscuri e tenebrosi
     S’odon alti rumori e gran fraccassi,
     Però che ’l vento, il trono e la tempesta
     Dalle radici schianta la foresta.

5   Pur segue Orlando e fortuna non cura,
     E prender vôl Morgana a la finita,
     Ma sempre cresce sua disaventura,
     Perché una dama de una grotta uscita,
     Pallida in faccia e magra di figura,
     Che di color di terra era vestita,
     Prese un flagello in mano aspero e grosso,
     Battendo a sé le spalle e tutto il dosso.

6   Piangendo se battea quella tapina,
     Sì come fosse astretta per sentenzia
     A flagellarsi da sera e matina.
     Turbosse il conte a tal appariscenzia,
     E dimandò chi fosse la meschina.
     Ella rispose: - Io son la Penitenzia,
     De ogni diletto e de allegrezza cassa,
     E sempre seguo chi ventura lassa.

7   E però vengo a farte compagnia,
     Poi che lasciasti Morgana nel prato,
     E quanto durarà la mala via,
     Da me serai battuto e flagellato,
     Né ti varrà lo ardire o vigoria,
     Se non serai di pacïenza armato. -
     Presto rispose il figlio di Melone:
     - La pacïenza è pasto da poltrone.

8   Né te venga talento a farmi oltraggio,
     Ché pacïente non serò di certo.
     Se a me fai onta, a te farò dannaggio,
     E se mi servi ancor, ne avrai buon merto:
     Dico de accompagnarme nel vïaggio
     Dove io camino per questo diserto. -
     Così parlava Orlando, e pur Morgana
     Tuttavia fugge ed a lui se alontana.

9   Onde, lasciando mezo il ragionare,
     Dietro alla fata se pose a seguire,
     E nel suo cor se afferma a non mancare
     Sin che vinca la prova, o de morire.
     Ma l’altra, di cui mo vi ebbi a contare,
     Qual per compagna se ebbe a proferire,
     Se accosta a lui con atti sì villani,
     Che de cucina avria cacciati i cani.

10 Perché, giongendo col flagello in mano,
     Disconciamente dietro lo battia.
     Forte turbosse il senator romano,
     E con mal viso verso lei dicia:
     - Già non farai ch’io sia tanto villano,
     Ch’io traga contra a te la spata mia;
     Ma se a la trezza ti dono di piglio,
     Io te trarò di sopra al celo un miglio. -

11 La dama, come fuor di sentimento,
     Nulla risponde, ed anco non lo ascolta;
     Il conte, a lei voltato in mal talento,
     Gli mena un pugno alla sinestra golta.
     Ma, come gionto avesse a mezo il vento,
     O ver nel fumo, o nella nebbia folta,
     Via passò il pugno per mezo la testa
     De un lato ad altro, e cosa non l’arresta.

12 Ed a lei nôce quel colpo nïente,
     E sempre intorno il suo flagello mena.
     Ben se stupisce il conte nella mente,
     E ciò veggendo non lo crede apena.
     Ma pur, sendo battuto e de ira ardente,
     Radoppia pugni e calci con più lena;
     Qua sua possanza e forza nulla vale,
     Come pistasse l’acqua nel mortale.

13 Poi che bon pezzo ha combattuto in vano
     Con quella dama che una ombra sembrava,
     Lasciolla al fine il cavallier soprano,
     Ché tuttavia Morgana se ne andava,
     Onde prese a seguirla a mano a mano.
     Ora quest’altra già non dimorava,
     Ma col flagello intorno lo ribuffa,
     E lui se volta, e pur a lei s’azuffa.

14 Ma, come l’altra volta, il franco conte
     Toccar non puote quella cosa vana,
     Onde lasciolla ancora, e per il monte
     Se puose al tutto a seguitar Morgana;
     Ma sempre dietro con oltraggio ed onte
     Forte lo batte la dama villana.
     Il conte, che ha provato il fatto a pieno,
     Più non se volta e va rodendo il freno.

15 "Se a Dio piace, - diceva - on al demonio
     Ch’io abbi pacïenza, ed io me l’abbia:
     Ma siame il mondo tutto testimonio
     Ch’io la tragualcio con sapor di rabbia.
     Qual frenesia di mente o quale insonio
     Me ha qua giuso condutto in questa gabbia?
     Dove entrai io qua dentro, o come e quando?
     Son fatto un altro, o sono ancora Orlando?"

16 Così diceva, e con molta roina
     Sempre seguia Morgana il cavalliero.
     Fiacca ogni bronco ed ogni mala spina,
     Lasciando dietro a sé largo il sentiero;
     Ed alla fata molto se avicina,
     E già de averla presa è il suo pensiero;
     Ma quel pensiero è ben fallace e vano,
     Però che presa ancor scappa di mano.

17 Oh quante volte gli dette di piglio
     Ora ne’ panni ed or nella persona!
     Ma il vestimento, ch’è bianco e vermiglio,
     Ne la speranza presto l’abandona.
     Pure una fiata rivoltando il ciglio,
     Come Dio volse e la ventura buona,
     Volgendo il viso quella fata al conte,
     Lui ben la prese al zuffo ne la fronte.

18 Alor cangiosse il tempo, e l’aria scura
     Divenne chiara e il cel tutto sereno;
     E l’aspro monte si fece pianura,
     E dove prima fo di spine pieno,
     Se coperse de fiore e de verdura;
     E ’l flagellar de l’altra venne meno,
     La qual, con meglior viso che non suole,
     Verso del conte usava tal parole:

19 - Attienti, cavalliero, a quella chioma,
     Che nella mano hai volta, de Ventura,
     E guarda de iustar sì ben la soma,
     Che la non caggia per mala misura.
     Quando costei par più quïeta e doma,
     Alor del suo fuggire abbi paura,
     Ché ben resta gabbato chi li crede,
     Perché fermezza in lei non è, né fede. -

20 Così parlò la dama scolorita,
     E dipartisse al fin del ragionare;
     A ritrovar sua grotta se n’è gita,
     Ove se batte e stasse a lamentare.
     Ma il conte Orlando l’altra avea gremita,
     Come io vi dissi, e, senza dimorare,
     Or con minaccie or con parlar suave
     De la pregion domanda a lei la chiave.

21 Ella con riso e con falso sembiante
     Diceva: - Cavalliero, al tuo piacere
     Son quelle gente prese tutte quante,
     E me con seco ancor potrai avere;
     Ma sol de un figlio del re Manodante
     Te prego che me vogli compiacere;
     O mename con seco, o quel mi lassa,
     Ché senza lui serìa de vita cassa.

22 Quel giovanetto m’ha ferito il core,
     Ed è tutto il mio bene e ’l mio disio,
     Sì che io te prego per lo tuo valore
     Che hai tanto al mondo, e per lo vero Dio,
     Se a dama alcuna mai portasti amore,
     Non trar di quel giardin l’amante mio.
     Mena con teco gli altri, quanti sono,
     Ché a te tutti li lascio in abandono. -

23 Rispose il conte ad essa: - Io te prometto,
     Se mi doni la chiave in mia balìa,
     Qua teco restarà quel giovanetto,
     Poi che averlo il tuo cor tanto desia;
     Ma non te vo’ lasciar, ché aggio sospetto
     De ritornare a quella mala via
     Ove io son stato; e però, se ’l te piace,
     Dammi la chiave, e lasciarotti in pace. -

24 Avea Morgana aperto il vestimento
     Dal destro lato e dal sinistro ancora,
     Onde la chiave, che è tutta d’argento,
     Trasse di sotto a quel senza dimora,
     E disse: - Cavallier de alto ardimento,
     Vanne alla porta e sì aconcio lavora,
     Che non se rompa quella serratura,
     Ché caderesti nella tomba oscura,

25 E teco insieme tutti e cavallieri,
     Sì che seresti in eterno perduto,
     Ché trarti quindi non serìa mestieri,
     Né l’arte mia varrebbe, on altro aiuto. -
     Per questo intrato è il conte in gran pensieri,
     Da poi che per ragione avea veduto,
     Che mal se trova alcun sotto la luna
     Che adopri ben la chiave di Fortuna.

26 Tenendo al zuffo tuttavia Morgana,
     Verso al giardino al fin se fu invïato,
     E traversando la campagna piana
     A quella porta fu presto arivato.
     Con poco impaccio la serraglia strana
     Aperse, come piacque a Dio beato,
     Perché qualunche ha seco la Ventura,
     Volta la chiave a ponto per misura.

27 Già Brandimarte e il sir de Montealbano
     E tutti gli altri che fôr presi al ponte,
     Avean veduto Orlando di lontano,
     Che tenea presa quella fata in fronte;
     Onde ogni saracino e cristïano
     Ringraziava il suo dio con le man gionte.
     Or ciascadun de uscir ben si conforta,
     Sentendo già la chiave nella porta.

28 Da poi che aperto fu il ricco portello,
     Tutta la gente uscitte al verde prato.
     Il conte adimandò del damigello
     Quale era tanto da Morgana amato,
     E vide il giovanetto bianco e bello,
     Nel viso colorito e delicato,
     Ne gli atti e nel parlar dolce e iocondo,
     E fo il suo nome Zilïante il biondo.

29 Costui rimase dentro lagrimando,
     Veggendo tutti gli altri indi partire,
     E ben che ne dolesse al conte Orlando,
     Pur sua promessa volse mantenire;
     Ma ancor tempo sarà che sospirando
     Se converrà di tal cosa pentire,
     E forza li serà tornare ancora,
     Per trar del loco il giovanetto fuora.

30 Ivi il lasciarno, e gli altri tutti quanti
     Uscirno del giardino alla ventura;
     Facea quel bel garzone estremi pianti,
     E biastemava sua disaventura.
     Ora alla porta che io dissi davanti,
     Che ritornava nella tomba scura,
     Intrarno tutti, e ’l conte andava prima;
     Montâr la scala e presto fôrno in cima.

31 E dentro a l’altra porta eran passati,
     Ove sta ne la piazza il gran tesoro:
     Quel re che siede e gli altri fabricati
     De robini e diamanti e perle ed oro.
     Tutti color che furno impregionati
     Miravan con stupore il gran lavoro;
     Ma non ardisce alcun porve la mano
     Temendo incanto o qualche caso istrano.

32 Ranaldo, che non sa che sia dotanza,
     Prese una sedia, che è tutta d’ôr fino,
     Dicendo: - Questa io vo’ portare in Franza,
     Ché io non feci giamai più bel bottino.
     A’ miei soldati io donarò prestanza,
     Poi non affido amico, né vicino,
     O prete, o mercatante, o messaggero;
     Qualunche io trova, io manderò legiero. -

33 Il conte li dicea che era viltate
     A girne carco a guisa de somiero.
     Disse Ranaldo: - E’ mi ricordo un frate
     Che predicava, ed era suo mestiero
     Contar della astinenza la bontate,
     Mostrandola a parole de legiero;
     Ma egli era sì panzuto e tanto grasso,
     Che a gran fatica potea trare il passo.

34 E tu fai nel presente più né meno,
     E drittamente sei quel fratacchione,
     Che lodava il degiuno a corpo pieno,
     E sol ne l’oche avea devozïone.
     Carlo ti donò sempre senza freno,
     E datti il Papa gran provisïone,
     Ed hai tante castelle e ville tante,
     E sei conte di Brava e sir de Anglante.

35 Io tengo, poverello! un monte apena,
     Ché altro al mondo non ho che Montealbano,
     Onde ben spesso non trovo che cena,
     S’io non descendo a guadagnarlo al piano;
     Quando ventura o qual cosa mi mena,
     Ed io me aiuto con ciascuna mano,
     Perch’io mi stimo che ’l non sia vergogna
     Pigliar la robba, quando la bisogna. -

36 Così parlando gionsero al portone,
     Che era la uscita fuor di quella piaccia;
     Quivi un gran vento dette al fio de Amone
     Dritto nel petto e per mezo la faccia,
     E dietro il pinse a gran confusïone,
     Longi alla porta più de vinte braccia.
     Quel vento agli altri non tocca nïente,
     E sol Ranaldo è quel che il fiato sente.

37 Lui salta in piede e pur torna a la porta,
     Ma come gionto fu sopra alla soglia,
     Di novo il vento adietro lo riporta,
     Soffiandolo da sé come una foglia.
     Ciascun de gli altri assai si disconforta,
     E sopra a tutti Orlando avea gran doglia,
     Però che de Ranaldo temea forte
     Che ivi non resti, o riceva la morte.

38 Il fio de Amone senza altro spavento
     Pone giù l’oro e ritorna alla uscita;
     Passa per mezo, e più non soffia il vento,
     E via poteva andare alla polita.
     Ma lui portar quello oro avea talento,
     Per dar le paghe a sua brigata ardita;
     Benché più volte sia provato in vano,
     Pur vôl portarlo in tutto a Montealbano.

39 Ma poi che indarno assai fu riprovato,
     Né carco puote uscir di quella tomba,
     Trasse la sedia contra di quel fiato
     Che dalla porta a gran furia rimbomba.
     La sedia d’ôr, di cui sopra ho parlato,
     Sembrava un sasso uscito de una fromba,
     Benché è seicento libbre, o poco manco:
     Cotanta forza avea quel baron franco.

40 Trasse la sedia, come io ve ragiono,
     Credendola gettar del porton fore,
     Ma il vento furïoso in abandono
     La spense adietro con molto rumore.
     Gli altri a Ranaldo tutti intorno sono,
     E ciascadun lo prega per suo amore
     Ch’egli esca for con essi di pregione,
     Lasciando l’oro e quella fatasone.

41 Sì che alla fine abandonò la impresa,
     E con questi altri de la porta usciva.
     Era la strata un gran miglio distesa,
     Sin che alla scala del petron se ariva,
     Ed è trea miglia la malvaggia ascesa.
     Sempre montando per la pietra viva,
     E con gran pena, uscirno al cel sereno,
     In mezo a un prato de cipressi pieno.

42 Ciascun cognobbe incontinente il prato
     E gli cipressi e ’l ponte e la riviera
     Ove stava Aridano il disperato;
     Ma quivi nel presente più non era,
     Anzi è nel fondo, de un colpo tagliato
     Da cima al capo insino alla ventrera,
     E più non tornarà suso in eterno:
     Là giuso è il corpo, e l’anima allo inferno.

43 Quivi eran l’armi de ciascun barone
     Ne’ verdi rami d’intorno distese.
     Roverse le avea poste quel fellone,
     Per far la lor vergogna più palese;
     Ranaldo incontinente e poi Dudone
     E insieme ogniom de gli altri le sue prese,
     E tutti quanti se furno guarniti
     De’ loro arnesi e cavallieri arditi.

44 Tutti quei gran baroni e re pagani,
     Che fôrno presi all’incantato ponte,
     Ne andarno chi vicini e chi lontani,
     Ma prima molto ringraziarno il conte;
     E sol restarno quivi e Cristïani,
     Ove Dudone con parole pronte
     Espose che Agramante e sua possanza
     Eran guarniti per passare in Franza.

45 E come lui, mandato da Carlone,
     Avea cercate diverse contrate
     Per ritrovar lor duo franche persone,
     Che eran il fior de corte e la bontate,
     E per condurle, come era ragione,
     Alla diffesa de Cristianitate.
     Ciò de Ranaldo diceva e de Orlando,
     Ed a lor proprio lo venìa contando.

46 Ranaldo incontinente se dispose
     Senza altra indugia in Francia ritornare.
     Il conte a quel parlar nulla rispose,
     Stando sospeso e tacito a pensare,
     Ché il core ardente e le voglie amorose
     Nol lasciavan se stesso governare;
     L’amor, l’onore, il debito e ’l diletto
     Facean battaglia dentro dal suo petto.

47 Ben lo stringeva il debito e l’onore
     De ritrovarse alla reale impresa;
     E tanto più ch’egli era senatore
     E campïon della Romana Chiesa.
     Ma quel che vince ogni omo, io dico Amore,
     Gli avea di tal furor l’anima accesa,
     Che stimava ogni cosa una vil fronda,
     Fuor che vedere Angelica la bionda.

48 Né dir sapria che scusa ritrovasse,
     Ma da’ compagni si fu dispartito;
     E non stimar che Brandimarte il lasse,
     Tanto l’amava quel barone ardito.
     Or di lor duo convien che oltra mi passe,
     Perch’io vo’ ricontare a qual partito
     Ranaldo ritornasse a Montealbano:
     Lunga è la istoria, ed il camin lontano.

49 E prima cercarà molte contrate,
     Strane aventure e diversi paesi;
     Ma il tutto contaremo in brevitate
     E con tal modo che seremo intesi;
     E mostraremo il pregio e la bontate
     De Iroldo e de Prasildo, e duo cortesi,
     La possa de Dudone, il baron saldo,
     Che tutti son compagni di Ranaldo.

50 Erano a piedi quei quattro baroni,
     De piastre e maglia tutti quanti armati,
     (Perduti aveano al ponte e lor ronzoni,
     Quando nel lago fôrno trabuccati),
     Onde ridendo e con dolci sermoni
     Tra lor scherzando se fôrno invïati,
     E la fatica de la lunga via
     Minor li pare essendo in compagnia.

51 Ed era già passato il quinto giorno
     Poi che lasciarno quel loco incantato,
     Quando da lunge odîr suonare un corno
     Sopra ad un castello alto e ben murato.
     Nel monte era il castello, e poi d’intorno
     Avea gran piano, e tutto era de un prato;
     Intorno al prato un bel fiume circonda:
     Mai non se vidde cosa più ioconda.

52 L’acqua era chiara a meraviglia e bella,
     Ma non si può vargar, tanto è corrente.
     A l’altra ripa stava una donzella
     Vestita a bianco e con faccia ridente;
     Sopra a la poppa d’una navicella
     Diceva: - O cavallieri, o bella gente,
     Se vi piace passare, entrati in barca,
     Però che altrove il fiume non si varca. -

53 E cavallier, che avean molto desire
     Di passare oltra e prender suo vïaggio,
     La ringraziarno di tal proferire,
     E travargarno il fiume a quel passaggio.
     Disse la dama nel lor dipartire:
     - Da l’altro lato si paga il pedaggio,
     Né mai de quindi uscir se può, se prima
     A quella rocca non saliti in cima.

54 Perché questa acqua che qua giù discende
     Vien da due fonte da quel poggio altano,
     E da l’un lato a l’altro se distende,
     Tanto che cinge intorno questo piano;
     Sì che uscir non si può chi non ascende
     A far prima ragion col castellano,
     Ove bisogna avere ardita fronte:
     Eccovi lui, che fuora esce del ponte. -

55 Così dicendo li mostrava a dito
     Una gran gente che del ponte usciva.
     Alcun de’ nostri non fo sbigotito;
     La gente armata sopra al piano ariva.
     Ranaldo è avanti, il cavalliero ardito,
     E ben ciascun de gli altri lo seguiva;
     Con le spade impugnate e’ scudi in braccio
     Ben se apprestarno uscir de tal impaccio.

56 Era tra quella gente un bel vecchione,
     Che a tutti gli altri ne venìa davante,
     Senza arme in dosso, sopra a un gran ronzone.
     Costui con voce queta e bon sembiante
     Disse: - Sappiati voi, gentil persone,
     Che questa è terra del re Manodante,
     Ove ora entrasti, e non potresti uscire
     Se non volesti un giorno a lui servire.

57 E quel servigio è di cotal manera
     Quale io vi contarò, se me ascoltati.
     Ove discende al mar questa rivera
     Son duo castelli a un ponte edificati;
     Ivi dimora una persona fiera,
     Che molti cavallieri ha dissipati:
     Balisardo se appella quel gigante,
     Malvaggio, incantatore e negromante.

58 Re Manodante lo voria pregione,
     Perché al suo regno ha fatto assai dannaggio,
     Ed ha ordinato che ciascun barone
     Che varca al passo di quel bel rivaggio,
     Promette stare un giorno al parangone,
     Sin che sia preso o prenda quel malvaggio;
     Onde anco a voi là giuso convien gire,
     O in questo prato di fame morire. -

59 Disse Ranaldo: - Là vogliamo andare,
     Né andiamo cercando altro che battaglia;
     Ed io questo gigante vo’ pigliare,
     E manco il stimo che un fascio de paglia;
     E incanti incanta pur, se sa incantare,
     Ché non trovarà verso che li vaglia.
     Or facce pur guidar via senza tardo,
     Sì che io me azuffi a questo Balisardo. -

60 Il castellano senza altra risposta
     Chiamò la dama de bianco vestita,
     Ed a lei disse: - Fa che senza sosta
     Tu porti al ponte questa gente ardita. -
     Ella ben presto alla ripa s’accosta,
     E sorridendo quei baroni invita
     Ad entrar ne la nave picciolina:
     Lor saltâr dentro, e lei gioso camina.

61 Giù per quella acqua come una saetta
     Fo giù la barca dal fiume portata,
     Di qua di là girando la isoletta;
     Pur se piegarno al mar l’ultima fiata,
     Là dove del gran ponte ebber vedetta,
     Che avea tra due castelle alta murata,
     E sopra a l’arco di quella gran foce
     Sta Balisardo, saracin feroce.

62 Proprio un fuste de torre a mezo il ponte
     Sembrava quel pagan di cui ragiono,
     Barbuto in faccia e crudo nella fronte;
     Il crido de sua voce parea un trono.
     Convien che altrove il tutto ve raconte,
     Ché al presente al fin del canto sono;
     Ne l’altro contarò tal meraviglia,
     Che altra nel mondo a quella non somiglia.