[St. 35-38] |
libro ii. canto ix |
159 |
Io tengo, poverello! un monte apena,1
Chè altro al mondo non ho che Montealbano,2
Onde ben spesso non trovo che cena,3
S’io non descendo a guadagnarlo al piano;4
Quando ventura [o] qual cosa mi mena,
Et io me aiuto con ciascuna mano,
Perch’io mi stimo che ’l non sia vergogna
Pigliar la robba, quando la bisogna.
Così parlando gionsero al portone,
Che era la uscita fuor di quella piazza;
Quivi un gran vento dètte al fio de Amone
Dritto nel petto e per mezo la faccia,
E dietro il pinse a gran confusïone,5
Longi alla porta più de vinte braccia.
Quel vento agli altri non tocca nïente,
E sol Ranaldo è quel che il fiato sente.
Lui salta in piede e pur torna a la porta,
Ma come gionto fu sopra alla soglia,
Di novo il vento adietro lo riporta,6
Soffiandolo da sè come una foglia.
Ciascun de gli altri assai si disconforta,
E sopra a tutti Orlando avea gran doglia,
Però che de Ranaldo temea forte
Che ivi non resti, o riceva la morte.
Il fio de Amone senza altro spavento
Pone giù l’oro e ritorna alla uscita;
Passa per mezo, e più non soffia il vento,
E via poteva andare alla polita.
Ma lui portar quello oro avea talento,
Per dar le paghe a sua brigata ardita;
Benchè più volte sia provato in vano,
Pur vôl portarlo in tutto a Montealbano.
- ↑ P. un monte poverello.
- ↑ P. omm. Chè.
- ↑ P. Ove... trovo da.
- ↑ P. procacciarme.
- ↑ T. e Ml. dietro.
- ↑ Ml. e Mr. adetro (adentro?)