Novelle rusticane/Storia dell'asino di S. Giuseppe
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | La roba | Pane nero | ► |
STORIA DELL’ASINO DI S. GIUSEPPE
L’avevano comperato alla fiera di Buccheri ch’era ancor puledro, e appena vedeva una ciuca, andava a frugarle le poppe; per questo si buscava testate e botte da orbi sul groppone, e avevano un bel gridargli: «Arriccà!». Compare Neli, come lo vide vispo e cocciuto a quel modo, che si leccava il muso alle legnate, mettendoci su una scrollatina d’orecchie, disse: «Questo è il fatto mio». E andò diritto al padrone, tenendo nella tasca la mano colle trentacinque lire.
Il puledro è bello — diceva il padrone — e val più di trentacinque lire. Non ci badate se ha quel pelame bianco e nero come una gazza. Ora vi faccio vedere sua madre, che la teniamo lì nel boschetto perchè il puledro ha sempre la testa alla poppa. Vedrete la bella bestia morella! che mi lavora meglio di una mula e mi ha fatti più figli che non abbia peli addosso. In coscienza mia! non so d’onde sia venuto quel mantello di gazza al puledro. Ma l’ossatura è buona, ve lo dico io! Già gli uomini non valgono pel mostaccio. Guardate che petto! e che pilastri di gambe! Guardate come tiene le orecchie! Un asino che tiene le orecchie ritte a quel modo lo potete mettere sotto il carro o sotto l’aratro come volete, e fargli portare quattro tumoli di farro meglio di un mulo, per la santa giornata che corre oggi! Sentite questa coda, che vi ci potete appendere voi con tutto il vostro parentado!
Compare Neli lo sapeva meglio di lui; ma non era minchione per dir di sì, e stava sulla sua colla mano in tasca, alzando le spalle e arricciando il naso, mentre il padrone gli faceva girare il puledro dinanzi.
— Uhm! — borbottava compare Neli. — Con quel pelame lì che par l’asino di san Giuseppe! Le bestie di quel colore sono tutte vigliacche, e quando passate a cavallo pel paese, la gente vi ride in faccia. Cosa devo regalarvi per l’asino di san Giuseppe?
Il padrone allora gli voltò le spalle infuriato, gridando che se non conoscevano le bestie, o se non avevano denari per comprare, era meglio non venire alla fiera, e non far perdere il tempo ai cristiani, nella santa giornata che era.
Compare Neli lo lasciò a bestemmiare, e se ne andò con suo fratello, il quale lo tirava per la manica del giubbone, e gli diceva che se voleva buttare i denari per quella brutta bestia, l’avrebbe preso a pedate.
Però di sottecchi non perdevano di vista l’asino di san Giuseppe, e il suo padrone che fingeva di sbucciare delle fave verdi, colla fune della cavezza fra le gambe, mentre compare Neli andava girandolando fra le groppe dei muli e dei cavalli, e si fermava a guardare, e contrattava ora questa ed ora quella delle bestie migliori, senza aprire il pugno che teneva in tasca colle trentacinque lire, come se ci avesse avuto da comprare mezza fiera. Ma suo fratello gli diceva all’orecchio, accennandogli l’asino di san Giuseppe:
— Quello è il fatto nostro.
La padrona dell’asino di tanto in tanto correva a vedere cosa s’era fatto, e al trovare suo marito colla cavezza in mano, gli diceva:
— Che non lo manda oggi la Madonna uno che compri il puledro?
E il marito rispondeva ogni volta:
— Ancora niente! C’è stato uno a contrattare, e gli piaceva. Ma è tirato allo spendere, e se n’è andato coi suoi denari. Vedi, quello là, colla berretta bianca, dietro il branco delle pecore. Però sinora non ha comperato nulla, e vuol dire che tornerà.
La donna avrebbe voluto mettersi a sedere su due sassi, là vicino al suo asino, per vedere se si vendeva. Ma il marito le disse: — Vattene! Se vedono che aspetti, non conchiudono il negozio.
Il puledro intanto badava a frugare col muso fra le gambe delle somare che passavano, massime che aveva fame, tanto che il padrone, appena apriva bocca per ragliare, lo faceva tacere a bastonate, perchè non l’avevano voluto.
— È ancora là — diceva compare Neli all’orecchio del fratello, fingendo di tornare a passare per cercare quello dei ceci abbrustoliti. — Se aspettiamo sino all’avemaria, potremo averlo per cinque lire in meno del prezzo che abbiamo offerto.
Il sole di maggio era caldo, sicchè di tratto in tratto, in mezzo al vocìo e al brulichìo della fiera, succedeva per tutto il campo un gran silenzio, come non ci fosse più nessuno; e allora la padrona dell’asino tornava a dire a suo marito:
— Non ti ostinare per cinque lire di più o di meno; che stasera non c’è da far la spesa; e poi sai che cinque lire il puledro se le mangia in un mese, se ci resta sulla pancia.
— Se non te ne vai — rispondeva suo marito — ti assesto una pedata di quelle buone!
Così passavano le ore alla fiera; ma nessuno di coloro che passavano davanti all’asino di san Giuseppe si fermava a guardarlo; e sì che il padrone aveva scelto il posto più umile, accanto alle bestie di poco prezzo, onde non farlo sfigurare col suo pelame di gazza accanto alle belle mule baie ed ai cavalli lucenti! Ci voleva uno come compare Neli per andare a contrattare l’asino di san Giuseppe, che tutta la fiera si metteva a ridere al vederlo. Il puledro, dal tanto aspettare al sole, lasciava ciondolare il capo e le orecchie, e il suo padrone s’era messo a sedere tristamente sui sassi, colle mani penzoloni anch’esso fra le ginocchia e la cavezza nelle mani, guardando di qua e di là le ombre lunghe che cominciavano a fare nel piano, al sole che tramontava, le gambe di tutte quelle bestie che non avevano trovato un compratore. Compare Neli allora e suo fratello, e un altro amico che avevano raccattato per la circostanza, vennero a passare di là, guardando in aria, che il padrone dell’asino torse il capo anche lui per non far vedere di star lì ad aspettarli; e l’amico di compare Neli, disse così, stralunato, come l’idea fosse venuta a lui:
— O guarda l’asino di san Giuseppe! Perchè non comprate questo qui, compare Neli?
— L’ho contrattato stamattina; ma è troppo caro. Poi farei ridere la gente con quell’asino bianco e nero. Vedete che nessuno l’ha voluto fino adesso!
— È vero, ma il colore non fa nulla, per quello che vi serve.
E domandò al padrone:
— Quanto vi dobbiamo regalare per l’asino di san Giuseppe?
La padrona dell’asino di san Giuseppe, vedendo che si ripigliava il negozio, andava riaccostandosi quatta quatta, con le mani giunte sotto la mantellina.
— Non me ne parlate! — cominciò a gridare compare Neli, scappando per il piano.
— Non me ne parlate, chè non ne voglio sentir parlare!
— Se non lo vuole, lasciatelo stare — rispose il padrone. — Se non lo piglia lui, lo piglierà un altro. «Tristo chi non ha più nulla da vendere dopo la fiera!»
— Ed io voglio essere ascoltato, santo diavolone! — strillava l’amico. — Che non posso dire la mia bestialità anch’io!
E correva ad afferrare compare Neli pel giubbone; poi tornava a parlare all’orecchio del padrone dell’asino, il quale voleva tornarsene a casa per forza coll’asinello, e gli buttava le braccia al collo, susurrandogli:
— Sentite! cinque lire più o meno, se non lo vendete oggi, un minchione come mio compare non lo trovate più da comprarvi la vostra bestia che non vale un sigaro.
Ed abbracciava anche la padrona dell’asino, le parlava all’orecchio, per tirarla dalla sua. Ma ella si stringeva nelle spalle, e rispondeva col viso torvo:
— Sono affari del mio uomo. Io non c’entro.
Ma se ve lo dà per meno di quaranta lire è un minchione, in coscienza! Ci costa di più a noi!
— Stamattina era pazzo ad offrire trentacinque lire! — ripicchiava compare Neli. — Vedete se ha trovato un altro compratore per quel prezzo? In tutta la fiera non c’è più che quattro montoni rognosi e l’asino di san Giuseppe. Adesso trenta lire, se le vuole!
— Pigliatele! — suggeriva piano al marito la padrona dell’asino colle lagrime agli occhi. — Stasera non abbiamo da fare la spesa, e a Turiddu gli è tornata la febbre; ci vuole il solfato.
— Santo diavolone! — strillava suo marito. — Se non te ne vai, ti faccio assaggiare la cavezza! — Trentadue e mezzo, via! — gridò infine l’amico, scuotendoli forte per il colletto. — Nè voi, nè io! Stavolta deve valere la mia parola, per i santi del paradiso! e non voglio neppure un bicchiere di vino! Vedete che il sole è tramontato? Cosa aspettate ancora tutt’e due?
E strappò di mano al padrone la cavezza, mentre compare Neli, bestemmiando, tirava fuori dalla tasca il pugno colle trentacinque lire, e gliele dava senza guardarle, come gli strappassero il fegato. L’amico si tirò in disparte colla padrona dell’asino, a contare i denari su di un sasso, mentre il padrone dell’asino scappava per la fiera come un puledro, bestemmiando e dandosi dei pugni.
Ma poi si lasciò raggiungere dalla moglie, la quale adagio adagio andava contando di nuovo i denari nel fazzoletto, e domandò:
— Ci sono?
— Sì, ci son tutti; sia lodato san Gaetano! Ora vado dallo speziale.
— Li ho minchionati! Io glieli avrei dato anche per venti lire; gli asini di quel colore lì sono vigliacchi’.
E compare Neli, tirandosi dietro il ciuco per la scesa, diceva:
— Com’è vero Dio, glie l’ho rubato il puledro! Il colore non fa niente. Vedete che pilastri di gambe, compare? Questo vale quaranta lire ad occhi chiusi.
— Se non c’ero io — rispose l’amico — non ne facevate nulla. Qui ci ho ancora due lire e mezzo di vostro. E se volete, andremo a berle alla salute dell’asino.
Adesso al puledro gli toccava di aver la salute per guadagnarsi le trentadue lire e cinquanta che era costato, e la paglia che si mangiava. Intanto badava a saltellare dietro a compare Neli, cercando di addentargli il giubbone per giuoco, quasi sapesse che era il giubbone del padrone nuovo, e non gliene importasse di lasciare per sempre la stalla dov’era stato al caldo, accanto alla madre, a fregarsi il muso sulla sponda della mangiatoia, o a fare a testate e a capriole col montone, e andare a stuzzicare il maiale nel suo cantuccio. E la padrona, che contava di nuovo i denari nel fazzoletto davanti al bancone dello speziale, non pensava nemmen lei che aveva visto nascere il puledro, tutto bianco e nero, colla pelle lucida come seta, che non si reggeva ancora sulle gambe, e stava accovacciato al sole nel cortile, e tutta l’erba con cui s’era fatto grande e grosso, le era passata per le mani. La sola che si rammentasse del puledro era la ciuca, che allungava il collo ragliando verso l’uscio della stalla; ma quando non ebbe più le poppe gonfie di latte, si scordò del puledro anch’essa.
— Ora questo qui — diceva compare Neli — vedrete che mi porta quattro tumoli di farro meglio di un mulo. E alla messe lo metto a trebbiare.
Alla trebbiatura il puledro, legato in fila per il collo colle altre bestie, muli vecchi e cavalli sciancati, trotterellava sui covoni da mattina a sera, tanto che si riduceva stanco e senza voglia di abboccare nel mucchio della paglia, dove lo mettevano a riposare all’ombra, come si levava il venticello, mentre i contadini spagliavano, gridando: Viva Maria!
Allora lasciava cascare il muso e le orecchie ciondoloni, come un asino fatto, coll’occhio spento, quasi fosse stanco di guardare quella vasta campagna bianca, la quale fumava qua e là della polvere delle aie, e pareva non fosse fatta per altro che per lasciar morire di sete e far trottare sui covoni. Alla sera tornava al villaggio colle bisacce piene, e il ragazzo del padrone seguitava a pungerlo nel garrese, lungo le siepi del sentiero, che parevano vive dal cinguettio delle cingallegre, e dall’odor di nepitella e di ramerino, e l’asino avrebbe voluto darci una boccata, se non l’avessero fatto trottare sempre, tanto che gli calò il sangue alle gambe, e dovettero portarlo dal maniscalco; ma il padrone non gliene importava nulla, perchè la raccolta era stata buona, e il puledro si era buscate le sue trentadue lire e cinquanta. Il padrone diceva: «Ora il lavoro l’ha fatto, e se lo vendo anche per venti lire, ci ho sempre il mio guadagno».
Il solo che volesse bene al puledro era il ragazzo che lo faceva trotterellare pel sentiero, quando tornavano dall’aia; e piangeva mentre il maniscalco gli bruciava le gambe coi ferri roventi, che il puledro si contorceva, colla coda in aria, e le orecchie ritte come quando scorazzava pel campo della fiera, e tentava divincolarsi dalla fune attorcigliata che gli stringeva il labbro, e stralunava gli occhi dallo spasimo, quasi avesse il giudizio, quando il garzone del maniscalco veniva a cambiare i ferri rossi qual fuoco, e la pelle fumava e friggeva come il pesce nella padella. Ma compare Neli gridava al suo ragazzo: — Bestia! perchè piangi? Ora il suo lavoro l’ha fatto, e giacchè la raccolta è andata bene lo venderemo e compreremo un mulo, che è meglio.
I ragazzi certe cose non le capiscono, e dopo che vendettero il puledro a massaro Cirino il Licodiano, il figlio di compare Neli andava a fargli visita nella stalla e ad accarezzarlo nel muso e sul collo, chè l’asino si voltava a fiutarlo come se gli fosse rimasto attaccato il cuore a lui, mentre gli asini son fatti per essere legati dove vuole il padrone, e mutano di sorte come cambiano di stalla. Massaro Cirino il Licodiano aveva comprato l’asino di san Giuseppe per poco, giacchè aveva ancora la cicatrice al pasturale, che la moglie di compare Neli, quando vedeva passare l’asino col padrone nuovo, diceva: «Quello era la nostra sorte; quel pelame bianco e nero porta allegria nell’aia; e adesso le annate vanno di male in peggio, talchè abbiamo venduto anche il mulo».
Massaro Cirino aveva aggiogato l’asino all’aratro, colla cavalla vecchia che ci andava come una pietra d’anello, e tirava via il suo bravo solco tutto il giorno per miglia e miglia, dacchè le lodole cominciano a trillare nel cielo bianco dell’alba, sino a quando i pettirossi correvano a rannicchiarsi dietro gli sterpi nudi che tremavano di freddo, col volo breve e il sibilo malinconico, nella nebbia che montava come un mare. Soltanto, siccome l’asino era più piccolo della cavalla, ci avevano messo un cuscinetto di strame sul basto, sotto il giogo, e stentava di più a strappare le zolle indurite dal gelo, a furia di spallate: «Questo mi risparmia la cavalla che è vecchia, diceva massaro Cirino. Ha il cuore grande come la Piana di Catania, quell’asino di san Giuseppe! e non si direbbe».
E diceva pure a sua moglie, la quale gli veniva dietro raggomitolata nella mantellina, a spargere la semente con parsimonia:
— Se gli accadesse una disgrazia, mai sia! siamo rovinati, coll’annata che si prepara.
La donna guardava l’annata che si preparava, nel campicello sassoso e desolato, dove la terra era bianca e screpolata, da tanto che non ci pioveva, e l’acqua veniva tutta in nebbia, di quella che si mangia la semente; e quando fu l’ora di zappare il seminato pareva la barba del diavolo, tanto era rado e giallo, come se l’avessero bruciato coi fiammiferi. «Malgrado quel maggese che ci avevo preparato!» piagnucolava massaro Cirino strappandosi di dosso il giubbone. «Che quell’asino ci ha rimesso la pelle come un mulo! Quello è l’asino della malannata!»
La sua donna aveva un gruppo alla gola dinanzi al seminato arso, e rispondeva coi goccioloni che le venivano giù dagli occhi:
— L’asino non fa nulla. A compare Neli ha portato la buon’annata. Ma noi siamo sfortunati.
Così l’asino di san Giuseppe cambiò di padrone un’altra volta, come massaro Cirino se ne tornò colla falce in spalla dal seminato, che non ci fu bisogno di mieterlo quell’anno, malgrado ci avessero messo le immagini dei santi infilate alle cannucce, e avessero speso due tarì per farlo benedire dal prete. «Il diavolo ci vuole!» andava bestemmiando massaro Cirino di faccia a quelle spighe tutte ritte come pennacchi, che non ne voleva neppur l’asino; e sputava in aria verso quel cielo turchino senza una goccia d’acqua. Allora compare Luciano il carrettiere, incontrando massaro Cirino il quale si tirava dietro l’asino colle bisacce vuote, gli chiese:
— Cosa volete che vi regali per l’asino di san Giuseppe?
— Datemi quel che volete. Maledetto sia lui e il santo che l’ha fatto! — rispose massaro Cirino. — Ora non abbiamo più pane da mangiare, nè orzo da dare alle bestie.
— Io vi do quindici lire perchè siete rovinato; ma l’asino non val tanto, che non tira avanti ancora più di sei mesi. Vedete com’è ridotto?
— Avreste potuto chieder di più! — si mise a brontolare la moglie di massaro Cirino dopo che il negozio fu conchiuso. — A compare Luciano gli è morta la mula, e non ha denari da comprarne un’altra. Adesso se non comprava quell’asino di san Giuseppe, non sapeva che farne del suo carro e degli arnesi; e vedrete che quell’asino sarà la sua ricchezza!
L’asino imparò anche a tirare il carro, che era troppo alto di stanghe per lui, e gli pesava tutto sulle spalle, sicchè non avrebbe durato nemmeno sei mesi, arrancando per le salite, che ci volevano le legnate di compare Luciano per mettergli un po’ di fiato in corpo; e quando andava per la discesa era peggio, perchè tutto il carico gli cascava addosso, e lo spingeva in modo che doveva far forza colla schiena in arco, e con quelle povere gambe rose dal fuoco, che la gente vedendolo si metteva a ridere, e quando cascava ci volevano tutti gli angeli del paradiso a farlo rialzare. Ma compare Luciano sapeva che gli portava tre quintali di roba meglio di un mulo, e il carico glielo pagavano a cinque tarì il quintale. — Ogni giorno che campa l’asino di san Giuseppe son quindici tarì guadagnati, diceva, e quanto a mangiare mi costa meno d’un mulo. — Alle volte la gente che saliva a piedi lemme lemme dietro il carro, vedendo quella povera bestia che puntava le zampe senza forza, e inarcava la schiena, col fiato spesso e l’occhio scoraggiato, suggeriva: — Metteteci un sasso sotto le ruote, e lasciategli ripigliar lena a quella povera bestia. — Ma compare Luciano rispondeva: — Se lo lascio fare, quindici tarì al giorno non li guadagno. Col suo cuoio devo rifare il mio. Quando non ne potrà più del tutto lo venderò a quello del gesso, che la bestia è buona e fa per lui; e non è mica vero che gli asini di san Giuseppe sieno vigliacchi. Gliel’ho preso per un pezzo di pane a massaro Cirino, ora che è impoverito.
In tal modo l’asino di san Giuseppe capitò in mano di quello del gesso, il quale ne aveva una ventina di asini, tutti macilenti e moribondi, che gli portavano i suoi saccarelli di gesso, e campavano di quelle boccate di erbacce che potevano strappare lungo il cammino. Quello del gesso non lo voleva perchè era tutto coperto di cicatrici, peggio delle altre sue bestie, colle gambe solcate dal fuoco e le spalle logore dal pettorale, e il garrese roso dal basto dell’aratro, e i ginocchi rotti dalle cadute, e poi quel pelame bianco e nero gli pareva che non dicesse in mezzo alle altre sue bestie morelle. — Questo non fa niente, rispose compare Luciano. Anzi servirà a riconoscere i vostri asini da lontano. — E ribassò ancora due tarì sulle sette lire che aveva domandato, per conchiudere il negozio. Ma l’asino di san Giuseppe non l’avrebbe riconosciuto più nemmeno la padrona che l’aveva visto nascere, tanto era mutato, quando andava col muso a terra e le orecchie a paracqua sotto i saccarelli del gesso, torcendo il groppone alle legnate del ragazzo che guidava il branco. Pure anche la padrona stessa era mutata a quell’ora colla malannata che c’era stata, e la fame che aveva avuta, e le febbri che avevano preso tutti alla pianura, lei, suo marito e il suo Turiddu, senza danari per comprare il solfato, chè gli asini di san Giuseppe non se ne hanno da vendere tutti i giorni, nemmeno per trentacinque lire.
L’inverno, che il lavoro era più scarso, e la legna da far cuocere il gesso più rara e lontana, e i sentieri gelati non avevano una foglia nelle siepi, o una boccata di stoppia lungo il fossatello gelato, la vita era più dura per quelle povere bestie; e il padrone lo sapeva che l’inverno se ne mangiava la metà; sicchè soleva comperarne una buona provvista in primavera. La notte il branco restava allo scoperto, accanto alla fornace, e le bestie si facevano schermo stringendosi fra di loro. Ma quelle stelle che luccicavano come spade li passavano da parte a parte, malgrado il loro cuoio duro, e tutti quei guidaleschi rabbrividivano e tremavano al freddo come avessero la parola.
Pure c’è tanti cristiani che non stanno meglio, e non hanno nemmeno quel cencio di tabarro nel quale il ragazzo che custodiva il branco dormiva raggomitolato davanti la fornace. Lì vicino abitava una povera vedova, in un casolare più sgangherato della fornace del gesso, dove le stelle penetravano dal tetto come spade, quasi fosse all’aperto, e il vento faceva svolazzare quei quattro cenci di coperta. Prima faceva la lavandaia, ma quello era un magro mestiere, chè la gente i suoi stracci se li lava da sè, quando li lava, ed ora che gli era cresciuto il suo ragazzo campava andando a vendere della legna al villaggio. Ma nessuno aveva conosciuto suo marito, e nessuno sapeva d’onde prendesse la legna che vendeva; lo sapeva il suo ragazzo che andava a racimolarla di qua e di là, a rischio di buscarsi una schioppettata dai campieri. — Se aveste un asino — gli diceva quello del gesso per vendere l’asino di san Giuseppe che non ne poteva più — potreste portare al villaggio dei fasci più grossi, ora che il vostro ragazzo è cresciuto. — La povera donna aveva qualche lira in un nodo del fazzoletto, e se la lasciò beccare da quello del gesso, perchè si dice che «la roba vecchia muore in casa del pazzo».
Almeno così il povero asino di san Giuseppe visse meglio gli ultimi giorni; giacchè la vedova lo teneva come un tesoro, in grazia di quei soldi che gli era costato, e gli andava a buscare della paglia e del fieno di notte, e lo teneva nel casolare accanto al letto, che scaldava come un focherello anche lui, e a questo mondo una mano lava l’altra. La donna spingendosi innanzi l’asino carico di legna come una montagna, che non gli si vedevano le orecchie, andava facendo dei castelli in aria; e il ragazzo sforacchiava le siepi e si avventurava nel limite del bosco per ammassare il carico, che madre e figlio credevano farsi ricchi a quel mestiere, tanto che finalmente il campiere del barone colse il ragazzo sul fatto a rubar frasche, e lo conciò per le feste dalle legnate. Il medico per curare il ragazzo si mangiò i soldi del fazzoletto, la provvista di legna, e tutto quello che c’era da vendere, e non era molto; sicchè la madre una notte che il suo ragazzo farneticava dalla febbre, col viso acceso contro il muro, e non c’era un boccone di pane in casa, uscì fuori smaniando e parlando da sola come avesse la febbre anche lei, e andò a scavezzare un mandorlo lì vicino, che non pareva vero come ci fosse arrivata, e all’alba lo caricò sull’asino per andare a venderlo. Ma l’asino, dal peso, nella salita s’inginocchiò tale e quale l’asino di san Giuseppe davanti al Bambino Gesù, e non volle più alzarsi.
— Anime sante! — borbottava la donna — portatemelo voialtre quel carico di legna!
E i passanti tiravano l’asino per la coda e gli mordevano gli orecchi per farlo rialzare.
— Non vedete che sta per morire? — disse infine un carrettiere; e così gli altri lo lasciarono in pace, chè l’asino aveva l’occhio di pesce morto, il muso freddo, e per la pelle gli correva un brivido.
La donna intanto pensava al suo ragazzo che farneticava, col viso rosso dalla febbre, e balbettava:
— Ora che faremo? Ora che faremo?
— Se volete venderlo con tutta la legna ve ne do cinque tarì — disse il carrettiere il quale aveva il carro scarico. E come la donna lo guardava cogli occhi stralunati, soggiunse: — Compro soltanto la legna, perchè l’asino ecco cosa vale! — E diede una pedata sul carcame, che suonò come un tamburo sfondato.