Novelle e racconti (Carrer)/Tre incontri e un matrimonio
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Una professione nel convento di *** | La Catalana dal bel sorriso | ► |
TRE INCONTRI E UN MATRIMONIO.
I.
Reginaldario, scusatemi se il nome di questo personaggio vi riesce un po’ stravagante; Reginaldario era arrivato di fresco in X....: conoscete nessuna città di questo mondo il cui nome cominci con una tal lettera? Reginaldario era provveduto di qualche commendatizia; ma più ancora che di commendatizie, di buone cambiali. Non amava i Ciceroni di piazza, e compiacevasi, poichè non aveva fretta, di urtare, come a dire, per caso nei capi lavori d’arte che, dal più al meno, ci sono in ogni paese. L’età di Reginaldario si poteva computare che fosse sopra i trent’anni, l’umore traente al malinconico. Si trovò sul far della sera in una chiesa, e si accorse di una donna, che a pochi passi da lui se ne stava inginocchiata a pregare. Uno sconosciuto e un’incognita che s’incontrano in una chiesa sono materia bastante a fabbricare una novella: peccato che siano cose alquanto vecchiette! Ma che colpa ci ho io se gli uomini, le donne e le chiese non sono moderne?
Reginaldario non erasi condotto nel luogo sacro propriamente a pregare; ve lo aveva tratto la curiosità di vedere se nulla ci avesse là entro di considerabile in fatto d’arti, allettato dall’aspetto esteriore della facciata. Non crediate per questo che ad altre ore non entrasse con altre intenzioni; perchè Reginaldario, in onta ai suoi trent’anni, alle sue cambiali, ai suoi viaggi, e al suo nome poco ortodosso, non era già miscredente. Arrestò l’occhio a principio sopra la donna, non per altro che per non aver nulla di meglio da guardare all’intorno; ma in breve fu a tale che non avrebbe saputo spiccarlo da lei quando anche avesse avuto sul capo la Trasfigurazione o l’Assunta. Mi domandate in confidenza se quella donna meritava di attrarre a sè così subito, e così pienamente, i pensieri di un uomo che viaggiava e non era più affatto ragazzo? Vi risponderò sinceramente che mia intenzione si è di raccontarvi alla buona le impressioni ricevute da Reginaldario, senza impacciarmi punto della loro ragionevolezza e convenienza cogli oggetti che le risvegliarono.
Contentatevi adunque di sapere, giusta o no che si fosse la maraviglia, che Reginaldario rimase sopra ogni credere maravigliato. Il velo, che parte occultava della bella persona, parevagli simile a quella misteriosa incertezza dell’avvenire che alimenta nell’animo de’ giovani tanti desiderii e tante speranze. Ad ogni lieve scossa credeva che dovesse uscirne una rivelazione, al mutar d’ogni piega accorgevasi rimanergli una nuova fibra del cuore non per anco scossa, quando avrebbe pensato che tutte fossero di già state tocche. Se in quel momento la solenne voce dell’organo avesse rimbombato sotto le volte tenebrose e deserte! Se copiose ondate d’incenso, diffondendosi improvvisamente per l’aria, avessero sembrato avviluppare in vortici odorosi i gemiti delle turbe preganti! Ma nulla accadeva di tutto questo: l’incognita indi a qualche tempo richiuse il suo uffizio, si alzò ed uscì per la porta ond’era entrata. Lo sconosciuto parti dal lato opposto.
Dal lato opposto? Perchè non seguirla, carpirle uno sguardo, offrirle l’acqua benedetta, e, se non più, ritrarne novelle sulla via da essa tenuta per condursi alla propra casa? Reginaldario, come vi ho detto, era un po’ strano. Stampatosi nella memoria, per quanto eragli conceduto dal velo, dall’oscurità del luogo, e più di tutto dall’ingenua modestia dell’incognita, le tracce di una cara fisonomia, i contorni d’una bella persona, non ne voleva di più. Figuratevi un orientale che s’inebbria d’oppio per godere dormendo la voluttà di fantastici sogni. Tremava Reginaldario sconciare le sue dolci immaginazioni sforzandole ad entrare nel cerchio della realtà. Voleva vedere la bella incognita sempre traverso quella tenebra sacra che la ravvolse la prima volta; perchè dovete sapere che Reginaldario aveva un tempo ancor egli esperimentato il disgustoso sentimento di certi terribili disinganni. Chi si adira colla Psiche di Canova? A chi vengono meno i sonni per averla veduta? E la veggono tanti! Quando anche, diceva fra sè Reginaldario, non ci avesse altro in questa città, pittore o scultore che io fossi, ne ho materia bastante a mirabili concepimenti. A me a darle pensiero e parola conveniente ai bisogni della mia anima; come all’udire gli accordi di un’arpa, ridurrò quelle note indeterminate a significare ciò che farà meglio al mio cuore. E durò nel suo primo proponimento di più non vederla. Passava davanti la chiesa, ma non ci entrava: ella è forse là entro, forse prega. Era pago di tanto e ne aveva di che passare molte e molte ore in piacevole divagamento.
La stagione in cui accadde l’incontro che vi ho narrato era il carnovale. Di là a pochi giorni Reginaldario fu invitato ad un ballo; visitate le maraviglie inanimate della città, volle vedere anche le spirituali, se ce ne fossero. Con questo intendimento accettò l’invito. Qui mi si apre bel campo a descrivere una sala magnificamente addobbata, dal tetto che fiammeggia al riverbero delle pendenti lumiere, fino al pavimentò che trema sotto l’impulso delle schiere danzanti. Ma di tali descrizioni chi non ne ha letto almeno dieci? Chi non ha negli occhi, qualunque sia la stagione dell’anno, il reboato delle trombe dell’ultimo carnovale? Perchè entrare a passo a passo nel mare di una descrizione, come i nôtatori novizii che non sanno staccarsi dal lido che a gran fatica? Coraggio, lanciamoci a capo innanzi nel pelago odoroso e sonoro di quella festa, tuffiamovici d’un solo tratto; al più al più ne accadrà di morire soffocati di mezzo ai profumi. La volubile ruota dei ballerini passando regolarmente davanti a Reginaldario il lasciava indifferente, finche fra que’ molti raggi uno gli parve spiccarsi dagli altri e strisciargli rasente il cuore. La frase è ardita lo veggo; lasciatela passare, signori, essa scapperà via colla velocità della danza. Reginaldario non è più indifferente, egli si accorse, e di che mai? Nessuno de’ miei lettori, sono certo, mi fa di buona fede una simile interrogazione. Prima ancora di Reginaldario, o per lo meno ad un tempo con esso, vi siete tutti accorti che fra le ballerine ve ne aveva una che arieggiava la sconosciuta. Era dessa? Che nuovi sentimenti provava il cuore di Reginaldario a questo secondo incontro? Colà, silenzio, ombra, pietoso raccoglimento; qui musica, illuminazione, allegria. E il velo del mistero? Oh come spiccano su quelle chiome nerissime le rosee ghirlande! Come insidiosamente risultano negli alterni moti le membra eleganti! Reginaldario desidera egli più quella solitudine, quel mistero? La visione si è dileguata, o, a meglio dire, il sogno si è avverato. La celeste apparenza ha lasciato le nubi e tocca la terra; ma non la preme che coll’estrema punta de’ piedi, nè più nè meno di quello che accade ballando. A principio i rivolgimenti della danza sembravangli troppo rapidi; ora che ha fermo un punto, accusa la musica d’intollerabil lentezza, vorrebbe pur conoscere qualcheduno in quella tanta moltitudine, ma qualcheduno cui poter interrogare confidentemente. Dacchè ha lasciato il regno degli angeli gli conviene parlare cogli uomini. E poi? Conosce la propria specie, ne ha fatto esperimento; questa volta la perfidia nol coglierà inavvertito. Si pone al labbro una tazza in cui sa di dover tosto o tardi trovarci l’amaro. Non è più il fanciullo che dal mele degli orli è reso incredulo alla feccia del fondo.
Reginaldario pescando l’indomani tra le commendatizie, rimastegli tutte nel portafogli, ne trovò una che parevagli dovesse fare a proposito. Entrato nella società di una signora amabile e nota, non durerà fatica a sapere quel tanto gli occorre della sconosciuta. Dunque alla casa di quella signora. Ci va, è ricevuto, presenta la lettera... che? Si trova a fronte appunto di quella. Non più veli, non più ghirlande. L’acconciatura domestica; omai al misterioso silenzio e all’allegro calpestio succede il piacevole e gentil conversare. Ma il signor N. alla cui sposa l’amico mi voleva indirizzato? — Da tre anni mi lasciò vedova. — Reginaldario ne seppe abbastanza, da indi a tre mesi v’ebbe un convito di nozze, e si videro appiccati ai canti delle strade alcuni sonetti. La deliberazione di Reginaldario diede molto che dire; siccome però egli non aveva fatte molte conoscenze, non ebbe la briga di rispondere a molti. Seco stesso l’aveva discorsa così: senza che io ci badassi misi il cuore a tre prove; non c’è guisa di amore che in me non fosse eccitato dalla vista di questa donna. Ho cominciato alla petrarchesca in una chiesa; mi sono sentito quindi infiammare come dal più al meno tutti i poveri mondani; veduta ch’io l’ebbi in sua casa mi parve che potesse farmi felice. Nell’ore fantastiche le getterò intorno quel velo che me la rese a principio sì cara, invocherò il silenzio e le tenebre per venerarla come cosa sacra; co’ fiori intrecciati ai capelli, e le vesti svolazzanti leggermente intorno alle membra assopirà molte cure pungenti della mia anima; la quiete e la misura della domestica vita non me la faranno sembrare meno leggiadra o men cara.
Mi domandate se Reginaldario facesse bene i suoi conti? Su questo punto non posso darvi risposta perchè la mia novella finisce appunto col matrimonio. Per altra parte io non intendo di farvi l’apologia del mio personaggio, mi basta avervi accennato i tre incontri che gli furono cagione alle nozze. Quando avessi a fare un’apologia vorrei farvi la mia, e rispondere a quelli fra i miei lettori cui sembrasse troppo semplice questo racconto. A un altro capitolo, se vi piace, in cui vi farò udire infinite belle cose, sempre in proposito di tre incontri e di un matrimonio.
II.
Ora che abbiamo accasato Reginaldario colla donna della sua scelta, discorriamola un poco coi nostri critici. Signori miei, in primo luogo la novella che vi ho narrata è povera d’invenzione; ma, vi prego, credete voi che l’affollare accidenti sopra accidenti sia poi una gran bella cosa? Io leggo alcuni romanzi che procedono come il discorso del mio buon amico Demetrio. Demetrio ha il ticchio della narrazione; dov’egli mette innanzi la voce ogni altro deve tacere, fin anche Servilio tornato dal suo primo viaggio. E molto a ragione esige Demetrio che tutti tacciano; figuratevi che ne farebbe dell’intendere, quando altri parlasse, se, tacendo tutti, si dura la più matta fatica di questo mondo a tener dietro al filo de’ suoi racconti. Ad ogni sei parole un po’ di parentesi, e dentro la parentesi stessa l’inserzione di qualche notizietta accessoria. Tu devi sgusciare e sgusciare senza posa prima di trovare il nocciuolo; e questa è abbondanza, presso a poco come è invenzione quella dei romanzieri surriferiti. La donna sposata da Reginaldario era vedova, vedete un poco come ci cascava naturalmente la storia del primo marito. Questo marito aveva estese le sue conoscenze fino al paese donde si parte Reginaldario, il quale taciturno, appassionato per le arti, e d’umore un po’ stravagante, dovete capire che viene di lontano. Di tutto ciò avete il germe bello e palese nel mio breve racconto. E non ci avete anche udito che il nostro viaggiatore, prima di trovarsi tale quale ve lo dà la mia storia, si era lasciato illudere dalle apparenze, come presso a poco i giovani di ogni secolo e di ogni contrada? Ecco dunque un’altra storicità da contrapporre a quella del primo matrimonio dell’incognita. E se l’incognita avesse sul volto le tracce della bellezza fallace, ma come a dire raggentilite dalla verecondia e dall’attitudine della preghiera? Nuovo ordine di pensieri e di sentimenti nel suo ammiratore. Ma questa donna che abbiamo lasciato che andasse e tornasse a sua posta, senza darci una pena di sorta di quanto le germogliava nel cuore, non si era accorta di Reginaldario. E, dopo gli sguardi che involontariamente le aveva lanciati, il non saperne più nulla non le avrà messo nel cuore un poco di curiosità non del tutto irragionevole? Forse che un po’ di esitazione le nacque nell’incamminarsi alla festa di ballo; ma quando poi si vide davanti quell’uomo stesso con altri sguardi, e che le convenne passargli a lato tutte le volte che fu richiesto dalla vicenda della sua danza? E via discorrendo — non vi sentite, o lettori fermentare nella fantasia il caos di un lungo romanzo, con tutti i suoi quattro elementi d’acqua, terra, fuoco ed aria, mescolati in baruffa, e desiderosi di essere separati secondo la loro varia destinazione?
Capisco però che la materia non basta, e che ci occorre la forma. Quand’anche per conseguenza vi avessi provato che nel mio aneddoto c’era il caos tutto quanto, ossia gli elementi delle cose, non sarei meno censurabile per non aver fatta la necessaria separazione, e messo ogni oggetto al suo posto. Reginaldario si fa incontro al lettore come nemico armato, senza esordii di sorta. Non ha nessun dialogo con qualche discreta persona che s’indugi a tenergli conversazione tanto che possa dar buon conto di sè. Benedetti que’ dialoghi così naturali, e sopra tutto così laconici, da’ quali s’incominciano ordinariamente i romanzi! Il personaggio principale sta intanto dietro la scena, e lascia fare agli attori secondarii. La scena è comunemente una taverna, il cortile di un castello, un quadrivio con una cappelletta prospettica, o una landa deserta dove un povero viaggiatore si trova molto male impacciato tra i rovi e la melma. Sdegnando tali sussidii, o non trovandoli confacenti al proprio soggetto, avrebbe fatto bene un poco di andirivieni metafsico: allora il protagonista sarebbe comparso tra la nebbia come i numi d’Omero. In somma, pur non volendo, la feci alla trecentistica; esposi spialtellatamente il nome e la patria, subito subito come nelle antiche novelle, e, salvo l’abbindolalura del periodo, incominciai presso a poco come il Boccaccio e Franco Sacchetti: In X...., fra le italiche città, per ogni maniera di onorati studii commendevole e chiara, vi fu un tale, con quello che segue. Questa stessa insopportabile dozzinalità di condotta è continuata fino al termine della storiella. Passiamo dalla chiesa alla sala del ballo, e da questa alla camera dell’incognita, proprio come si va da luogo a luogo, senza interruzione, senza intoppi, senza divagaraenti di sorte. Eppure quel tempio così deserto poteva aprire un bel campo, se non altro a un poco di riflessioni sull’architettura gotica! Nessuna buona ragione voleva che quel tempio non fosse gotico; e allora le guglie acuminate, i vetri colorati, le svelte colonne, e sopra tutto qualche effigie di feudatario distesa per terra, col naso logoro dal fregamento dei piedi divoti, che vi passano sopra mattina e sera, avrebbero fatto buon giuoco. Anche qui per altro intendo a giustificarmi; vedete che c’è, se non altro, della novità a fare le narrazioni così asciutte, asciutte: di frange, e ricci, e svolazzi, non ce ne mancano, grazie a Dio, in altri libri. E non è artifizio anche il venire innanzi ai lettori così povero di ornamenti? Il presentar loro la novella come una melarancia trinciata spicchio per spicchio, e chi ha voglia ne prenda? Ma, e lo stile? Oh! qui poi non sia chi mi accusi. Esso è discretamente fiorito, discretamente franco, discretamente bizzarro. Non mancano le immagini insolite, tanto da doverne chiedere scusa ai lettori; le costruzioni intralciatelle, così che si possa vedere a che tempi siamo; i vocaboli quando alla mano, quando lisciati, perchè tutti ci trovino il loro conto. Io credeva anni sono che lo stile fosse un gran che per gli scrittori, spezialmente quelli che hanno per iscopo principale dell’opere loro il diletto; ma ho fatto giudizio, ossia mi sono lasciato ammaestrare dall’esperienza. Ho veduto che tra l’eleganza e l’affettazione non c’è che un meschino divario; l’oscuro è sempre a un pelo di sembrare sublime; la scorrezione è disinvoltura; le inesattezze, felici ardimenti; e così del resto. Non toccate la lega del mio stile, ch’esso è coniato nelle zecche più accreditate. Esso non può farvi se non piacere, e quand’anche vi desse agio di criticarlo, mi rimarrà sempre il conforto che non vi abbia fatto dormire. Gl’ingredienti di cui si compone sono presi dalle croniche, dalle storie, dai trattati scientifici, dalle lettere famigliari, dalle traduzioni di autori di tutte le lingue, dal discorso ordinario, dalla prosa, dal verso, ciò tutto frammischiato al mio umore particolare di quella mattina in cui scrissi. Passava di sotto ai miei balconi un organetto, e contemperai la musica de’ miei periodi alla misura di questo strumento. Con questi aiuti, con queste avvertenze, è impossibile che questa novella non trionfi dell’obblio, che tiene sempre aperta la gola per tranghiottire tutto che si pensa dagli uomini. Credetemi, critici miei riveriti, il mio racconto scapperà da quelle zanne; se propriamente dinanzi, o soltanto di traverso, dietrovia o altrimenti, lascio a voi giudicarne.