Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella XLVII
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Io non so già in qual guisa mi sia lasciato condurre nè chi mosso m’abbia a novellare innanzi a così onorata compagnia, essendone qui molti che meglio di me e con sodisfazione di tutti potrebbero questo arringo correre. Ma poi che io in ballo entrato sono, egli m’è pure forza ballare a la meglio o, per parlar più proprio, al men male che io saperò. Onde di me vi converrà pigliar ciò che io posso darvi, perchè in effetto io non sono gran dicitore, se ben pare che io parli assai. Ora poi che ragionar debbo, anderò senza partirmi di qui a Verona mia nobilissima patria, che in pochissime cose cede a qual si voglia città d’Italia, e vi narrerò un meraviglioso accidente d’amore che non è guari in quella avvenne. E per non tenervi più a bada vi dico che questi anni passati, tenendo Massimigliano imperadore la detta città di Verona sotto il suo dominio, tra gli altri che a la guardia d’essa terra furono da lui deputati vi fu il signor Gostantino Boccali, giovine nobilissimo di quei dispoti e prencipi che de la Grecia e del reame de lo Epiro furono da’ turchi cacciati. Egli, come molti di voi ponno aver veduto, è giovine di grande statura, ben proporzionato, di giocondo e veramente signorile aspetto e de la persona molto prode, come colui che da gran prencipi disceso sempre s’è da fanciullo ne l’arme essercitato. Egli alora aveva una banda di cavalli leggeri e insieme con gli altri capitani dimorava a la diffesa de la città contra i nemici di Cesare. Quivi dimorando, e spesso per la città, per via di diporto, ora a piè ed ora a cavallo andando, avvenne che un giorno egli s’incontrò in una gentildonna assai bella, la quale mirabilmente gli piacque e di così fatta maniera gli entrò nel core che a lui pareva non aver mai più veduta nè così bella nè così leggiadra donna. E non avendo riguardo che era su l’arme, con il campo dei nemici non molto lontano, che ogni dì correvano fin a le porte de la città, e che egli era capitano di soldati a cui non sta bene la fierezza de l’arme ed il rigore de la milizia effeminare ed ammollire con lascivie ed imprese amorose, – cosa che più nocque al perpetuo nemico dei romani Annibale, che quanti mai esserciti e capitani fossero contra lui, – aperse esso signor Gostantino sì fattamente il petto a le nuove e nocive fiamme veneree, e de la veduta donna così s’accese che quel dì che non la vedeva o dinanzi a la casa non le passava, non trovava requie nè riposo già mai. Ed a ciò che l’amor di lei acquistasse, non lasciava cosa veruna a fare, quantunque grande e difficil fosse, per la quale pensar si potesse di compiacerle, e senza ritegno la roba e il tempo dietro le spendeva. Ma ella di cosa che il Boccali si facesse, punto non si curava, o che in altro amante avesse i suoi pensieri collocati o che pur fosse di natura onesta e ritrosa a queste imprese d’amore. Veggendo adunque l’amante che a la donna punto non caleva di cosa che per lei si facesse, si ritrovava senza fine di pessima voglia e non sapeva ove dar del capo. Mandolle più volte messi ed ambasciate e più d’una lettera le scrisse e con doni cercò di renderla pieghevole, ma nulla mai da la donna fu accettato, nè risposta alcuna diede a l’ambasciate o messi, per quanta instanzia facessero, già mai. Solamente ella diceva che se n’andassero per i fatti loro e non la molestassero, chè indarno s’affaticherebbero; il che a l’acceso amante che tutto si struggeva come fredda neve al caldo sole, era cagione di fierissimo cordoglio. Altre vie tentò il Boccali, ma rimuover la donna dal suo proponimento non puotè mai. Nè per questo le cocenti fiamme in lui punto scemavano, anzi pareva che più ferventi e maggiori si facessero e che quanto più la donna ritrosa si mostrava, egli tanto più si disponesse d’amarla e seguitarla. E veramente è vero il proverbio che si dice, che tutti per l’ordinario ci sforziamo d’ottener le cose vietate, e quanto una cosa più ci è negata più la desideriamo. Così faceva il signor Gostantino che veggendo la donna in tutto da lui avversa e non si curar di lui nè di cosa che da lui procedesse, egli di più in più dietro le correva, e più caldamente l’amava e desiderava l’amor di quella. Essendo la cosa in questi termini, avvenne che un giorno cavalcando con sue brigate il signor Gostantino per Verona, riscontrò la sua rigida e fiera donna sovra uno di quei bellissimi ponti che sono sovra l’Adige, fiume, come saper devete, che per mezzo la città rapidamente corre. Era la donna in compagnia d’altre donne e sovra il ponte passava, quando il Boccali incontratala umilmente la salutò. L’amor di costui e la rigidezza de la donna erano di modo appo tutti palesi che d’altro non si ragionava, non sapendo o non volendo il Boccali celare le sue amorose passioni. Sdegnatasi la donna che l’amante fosse stato oso a la presenza di tante persone salutarla, come se in questo la sua fama devesse restar macchiata, senza veruna cosa rispondergli, a crollare il capo cominciò con certo modo come fa chi di cosa che gli spiaccia si corruccia, e tutta in viso divenne sì colorita che pareva una rosa incarnata còlta di maggio ne l’apparir del sole; il che di più in più l’accrebbe le sue bellezze. L’altre donne che seco di brigata erano, parendo lor che ella usasse poca cortesia, avendo compassione al giovine che valoroso e gentile conoscevano, dissero scherzevolmente a la ritrosa ed irata donna: – Veramente gran cosa, madonna, è questa, che voi entriate in còlera che sì cortese cavaliero vi saluti e non vogliate d’una parola contentarlo, che per voi ogni gran cosa farebbe. V’ha egli per questo contaminato l’onor vostro? non sta egli bene ad ogni gentiluomo generalmente onorar tutte le donne? non è poi gran discortesia ed atto poco civile a chi ci saluta non rispondere? – Non aspettò il cavaliero che la donna a le compagne rispondesse, ma preso per le parole loro più d’animo, rivolto a quelle le disse: – Eccovi mò, donne mie care, a qual termine io son ridotto. Io amo costei, – non mi accade negare ciò che questa città sa, – molto più che la vita mia, nè altro in dono le cheggio se non che degni non dico amarmi, chè tanto non presumerei e la sua rigidezza nol sofferisce, ma che contenta sia che io l’ami e suo cavaliero m’appelli, e mi comandi tutte quelle cose che per me così ne l’opere de la vita come per roba far si ponno, perciò che sempre mi troverà suo ubidientissimo servo. Ma ella del tutto fuor di maniera schifevole, nè me nè le mie cose punto cura. Del che io me ne vivo il più mal contento uomo del mondo. – Stavasi l’adirata donna tutta in sè raccolta e agli occhi de l’amante pareva sì meravigliosamente bella che egli a lei rivolto, in modo gli occhi le aveva gettati in viso che, di soverchia dolcezza ebro, era di se stesso fuori. Parole assai si dissero da le compagne de la donna e da quelli che erano col signor Gostantino, ed assai cose dette furono di questo amore che troppo lungo e forse noioso sarebbe il raccontarle. A la fine dopo molte parole, una più de l’altre baldanzosa e che per ventura averebbe voluto vedere la corrucciata donna, se ben era altera e disdegnosa, che almeno non fosse ritrosa e sì selvaggia al signor Gostantino, voltando le parole donnescamente disse: – Signor cavaliero, voi altri giovini innamorati o che d’esser mostrate, sapete troppo ben cicalare e dir le ragion vostre, fingere meravigliosamente l’appassionato e con tante ciancie avviluppare il cervello a le semplici donne, che ben sovente vi fate creder la bugia. Ma a la fè di Dio che a me non l’appiccareste voi. Potreste ben dire e ridire, che io non vi darei credenza d’un bagattino. Deh, non l’abbiate per male, signor cavaliero: tutti sète bugiardi, fingardi e disleali, (a le donne, dico), e parvi dei signori veneziani aver trionfato alora che alcuna credula e semplice donna ingannate, e tra voi ve ne ridete, e so bene io le canzoni che ne fate e come la va. Non so io ciò che pochi giorni sono ad una mia vicina avvenne, che da un soldato si lasciò irretire e poco mancò che non divenisse donna, io nol vo’ dire? – A queste parole la rigida donna che sino alora mutola era paruta, la lingua alteramente snodando disse: – Veramente, sorella mia, tu hai al presente detta la pura verità e toccati quei tasti che si deveno, e m’hai fatto un grandissimo piacere. Costoro altro non sanno dir già mai, e mille volte il giorno lo replicano, che viveno in fuoco, che ardeno, che abrusciano, che sono d’ardentissime fiamme cinti, e che consumano e si sfanno come cera al fuoco o come ghiaccio al sole. E su queste lor pappolate fanno una lunghissima intemerata e vorrebbero pure che da le donne si prestasse lor fede. Nè ti pensar che leggermente queste lor menzogne affermino o che per burla le dicano in atto di ridere. Eglino con santissimi giuramenti e gravissime imprecazioni si sforzano fare del bianco nero e del nero bianco. Ma io per me mai non ne vidi alcuno, e così porto ferma openione che nessuna già mai vedesse questi così accesi ed infiammati uomini, chè tali esser tenuti vogliono, ardere, gettar nè fiamme nè faville, e meno divenir carboni o cenere, se forse non sono di quelli che arsi dal divino, spaventevole e tremendo fuoco del barone messer sant’Antonio si veggiono miracolosamente fumando a poco a poco consumarsi. Cicalino pure, sospirino, dicano, piangano, si lamentino e facciano ciò che vogliano, che io non crederei loro col pegno in mano, perciò che sempre hanno un sacco pieno di frivole escusazioni. – L’amante udendo questo, arditamente e con lieto viso a la sua donna rivoltato disse: – Madonna, io son pure troppo chiaro che di me nulla vi cale, perchè al mio grandissimo incendio non vi piace aprir gli occhi; chè forse quando la minima scintilla de le mie ardentissime fiamme vi fosse nota, io sperarei trovar da voi se non mercede, pietade almeno e compassione, ove ora altro che crudeltà e strazio in voi non ritrovo. Io ardo per voi, io mi struggo e sensibilmente mi consumo; e il fuoco del vostro amore ove mi abbruscio è fatto sì penace, sì grande e tale che tutta l’acqua de l’Adige che sotto questo ponte corre nol potrebbe scemare non che ammorzare. – Provate, – rispose la fiera donna, – a saltar nel fiume e forse vi trovarete più freddo che ghiaccio. – Era circa la fine del mese d’ottobre che già hanno i freddi cominciato a pigliar forza, e alora perchè la tramontana soffiava, il freddo era grande. Come l’amante udì la sua crudel donna dire che si gettasse ne l’acque, tratto da giovinile e mal pensato pensiero, e ceco dal soverchio ed irregolato appetito di compiacerle, alzando la destra mano le rispose: – Eccomi, eccomi pronto ad ubidirvi, se cosa grata vi faccio a saltar nel fiume. – Ben sai, – disse ella, – che cosa che mi sarà di piacere farete. Che tardate voi? Vedi mò che uomo è questo! – Quasi che volesse inferire: – Io so bene che voi non sarete così trascurato nè pazzo da catena che commettiate simil errore. – Ma il fervente amante oltra più non pensando nè altra cosa attendendo, dato degli sproni nei fianchi ad un caval turco che sotto aveva, nel corrente e vorticoso fiume dal ponte il costrinse per viva forza a saltare. È l’Adige molto profondo e rapido e sommamente difficile, anzi pure pericolosissimo, massimamente vicino ai ponti per le rivolte e golfi che fa, da nòtare, e alora per le precedute pioggie era fuor di misura gonfio e superbo. Il perchè il cavallo oppresso dal peso de l’uomo e da la gravezza sua tirato al basso, presse coi piedi il fondo e quasi come una palla che in terra percosso avesse, se ne ritornò sovra acqua col giovine sempre in sella. Indi cominciò soffiando contra il corso de l’acqua, secondo che il Boccali il governava, a fender per fianco l’acqua e a poco a poco verso la ripa nòtando inviarsi. Il giovine che sovra vi sedeva, volgendo il capo verso la donna ad alta voce diceva: – Ecco, signora mia, ecco che io son in mezzo a l’acque, ecco che tutto molle e bagnato, come mi vedete, punto di freddo non sento, e tuttavia diguazzandomi ed inacquandomi ardo più che mai e favilla del mio fuoco punto non si scema; anzi se volete ch’io vi dica il vero, io mi sento di più in più infiammare. – Tutti quelli che sovra il ponte erano, tanto rimasero sbigottiti e sì attoniti che da la meraviglia di così animoso ed audace cor vinti, stavano come insensati nè potevano formar parola. Il giovine che più a la sua cara donna aveva gli occhi che al nòtare del suo cavallo, arrivò a la riva del fiume, ma in luogo che v’era dirimpetto tanto alto il muro che uscir de l’acqua egli non poteva. Onde fu astretto volger il cavallo per ricercar un guado che fuora del fiume il conducesse. E volendo col freno il cavallo girare dandoli di buone speronate, nel voltar che fece, il rapido corso de l’acqua non so in che modo prese le gambe al cavallo e sì fieramente lo scosse che, ravvolgendolo impetuosamente, sossopra a gambe riverse nel fondo l’attuffò, di maniera che l’ardito giovine a mal grado che n’avesse, perdette le staffe e la sella, ma non lasciò già mai il freno. E così col cavallo a mano rivenne sovra acqua. A questo spaventoso e pieno di compassione spettacolo, tutti quelli che erano sul ponte e per le rive cominciarono a gridare: – Aita, aita! – Il giovine non si perdendo punto d’animo, come fu sovra acqua, veduto il manifestissimo e periglioso suo caso, gettata via la cappa e rimaso in saio, abbandonò il freno del cavallo e quello lasciò andare a beneficio di natura ove voleva, ed egli attese a la meglio che puotè a nòtare, e ancora che gravato fosse dal saio e avesse la spada a lato, nondimeno s’aiutava quanto poteva di vincere nòtando la forza de l’acqua. Navi quivi alora non erano nè persona vi fu che si rischiasse di mettersi dentro il fiume per aiutarlo. Solamente gli era con le voci e gridi sporto di parole soccorso. Le donne piangendo e di paura tremando, gridavano misericordia e stavano tutte spaventate aspettando il fine di così temerario e periglioso atto. Ed altresì la rigida e dispietata donna, nel cui petto non era per avanti potuto entrar scintilla di pietà, a sì orrendo e mortal caso alquanto intenerita e de l’amante divenuta pietosa, più che l’altre di calde e vere lagrime tutta bagnata, quanto più poteva gridava: – Aita, aita! –, e pregava questi e quelli che al giovine dessero soccorso. Ma, come ho detto, nessuno ardiva mettere la vita per altrui a sbaraglio. Il giovine che benissimo sapeva nòtare ed era ne l’acque assai pratico come deverebbe ogni soldato essere, quando vide che la sua donna amaramente piangeva e che di lui calendole mostrava aver compassione, si tenne ottimamente appagato di quanto per lei aveva fatto già mai, e tanta dolcezza sentì le l’animo, e tanto accrescersi le forze, che impossibile gli pareva che più potesse pericolare. Il perchè animosamente nòtando e destramente rompendo il fiero corso de l’acque, andava tuttavia acquistando camino e verso un buon guado riducendosi. E quantunque carco di panni fosse e con la spada a lato, che tutte erano cose che stranamente l’impedivano e a basso il tiravano, nondimeno tanto si seppe schermire, e sì bene s’aiutò, che pervenne al guado e de l’acqua uscì fuori, e a salvamento ove erano i suoi e le lagrimanti donne si condusse, senza che io ve lo dica, tutto bagnato. Il cavallo anch’egli era uscito fuori e stato preso dai servidori del giovine. Meravigliosa cosa veramente è, signori miei, ad imaginar quanto siano difficili ad investigar le forze de l’amore. Quel duro, ferreo e adamantino core, il quale la lieta fortuna del giovine non aveva mai potuto piegare a conoscer la servitù e ferventissimo amor di quello, la misera ed avversa in modo aperse, anzi spezzò, che quando lo vide in così manifesto periglio, pentita de la durissima rigidezza a lui dimostrata, sentì in tutte le interiore destarsi tanta pietà e compassion di lui, che per poterlo cavar de l’acque e trarlo di sì grandi pericoli, ella volentieri averebbe la vita propria a simil rischio posta. Ma non sapendo con altro, con piangere e gridare gli porgeva aita. Come il giovine fu uscito fuori, così tutto bagnato com’era, andò riverentemente dinanzi a la donna dicendo: – Eccomi qui, signora mia, qual mi vedete, che pure arder mi sento e so che abbruscio, disposto sempre a ogni vostra voglia, pur che io sappia farvi piacere e servigio. – Quivi la pietosa donna assai donnescamente il riprese di così folle ardire, essortandolo ad amar più temperatamente, e de l’offerte ringraziandolo e se stessa offerendo quanto l’onestà sua sofferiva. E assai variamente di questo caso ragionandosi, tutti se n’andarono per i fatti loro. L’amante a l’albergo ridutto attese a farsi asciugare, più tèma del periglio avendo alora che n’era fuori, che quando dentro vi si trovava. Entrato poi in speranza del suo amore per le lagrime de la donna, cominciò con lettere ed ambasciate a tenerla sollecitata. Ella ricevendo le lettere ed a le ambasciate orecchia e fede prestando, fu contenta che a lei l’amante una notte andasse. Egli oltra misura lieto, pieno di gioia v’andò e da lei fu affettuosamente ricevuto. Le accoglienze furono gratissime, e dopo i dati e mille volte replicati amorosi baci se n’andarono a letto. Così s’era la soverchia gioia nel core a l’amante moltiplicata, di vedersi in braccio a quella che tanto desiata aveva, che tutta la notte se ne stette altro più di lei non potendo prendere che baci. Il che oltra questa prima notte gli avvenne anco per l’altre tre continove notti che con la donna giacque. Del che dolendosi oltra modo e dubitando non esser d’alcuna cosa maliosa impedito, di doglia e di vergogna se ne moriva. La donna che per fermo credeva ciò avvenirgli per troppo amore, il confortava a la meglio che sapeva. Ma questo caso tanto fu a lui gravoso a sofferire che più volte dopo l’essersi amaramente rammaricato e doluto entrò in desiderio di volersi uccidere. Il perchè, tornato innanzi giorno a l’albergo e in camera serratosi, prese un pugnale e quello si cacciò animosamente nel petto. Ma o per debolezza del braccio o che che si fosse cagione, la piaga non penetrò a dentro per lo diritto, ma si torse verso il destro fianco. E vinto il giovine dal dolore cadde boccone sovra il letto, ove buona pezza come fuora di sè dimorò. Pure rivenuto in sè e l’uscio de la camera aperto, chiamò un suo fidatissimo cameriero al quale narrò il fatto com’era, seco ordinando che si dicesse che la notte era stato ferito andando per la terra. Fatto poi venire i medici attese diligentemente a curarsi. La donna che l’accidente, secondo che era seguìto, aveva dal cameriero inteso, ne ebbe grandissimo affanno e dolore, e mandògli a dire che per quanto amore le portava, si confortasse e facesse ogni cosa per guarire. Ora egli non mancò a se stesso e usò tutti i rimedii necessarii per sanarsi. Tuttavia egli stette più di dui mesi in camera prima che guarisse, sì perchè la ferita era in luogo pericoloso per la testa che era toccata dal pugnale, ed altresì per la stagione che era già l’invernata. Essendo poi compitamente sanato, e per la città cavalcando, e avendo le deboli forze ricuperate, fece intendere a la sua donna che volentieri, piacendole, sarebbe una notte ito a trovarla. Ed avuta la comodità, molto di buona voglia a quella si condusse, da la quale con soavissimi abbracciamenti e dolcissimi baci lietamente fu raccolto. Entrato poi in letto con lei, e meglio che prima fatto non aveva sapendo l’allegrezza ed amorosa gioia comportare, recatasi la donna in braccio, amorosamente con quella si giacque e più volte quel piacer ne prese che l’ultimo diletto d’amore è dagli amanti chiamato. E talora lassi, ragionando de le cose passate, ridendo e scherzando insieme, di nuovo ritornavano a l’amorosa guerra, ove lottando a chi più poteva, sempre a la donna, come più debole e delicata, toccò il ritrovarsi di sotto col suo caro amante in braccio. Nè questa notte fu l’ultima ai diletti e piaceri lor amorosi, perciò che mentre l’amante in Verona dimorò, che molti mesi vi stette, sempre che volle, e sovente volte voleva, con la donna a giacersi se n’andava, seco dandosi il meglior tempo del mondo, ad altro non pensando che compiacerle e servirla. Ella altresì amando il suo amante più che gli occhi suoi, di quello solamente pensava, tenendosi per molto aventurosa di così nobile e caro signore. E così lungo tempo senza disturbo nessuno goderono lietamente del loro amore, nè mai più intervenne al giovine, essendo con la sua donna, come la prima notte era intervenuto. Alcuni vogliono dire che questo caso non al signor Gostantino avvenisse, ma al signor Manuolo suo fratello, giovine anco egli bellissimo e valoroso e capitano dei cavalli leggeri di Massimigliano Cesare. Ma io da chi lo può sapere intesi pur esser accaduto al signor Gostantino.
Ritrovandomi non è molto in Mantova con madama Isabella da Este marchesana d’essa città, dopo che d’alcuni affari avemmo ragionato per i quali ella m’aveva mandato a Milano, sovravvennero molti gentiluomini ed alcune de le prime donne de la città a farle riverenza, come ordinariamente è lor costume. E d’uno in altro ragionamento piacevolmente entrandosi, il signor Gostantino Pio disse: – Voi, madama, non avete forse ancor inteso d’un gran buffettone che il cavalier Soardo ha dato a maestro Tomaso Calandrino medico. – Come, – rispose madama, – è egli seguìto cotesto fatto? La cosa è andata da un gran pazzarone a un gran sempliciotto. E che romor è stato tra loro? – Dirollo, – soggiunse il signor Gostanzo. – Il medico Calandrino, non forse più saggio del Calandrino del Boccaccio, ieri su l’ora che pioveva incontrò cavalier Soardo ne la strada presso a San Francesco, ed essendo tutti dui a piedi, il medico si ritirò al muro e disse al Soardo: – Cavaliero, date luogo a tanta scienza come è in me, – e con le mani volle spingerlo verso il fango. Il cavaliero alora senza pensarvi su, alzata la mano gli diede un gran mostaccione dicendo: – E tu, che ti venga il cancaro, da’ luogo a tanta pazzia come io ho. – E non contento d’averlo battuto, gli diede anco un gran punzone e gettollo in mezzo del fango. – Io dissi bene, – soggiunse madama, – che il fatto andava da pazzo a sciocco. Devrebbe pur oramai il medico guardarsi da queste sue sciocchezze che tutto il giorno gli tornano in danno, e conoscere come è fatto il Soardo. Ed in vero io non so come debbiamo nomar questi detti loro, i quali ancor che facciano ridere non mi paiono nè mordaci nè arguti, ma più tosto ridicoli, rappresentanti il terreno ove nascono. – Rideva tutta la brigata, e dopo che madama ebbe finito, si cominciò variamente a parlare di questo modo di parlamenti che talor si fanno, ora da uomini pazzi, che dicono tutto quello che lor viene a bocca, e ora da prudenti che hanno certi motti arguti, mordaci, salsi e che molto spesso contengano in loro duo significati che, in qualunque modo s’intendino, danno piacere a chi gli ascolta. Quivi varie cose si dissero, e si conchiuse per la più parte che quei motti deveno sommamente esser lodati per i quali colui che gli dice, o si libera da qualche pericolo, o muove i suoi padroni ad aver pietà di lui e fargli del bene. Nè minor lode dar si deve a quelli che con arguto dire modestamente dimostrano i diffetti dei lor superiori, o, quelli con grazia mordendo, gli inducono ad emendarsi od almeno a vergognarsi d’esser di cotal errore macchiati. Sono anco degni di lode alcuni che conoscendo la difficil e superba natura di quelli con chi hanno a negoziare, e che, o bene o male che ti facciano, non vogliono esser ripresi, ma desiderano continovamente aver gnatoni, parasiti e adulatori che l’orecchie loro con false lodi e manifestissime bugie addolciscono e in ogni azione gli applaudeno; sono, dico, alcuni degni di esser lodati i quali non vogliono opporsi a queste nature così ritrose, e tuttavia quando veggiono qualche errore d’un signore o di chi si sia, con qualche savio motto in compagnia fida e grata lo mordeno, di modo che il parlar loro dagli sciocchi non è compreso. Onde io alora dissi: – Madama e voi signori, a me sovviene d’un arguto detto che il signor Marco Antonio Colonna, essendo io seco e ragionando ne la chiesa de le Grazie in Milano, disse. E questo, signor mio, se vi ricorda, fu quando Odetto di Fois vicerè in Milano venne a messa a le Grazie suso una picciola muletta, che voi diceste: – Bandello, ancora che tu veggia quella picciola bestiola, io non conosco perciò in questa armata del nostro re cristianissimo cavallo nè mulo così forte e potente com’ella è. E di questo non ti meravigliare, perciò che ella porta monsignor di Lautrecco con tutti i suoi conseglieri. – Come io ebbi narrato a madama e a quei signori cotesta arguzia, tutti intesero benissimo che voi avevate punto la costuma d’esso monsignor di Lautrecco, che era, se ben congregava il conseglio e in una faccenda ricercava il parer degli altri, nondimeno di non far mai quello che dai conseglieri si conchiudeva, ma quello solo che al suo mal regolato giudicio sembrava esser buono. E così dandovi madama parte di quelle lodi che meritevolmente vi si deveno, messer Gian Stefano Rozzone, pratico de la corte di Francia, disse che un simil motto fu detto del re Luigi undecimo e d’una sua picciola chinea, soggiungendo che non essendo discaro a madama, direbbe una novelletta d’esso re Luigi pur a questo proposito dei belli ed arguti motti. Piacque a madama che così facesse; onde egli disse la sua novella: la quale avendo io ridotta al numero de l’altre mie, ho pensato non esser disconvenevole che quella vi doni, conoscendo quanto voi di questi bei detti e motti a l’improviso pronunziati vi dilettiate, e sapendo altresì che al vostro valore io non posso cose di gran valuta offerire. Questa adunque come fio de la mia servitù vi pago e dono, essendo certissimo che con quel vostro magnanimo core sarà da voi accettata come altri averebbero caro un dono d’oro e di gemme. State sano.
Luigi di questo nome undecimo re di Francia fu molto, mentre che visse, travagliato, per quello che gli annali e croniche di Francia narrano; perciò che non solamente ebbe guerra con i bertoni, con i fiammenghi e borgognoni ed ancora con gli inglesi che avevano posseduto Francia poco meno di trecento anni, ma anco guerreggiò con quasi tutti i baroni de la Francia e con il fratello proprio. E in vero si può ben dire che egli non avesse maggiori nemici di quelli del suo sangue, che quasi tutti a destruzion sua si misero e gli fecero tutto quel male che a loro fu possibile, di modo ch’egli provò gli stranieri più amici che i suoi parenti. Perciò che avendo egli donato Savona e le ragioni che sovra il dominio di Genova pretendeva al duca Francesco Sforza primo di questo nome duca di Milano, esso duca Francesco grato del beneficio del re ricevuto, intendendo come egli era in pericolo di perder la corona per la rebellione de la maggior parte dei baroni e reali di Francia, gli mandò il suo primogenito Galeazzo Sforza in soccorso con un buon essercito sotto il governo del conte Gasparo Vimercato suo capitan generale, di modo che disfece i nemici suoi e restò re pacifico di tutto il regno. Egli era sempre stato uomo di suo capo e che di rado col conseglio d’altri si concordava, e dal re Carlo settimo suo padre di maniera si scordò che da quello se ne fuggì e si ritirò nel paese del Delfinato, ove in disgrazia del padre dimorò con gravezze insopportabili di quei popoli. Poi si ritirò appresso Filippo duca di Borgogna suo parente, il quale umanamente lo raccolse e lo trattò da fratello, e s’affaticò pur assai volendolo pacificare con il padre, che altro dal figliuolo non voleva se non che Luigi s’umiliasse e gli chiedesse perdonanza. Ma Luigi fu sempre tanto ostinato che il core mai non gli sofferse di chieder perdono al vecchio padre e a quello umiliarsi. Onde la bisogna andò così, che stette assai più di dieci anni senza veder il padre, di modo che il re Carlo morì essendo ancor il figliuolo in Borgogna appresso