Operette morali (Leopardi - Donati)/Dialogo di Tristano e d'un amico
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DIALOGO
di tristano e di un amico
Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano. Sì, al mio solito.
Amico. Malinconico, sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
Tristano. Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
Amico. Infelice sí forse. Ma pure alla fine...
Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso, che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilitá o del danno di tali osservazioni ma, non mai della veritá; anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermitá, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per piú giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale, come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e cosí fanno: anche quando la metá del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole o dèe vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono, e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, piú a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederá tante scempiataggini, non crederá mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo, che insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna, né farebbe sètta, specialmente nel popolo; perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessitá governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca1, alla loro fortuna: prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ed accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi, con qualunque condizione, a qualunque sorte piú iniqua e piú barbara; e quando siano privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, cosí gagliarde e ferme come se fossero le piú vere o le piú fondate del mondo. Io per me, come l’Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, cosí rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma dell’intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so; so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicitá umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltá del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasí come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola cosí rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non piú sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone, e quanto Omero, e i poeti e i filosofi piú antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicitá umana; e chi di loro dice che l’uomo è il piú miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri che uno che sia caro agli dèi muore in giovinezza, ed altri altre cose infinite su questo andare2. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all’altro ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a meravigliarmi: e cosí tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo; finché, studiando piú profondamente questa materia, conobbi che l’infelicitá dell’uomo era uno degli errori inveterati dell’intelletto, e che la falsitá di questa opinione, e la felicitá della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m’acquetai, e confesso ch’io aveva il torto a credere quello ch’io credeva.
Amico. E avete cambiata opinione?
Tristano. Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle veritá scoperte dal secolo decimonono?
Amico. E credete voi tutto quello che crede il secolo?
Tristano. Certamente. Oh che maraviglia?
Amico. Credete dunque alla perfettibilitá indefinita dell'’uomo?
Tristano. Senza dubbio.
Amico. Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?
Tristano. Sí certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimitá, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al piú chiacchierare; ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli piú civili. Ma tra noi giá da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito; e appunto, volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo, senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della societá, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietá loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L’effetto è che, a paragone degli antichi, noi siamo poco piú che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire piú che mai che furono uomini. Parlo cosí degl’individui paragonati agl’individui, come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente piú virili di noi anche ne’ sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.
Amico. Credete ancora, giá s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
Tristano. Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontá d’imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant’anni addietro, e anche piú tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell’etá presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi, perché in generale le cognizioni non sono piú accumulate in alcuni individui, ma divisi fra molti; e che la copia di questi compensa la raritá di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni cosí per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro, non dimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.
Amico. In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
Tristano. Sicuro. Cosí hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i piú barbari; e cosí crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi domandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo, o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
Amico. In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
Tristano. Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali i quali, uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’etá presente. Non è vero?
Amico. Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.
Tristano. Sí certamente, de’ vostri.
Amico. Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti cosí contrari alle opinioni che ora avete?
Tristano. Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, piú riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o di cose individuali del secolo decimonono, intendete bene che non v’è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. «Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse» dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta piú da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa siano per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e dei posteri, i libri specialmente, che ora per lo piú si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, cosí durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il secolo venturo fará un bellissimo frego sopra l’immensa bibliografia del secolo decimonono: ovvero dirá: io ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò piú che leggere, allora metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, cosí ad un tratto, senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltá, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessitá di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocritá è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessitá o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocritá ha tenuto il campo; in questo la nullitá. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è piú possibile di aprirsi una via. E cosí, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscuritá e la nullitá dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni, questo secolo sará il solo che parli, e dica le sue ragioni.
Amico. Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione.
Tristano. O che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, piú o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la societá umana non istá mai ferma, né mai verrá secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la societá per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltá ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che siano fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di lá a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Cosí è accaduto sempre. La ragione è che la natura non va a salti e che, forzando la natura, non si fanno effetti che durino. Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.
Amico. Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici.
Tristano. Poco importa. Oramai né nemici, né amici mi faranno gran male.
Amico. O piú probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltá e dei lumi.
Tristano. Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
Amico. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo libro?
Tristano. Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicitá dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.
Amico. Io non conosco le cagioni di cotesta infelicitá che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
Tristano. Verissimo. E di piú vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicitá, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sinceritá, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei cosí se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirá le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, cosí morto come sono spiritualmente, cosí conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant'anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa, io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per cosí dire, la forza immaginativa, cosí questo mi pare un sogno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d’immortalitá, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere; ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio piú né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia solitudine e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di lá non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima etá, e il pensiero d’esser vissuto invano, mi turbano piú, come solevano. Se ottengo la morte, morrò cosí tranquillo e cosí contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro, netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.
- ↑ [p. 236 modifica]Pag. 211, l. 23: come dice il Petrarca... Parte 2, Canzone 5, Solea dalla fontana di mia vita.
- ↑ [p. 236 modifica]Pag. 212, l. 20: su questo andare... Vedi Stobeo, Serm. 96, p. 527 et seqq. Serm. 119, p. 601 et seqq.