Orlandino (Folengo)/Capitolo primo

Capitolo primo

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Dedica Capitolo secondo

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CAPITOLO PRIMO


1
Magnanimo signor, se ’n te le stelle
spiran cotante grazie largamente,
piovan piú tosto in me calde frittelle,
ché seco i’ possa ragionar col dente:
dammi bere e mangiar, se vuoi piú belle
le rime mie; ch’io d’Elicon niente
mi curo, in fé di Dio; ché ’l bere d’acque
(bea chi ber ne vuol!) sempre mi spiacque.
2
Ben trovo ch’un fiascone di buon grego
versi cantar mi fa di vinti piedi;
tanti dottori disputando allego,
che a me piú che a Tommaso e Scoto credi;
né dirti so cotanti «probo» «nego»
purché qualche argomento mi concedi;
non parloti cristero né supposta,
ma qualche buon cappon od oca rosta.
3
Ti accerto ben ch’io canto il miserere,
ad vitulos son anco giunto mai;
Boezio da trentanni sul tagliere
mi dá sempre ristor, sí come sai;
però, se vuoi ch’io canti, o bel missere,
dá del fiato a la piva o poco o assai,
fiato di ciancie no; ma (intendi bene!)
mangian e bevon anco le Camene.

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4
O tempi grassi, o giorni fortunati,
quando e’ poeti si trovorno buoni
mercé Gian Bocca d’or de’ Mecenati,
che ingrassar fenno giá molti Maroni!
Or non cosí piú, no; ch’oggi piú grati
son gli ubbriachi, sguattari e buffoni,
de quelli che immortal puon fare altrui;
perché «est» apprezzan piú d’«eram» e «fui».
5
Ma tu, lettor, chi sei? fermati al varco,
anti che ’l mio battei entrar comince:
tratti in disparte, se d’ invidia carco
guardi cagnesco ed hai vista di lince;
tal mercanzia, t’avviso, non imbarco,
perché talor la collera mi vince
e la senapa montami sí al naso
ch’io non sto a dir: — Va’ dietro, Satanaso; —
6
anzi col pugno ti rispondo a l’occhio,
di ciò che parli in questa e quella orecchia.
Poltron che sei, non vedi ch’al ginocchio
rotta ho la calza e la gonnella vecchia?
Non odi tu mia voce d’un ranocchio
quando montar la rana si apparecchia?
Però, s’io canto male, sia scusato,
ché ’l lupo si pentí cantar famato.
7
Ma ’l spirito gentile, qual si sia,
che mosse amore dirmi l’error mio,
ringrazio molto; ch’altra cortesia
non trovo a questa egual, in fé di Dio.
Pur saper déi ch’io son di Lombardia
e che ’n mangiar le rape ho del restio;
non però, se non nacqui tòsco, i’ piango;
ché ancora il ciato gode nel suo fango.

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8
Però Dante, Francesco e Gian Boccaccio
portato han seco tanto, che sua prole
uscir non sa di suo proprio linguaccio;
ché quando alcuno d’elli cantar vole,
non odi se non «buio», «arreca» e «caccio»,
né mai dal suo Burchiello si distole;
e pur lor pare che ’l tempo si perda
da noi, se nostre rime fusser merda.
9
Se merda son le nostre, a dirlo netto,
né anche le sue mi sanno succo d’ape;
date perdono al mio parlar scorretto,
ché in chiaro lume nebbia mai non cape;
e questo voglio ch’a color sia detto,
che chiaman «lombarduzzo mangiarape»:
serbo l’onor de l’inclite persone;
ad altri grido «tosco chiacchiarone».
10
Né alcun di quelli tali m’addimande
di qual autore questo libro i’ tolsi;
rispondo lor, ch’un gran sacco di giande
e duo di fabe in quelle bande accolsi,
ove trovai di libri copia grande,
e parte d’essi aver con meco volsi,
acciò le giande sian de’ pari suoi;
ché assai manco son gli uomini che i buoi.
11
Ma se cortesamente alcun sincero
me ’l chiede, come sempre deve farsi,
ecco la causa, ecco ’l volume intiero
gli arreco, acciò ben possa saziarsi
e chiaramente intenda di leggiero
quai libri falsi e quai sian veri sparsi;
ma non gli faccia mia lunghezza nausa,
ché lungo dir convien in lunga causa.

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12
Signori miei, son stato in Val Camonica
per consultar le streghe di quel loco,
se mi saprebbon di Turpin la Cronica
mostrar per forza d’ incantato foco;
una vecchiarda in volto malenconica
rispose allor con un vocione roco:
— Gnaffe che sí, tu la vedrai di botto;
entra qui tosto meco, e non far motto. —
13
I' non me ’l fei ridir, ma su un montone
ratto mi vidi al ciel con gran diletto;
poi, volto il freno verso l’Aquilone,
discese in Gozia dentro a quel mar stretto
ed ivi di sua mano un gran petrone
alzando, aperse un buco sotto ’l tetto;
si trasse dentro ed io seguilla appresso,
per maraviglia fuora di me stesso.
14
Cento cinquanta millia e piú volumi
(giá non vi mento!) vidi in quella tomba,
che goti anticamente, coi costumi
de’ porci e col rumor ch’in ciel ribomba,
trasser per tanti monti, valli e fiumi
d’Italia fuor, la qual par che soccomba
a simile canaglia sempre mai:
la causa ben direi, ma temo guai.
15
Di Livio qui le Deche sono tutte,
e quelle di Sallustio assai piú bone;
qui di Turpin fur anco ricondutte
quaranta Deche in gallico sermone;
io tre di quelle provo esser tradutte
in lingua nostra per quattro persone;
solo il principio de la prima i’ tolsi,
né ’l pargoletto Orlando passar volsi.

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16
Sol d’Orlandin io canto, e nondimeno,
quando Turpino divertisce altrove,
de l’ordinario suo non m’alieno;
ché donde in molti luoghi si rimove,
o quattro o cinque stanze v’incateno,
acciocché ’l libro mio non si riprove;
e forse fia col tempo chi su questo
dirá diffusamente tutto ’l resto.
17
Di quanti scartafacci e scrittarie
oggidí cantar odo in le botteghe,
credete a me, son tutte cagarie,
piú false assai de le menzogne greghe;
fatene, bei signori, forbarie,
ch’ognun il naso no, ma ’l cui si freghe:
sol tre n’abbiamo vere in stil toscano;
Boiardo le trascrisse di sua mano.
18
Come l’ebbe non so, sassel Morgana;
ché con le strige anch’egli ebbe amistade;
di che mi penso ch’entro quella tana
fusse portato a l’ultime contrade,
onde togliesse quella piú soprana
parte che volse a gran celeritade;
ma non finí tradurle in nostra lingua,
ché morte a ogni opra pia truncar s’impingua.
19
Però lasciò imperfetta la seconda,
la qual finisce Ludovico appieno;
né qui Francesco Cieco piú s’asconda
che gli rubò la sesta, e nondimeno
vi giugne assai per farla piú gioconda,
onde gli vien da noi creduto meno:
l’ultima diede con sua propria mano
al spirito gentil Poliziano.

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20
Polizian fu quello ch’altamente
cantò del gran gigante dal bataio,
ed a Luigi Pulzi suo cliente
l’onor die’ senza scritto di notaio;
pur dopo si pentí; ma chi si pente
po ’l fatto, pesta l’acqua nel mortaio;
sia pur o non sia pur cotesto vero,
so ben, chi crede troppo ha del leggiero.
21
Queste tre, dunque, deche sin qua trovo
esser dal fonte di Turpin cavate;
ma Trebisunda, Ancroia, Spagna e Bovo
con l’altro resto al foco sian donate;
apocrife son tutte, e le riprovo
come nemighe d’ogni veritate;
Boiardo, l’Ariosto, Pulci e ’l Cieco
autenticati sono, ed io con seco.
22
Autentico son io, perché la prima
deca del gran dottore v’antepono;
e benché era misterio d’altra lima,
pur basta assai che ’l vero qui ragiono.
E cominciando de la storia in cima,
la corte di re Carlo pria dispono;
poscia diremo come, quale e quando
e di qual padre nacque il conte Orlando:
23
Orlando che non ebbe in terra eguale
né d’arme né d’onor né di fortezza,
Orlando de gli erranti principale,
ch’usava in l’altrui bene sua destrezza,
Orlando, sotto ’l cui brazzo fatale
andò la fede nostra in somma altezza,
Orlando saggio, Orlando sí gentile,
che ’n sue lode vorrei d’Omero il stile.

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24
Prima vi narro duodeci baroni,
che «paladini» fannosi chiamare;
di Carlo e de la Chiesa campioni,
buoni per terra ed ottimi per mare;
amor, fede, ragion, arme, ronzoni
erano lor diletto e gioie care;
guerre, duelli, giostre, torniamenti
son proprio pasto di sí fatte genti.
25
Milon d’Angrante era di lor primiero,
poscia duo soi fratelli, Amon, Ottone;
Danese Ugieri, e ’l borgognon Rainiero,
poi di Baviera Namo, e Salomone;
Rampallo che fu padre di Ruggiero;
quel di Bordella, il gran signor Ivone;
Morando, e d’Agrismonte Bovo, e quello
Ginamo di Maganza iniquo e fello.
26
Questi dopo Milon pari d’onore
furon in corte, e ne’ stipendi soi;
non però tutti eguali eran di cuore,
perché sovente tra gli franchi eroi
scopresi qualche ingrato e traditore,
come leggendo intenderete poi;
di quelli dico dal falcone bianco,
che ’n frode mai non ebbero il cor stanco.
27
Saper vorrei, o astrologhi e geomètri
che ’l ciel non che la terra misurate,
di qual violenta stella cosí tetri,
cosí maligni influssi a le contrate
piovono di Maganza, o pur quai metri
di negromanti e d’importune fate
moveno sí cotesta gente ria,
che un sol non è che traditor non sia.

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28
Non sia chi ardisca dirmi Sansonetto
di Gano esser figliuolo od altro tale,
perché non venne mai d’un maladetto
falsario ingannator, uomo leale;
il volto, gli atti ed ogni bell’ effetto,
germano il fan d’Orlando naturale;
Turpin ciò scrive, e chi mi nega questo,
aggia il malanno e di sua schiatta il resto.
29
Son certi pedantuzzi di montagna,
che, poi che han letto Ancroia ed Altobello
e dicon tutta in mente aver la Spagna
e san chi ancise Almonte o Chiariello,
credono l’opre d’altri sian d’aragna,
le sue non giá, ma d’un saldo martello;
e cosí avvien che l’asino di lira
crede sonar, quando col cul sospira.
30
Ma poi che furon d’elli parte estinti,
parte stracchi rimaser per tropp’anni,
Carlo si elesse duodeci de’ vinti
gioveni, forti ai bellicosi affanni,
e, come era costume, gli ebbe cinti
di brando, sproni e militari panni,
che oprasser meglio per la fede il brando
che l’«utrum» d’esti frati e il «contra» e il «quando».
31
Vorrei pur io veder che i nostri tanti
teologi e soldati cosí vari,
appresentati del Gran turco innanti,
vellent antiquos patres imitari,
li quali, s’oggi in cielo sono santi,
non l’han giá racquistato con dinari,
ma chi col predicare e chi col brando,
sí come fece Paolo e ’l conte Orlando.

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32
Orlando fu di quelli capo e guida,
poscia l’invitto suo cugin Rinaldo,
segue Olivier ove ogni ben s’annida,
Astolfo il bello avventuroso e baldo,
Gano, stirpe di Giuda ed omicida,
falso dei falsi, perfido, rubaldo,
figliuol non d’uomo né da Dio creato,
ma il gran diavol ebbelo cacato.
33
Succede a questo lupo la colomba,
colomba non di forze, ma di vita:
dico Dudon, che con sonora tromba
ciascun per santo e forte in terra addita.
Non manco d’esso il gran nome ribomba
di Malagigi, pallido eremita;
pur furon differenti i santi loro:
angeli questi, diavoli coloro.
34
Poi Vivian suo frate, e Ricciardetto
che volse farsi, e non poté, gigante;
segue Gualtier che fu di piú intelletto
che di fortezza, onde spesso le piante
mostrò cogli altri al ciel; poi Sansonetto,
Riccardo poi, d’ingegno assai prestante;
Angelin manca dirvi, ed Angelieri,
Avin, Avoglio, Ottone e Bellingeri.
35
Fra i duodici non vengon questi sei,
ma «sottopaladini» son chiamati,
perché nel Gran consiglio a quattro, a sei
entran, se alcun de’ primi son mancati;
ebber ne l’armi giá molti trofei,
dico col cul in terra scavalcati;
e fu tra loro tanta cortesia,
che sempre traboccôr di compagnia.

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36
Orlando, sol per sua virtú, di Roma
era confaloniero e senatore,
e fu sopra di sé la nobil soma
ch’anco portò Milon suo genitore;
egli tenea la terra umile e doma
sol de’ suoi fatti egregi al gran rumore.
Namo, re Salomone, Gano, Ugieri
furon di Carlo i quattro consiglieri.
37
Il gentil Olivier sopra un convito
sempre fu siniscalco ne la corte:
d’ordir un ballo Astolfo era perito,
e l'esservi buffon toccò per sorte.
Turpin fu ’l cappellano, ed anco ardito
a molti saracin diede la morte;
ma piú del pastorale usò la lanza;
l’una magrisce, e l’altro fa la panza.
38
Rinaldo, d’ogni bon compagno padre,
benché piú de le volte andasse in bando,
era luogotenente ne le squadre
del suo caro cugino conte Orlando;
commercio ebbe talor de genti ladre;
capo di parte per menar il brando
nel sangue di Maganza, e Chiaramonte
sua prole vendicare di tant’onte.
39
Tal ordine di quella corte altera
pose re Carlo; e qui Turpin lo scrive,
acciò ch’abbi, o lettor, la storia vera
e che da sogni e favole ti schive.
Fatemi dunque, o genti, intorno schiera
ed ascoltate queste rime vive,
vive cosí, che forse un gardellino
vi parerò di quelli del molino.

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40
Ne l’inclita cittá, ch’è capo e fonte
de l’alma Franza, dicovi Parigi,
col scettro in mano e la diadema in fronte
regnava Carlo Mano e san Dionigi:
questo di Europa regge piano e monte;
quello tira nel ciel per suoi vestigi
chiunque in l’alta Trinitade crede,
alzando a son di spada la sua fede.
41
Eran di Iano chiuse le gran porte,
e ’l bellico furor posto in catene;
la pace e libertá con bella sorte
ivan d’invidia sciolte e senza pene,
le quali de’ tiranni ne le corte
riposto avean lor speme ed ogni bene;
ma dove ambizione e invidia regna,
difficil è che mai pace si tegna.
42
Quanto mai cinge ’l mar e vede il sole,
tre capi coronati avean diviso:
quinci Mambrino, maladetta prole,
tien tutta l’Asia e brama il paradiso
(ché quanto piú s’acquista piú si vuole
e chi non sa rubare vien deriso);
quindi Agolante l’Africa si gode,
e pur non esser Dio del ciel si rode.
43
Ah maladetta rabbia d’avarizia,
ch’ogn’ordine sovverte di natura,
che per servar tra’ popoli amicizia
interpose de’ regni la sgiuntura,
de’ mari, fiumi e monti; e la malizia
tosto ruppe de’ termini le mura!
però l’Italia non piú Italia appello,
ma d’ogni strana gente un bel bordello.

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44
Sol de l’Europa Carlo si contenta,
e lei difende da que’ crudi cani;
ché, se di guerra alcun di lor il tenta,
mostrali tosto c’ha l’unghiute mani;
tanto li batte, tanto li tormenta,
che i fa morir ne’ fossi e ne’ pantani;
e pur sovente provano lor sorte,
tornando in Franza ad incontrar la morte.
45
Stavasi dunque Carlo in festa e ’n gioco,
novellamente imperator creato;
papa Adriano primo in tanto loco
l’avea meritamente sollevato;
donde per tutta Europa si fa foco,
ed odesi bombarde d’ogni lato;
ma Franza piú de li altri regni gode,
né altro che trombe, corni e canti s’ode.
46
Anco di novo l’alta imperatrice
dal regno ispano venne, Galerana,
piú de le belle bella e piú felice;
era costei d’ogni virtú fontana
fra cento dame vergini pudice;
parea fra cento stelle una Diana.
Pensate che trionfo Carlo face,
che ’l ciel cotante grazie gli compiace!
47
Tutto Parigi sona d’istrumenti
per danze, giochi, salti e per coree;
diverse fogge fanno ed ornamenti
giovani arditi e vaghe semidee;
onde gli ardori crescono e i lamenti
de li affocati amanti e amate dèe;
ma piú de l’altre Berta, ch’è sorella
di Carlo, per Milone si flagella.

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48
Flagellasi d’ogni ora nel tenace
amor, che ha preso al capitan Milone;
non mai ritrova posa, non mai pace,
non mai gli scopre tanta passione;
troppo l’aspetto altier, troppo le piace
l’onor, le forze, gli atti del barone;
egli nol sa, ma sciolto va sicuro;
però da lei fu detto alpestro e duro.
49
Piú de le care cose cara tiene
questa donna gentil e bella, Carlo;
altra suora non ha, per che gran bene
le vuole e falle onor quanto può farlo;
pur, s’egli mai sapesse le catene
ch’avvinta l’hanno e l’amoroso tarlo,
penso contrastarebbe a tal amore;
ché piú alto maritarla tiene in core.
50
Dunque una giostra nova fu contento
per lei, ch’assai pregollo, di bandire:
a ciò la move l’aspro suo tormento
e ’l sfrenato desio c’ha di nodrire
l’occhio de folli sguardi; ma il talento
d’un cibo tal non sa se non mentire;
ché quanto mangi piú, piú senti fame,
né dramma po’ scemar di quelle brame.
51
Di Franza tutta, Spagna, d’Ingleterra,
d’Italia bella, Grecia e d’Alemagna
vengon giá tanti cavallier di guerra,
che l’Alpe ne son carche e la campagna.
La grande piaccia d’un steccato serra
Milon d’Angrante, e nulla vi sparagna,
perch’era il mastro ed orditor del tutto,
in fin ch’a l'esser suo l’ebbe construtto.

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52
Stavasi Berta sola e pensierosa
guatando su la piaccia dal balcone;
e mentre s’una man la guancia posa
ed al peggior de’ suoi pensier si spone,
ecco in un manto d’incarnata rosa
vide l’obbietto del suo cor, Milone,
che vien luntano sopra un bel destriero;
fallo boffare e tien nullo sentiero.
53
Niun sentiero quel balzano tiene:
balzano d’un sol piede estremo e manco;
stellato in fronte, e con sottili vene;
ha largo petto e rotondetto il fianco;
alza le piante e gioca de le schiene;
qual nevo, qual carbon, qual corvo è bianco:
bello è il cavallo e bono; ma chi ’l regge
piú bello e bono il fa, mentre ’l corregge.
54
Movel a un tempo al corso, a un tempo il frena;
quello, che intende, or salta or corre or gira,
boffa le nari e foco ardente mena,
tutto in un groppo e capo e coda tira.
Ciascun s’allarga, ché un destrier tien piena
la via capace, e scampavi chi ’l mira:
Berta ciò vede; onde nel cor l’abbraccia,
ché, come neve al sol, convien si sfaccia.
55
Amor, ch’è spirto inquieto e mai non dorme,
qui l’attendea giá lungamente al varco;
vede natura in lor esser conforme;
onde non gran tirar fu d’uopo d’arco;
ché, quando cessa il mondo esser deforme
pel freddo e vien d’erbette e fiori carco,
quando ’l sol entra ne l’aureo Montone,
nacque la dama, nacque il gran barone.

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56
Leva dunque la fronte a l’improvviso
ed accocciò co’ gli occhi a gli occhi d’ella:
scendeli un colpo d’un modesto riso,
che quasi traboccollo fuor di sella;
concorre il sangue, e spento lascia ’l viso;
e ’n mezzo al petto il freddo cor saltella;
bassa la vista, e poi mirar vols’anco:
allor ne venne, al doppio colpo, manco.
57
Pallido e smorto, volta il freno altrove,
ché un strano caso e novo l’addolora;
i’ dico novo, quando che mai prove
non fatto avea d’amore fin ad ora:
vorrebbe irsene a casa, e non sa dove
prenda ’l sentiero, tanto è di sé fora;
pur tanto del staffier segue la traccia,
che trova l’uscio e dentro vi si caccia.
58
In quella fretta ch’uomo, pria gagliardo,
da fredda febre vien ratto assalito,
corre a corcarsi, e pargli troppo tardo
ogni presto servir, tant’è invilito;
perde la forza e cangiasi nel sguardo,
cresce la nausa e fugge l’appetito:
cosí è Milon cangiato in un momento;
tuttoché corra, il corso gli par lento.
59
Salta d’arzone in gesto, qual non sòle,
ché ’n mille parti ha volto lo ’ntelletto;
chiavasi solo, e quanto può si dole,
trovando di sospiri colmo il letto;
quivi si cruccia e sfoga tal parole,
che intenerir potria d’azal un petto.
— Amor — dicea, — crudel Amor protervo,
m’hai còlto pur, qual sempliciotto cervo!

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60
Per far una leggiadra tua vendetta
e punir in un dí ben mille offese,
celatamente l’arco e la saetta
tua man spietata in mia ruina prese.
Ah punto infausto! ah stella maladetta,
che contra te mi tolse le difese,
allor ch’io vidi quella faccia infusa
di tal beltade, a me sol di Medusa!
61
Misero me, che indarno esser sperai
di sí onorevol giostra vincitore!
E tu, cieco fanciullo e nudo, m’hai
gettato fuori non del corridore
in terra, ma di gioia in tanti guai,
di bella libertade in tant’errore!
Deh! Dio, se de’ mortali unqua ti cale,
dal cor mi sferri questo ardente strale!
62
Pazzo che sei, Milon! come non vedi
che non sei pare al grado imperiale?
Se di tal vischio non ritraggo i piedi,
che poss’io mai sperar altro che male?
E posto che ’l suo amor ella mi credi,
non l'averò però, ch’io non son tale
cui la fortuna un tanto ben dar voglia;
e pur amor di lei seguir m’invoglia! —
63
Mentre solingo crucciasi Milone,
e mille fiate vole e mille svole
quel che consiglia amor, quel che ragione,
facendo come foglia al vento sòle,
ecco nel mar ispano si ripone
tra le Colonne il giá straccato sole;
sorge la notte da la parte adversa;
ciascun in preda al sonno si roversa.

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64
Ed io dico, ch’Amor è un bardassola
piú che sua madre non fu mai puttana;
chi ’l chiama «dio» si mente per la gola,
ché in Dio non cape furia e mente insana:
Amor è un barbagianni che non vola,
benché abbia l’ali ed usi in ogni tana;
guardatevi da lui, ché ’l ladro antico
lascia la porta ed entra nel postico.
65
Questo ben sa mia diva Caritunga,
quando talor col sguardo torto adocchia
qualch’asinelio da la coda lunga,
che falle porre a canto la conocchia.
Ma lui convien che poscia si compunga
di l’error suo, perché qualche pannocchia
vi studia sempre, e fassi bon platonico,
e chi non ha dinari è malenconico.