Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella XLVIII
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adunque come fio de la mia servitù vi pago e dono, essendo certissimo che con quel vostro magnanimo core sarà da voi accettata come altri averebbero caro un dono d’oro e di gemme. State sano.
Luigi di questo nome undecimo re di Francia fu molto, mentre che visse, travagliato, per quello che gli annali e croniche di Francia narrano; perciò che non solamente ebbe guerra con i bertoni, con i fiammenghi e borgognoni ed ancora con gli inglesi che avevano posseduto Francia poco meno di trecento anni, ma anco guerreggiò con quasi tutti i baroni de la Francia e con il fratello proprio. E in vero si può ben dire che egli non avesse maggiori nemici di quelli del suo sangue, che quasi tutti a destruzion sua si misero e gli fecero tutto quel male che a loro fu possibile, di modo ch’egli provò gli stranieri più amici che i suoi parenti. Perciò che avendo egli donato Savona e le ragioni che sovra il dominio di Genova pretendeva al duca Francesco Sforza primo di questo nome duca di Milano, esso duca Francesco grato del beneficio del re ricevuto, intendendo come egli era in pericolo di perder la corona per la rebellione de la maggior parte dei baroni e reali di Francia, gli mandò il suo primogenito Galeazzo Sforza in soccorso con un buon essercito sotto il governo del conte Gasparo Vimercato suo capitan generale, di modo che disfece i nemici suoi e restò re pacifico di tutto il regno. Egli era sempre stato uomo di suo capo e che di rado col conseglio d’altri si concordava, e dal re Carlo settimo suo padre di maniera si scordò che da quello se ne fuggì e si ritirò nel paese del Delfinato, ove in disgrazia del padre dimorò con gravezze insopportabili di quei popoli. Poi si ritirò appresso Filippo duca di Borgogna suo parente, il quale umanamente lo raccolse e lo trattò da fratello, e s’affaticò pur assai volendolo pacificare con il padre, che altro dal figliuolo non voleva se non che Luigi s’umiliasse e gli chiedesse perdonanza. Ma Luigi fu sempre tanto ostinato che il core mai non gli sofferse di chieder perdono al vecchio padre e a quello umiliarsi. Onde la bisogna andò così, che stette assai più di dieci anni senza veder il padre, di modo che il re Carlo morì essendo ancor il figliuolo in Borgogna appresso al duca Filippo. Morto che fu il padre, egli se ne venne in Francia e secondo l’ordine di quel regno fu fatto re, e come vi ho già detto, fu molto travagliato; e nel principio del suo regno si scoperse vie più feroce che non si conveniva, aspro, sospettoso, solitario, fuggendo la conversazione dei suoi principi e baroni. Essendo la caccia in Francia essercizio molto nobile e di grande stima e da tutti i grandi frequentato, come fu re vietò ogni caccia così di fiere come d’augelli, in qualunque modo si fosse, e v’era pena la testa a chi senza sua licenza fosse ito a cacciare o ad augellare. Si dilettò poi aver appresso di sè uomini di bassa condizione e di sangue vile, dando tanta libertà ad Olivero Banno suo barbiero quanta sarebbe stata condecente dare al primo prencipe del sangue reale. E col consiglio di costui e d’altri suoi pari incrudelì contra il sangue proprio e fece anco morire alcuni prencipi, i quali quando il re gli avesse tenuti da pari loro non sarebbero forse incorsi negli errori che fecero. Ora vivendo Luigi non come re ma privatissimamente, e vestendo per l’ordinario di vilissimi panni, portando un cappello tutto carco di cocchiglie e d’imagini di santi da duo o tre quattrini l’una, avvenne che un dì essendo egli rimaso con pochissima compagnia in casa, andò la sera ne la cucina ove il mangiar de la sua bocca si coceva, e vide un giovanetto d’assai buon aspetto e più che non si conveniva a sì vil mestiero come faceva, perciò che girava al fuoco un spedo d’arrosto di castrato. Piacque l’aspetto e l’aria del fanciullo al re, e gli disse: – Garzone, dimmi chi tu sei e donde vieni, chi è tuo padre e ciò che tu guadagni il giorno con questo tuo mestiero. – Il giovine che novellamente era venuto in casa e dal cuoco del re preso per guattero, non conosceva ancor nessuno de la corte: si pensò che colui che parlava seco in cucina fosse qualche peregrino che venisse da San Giacomo di Galizia, veggendolo vestito di bigio e con quel cappello in capo carco di cocchiglie, e gli rispose: – Io sono un povero figliuolo chiamato Stefano, – e disse la patria sua e il nome del padre, – che servo al re in questo basso ufficio che voi vedete, e nondimeno io guadagno tanto quanto egli si faccia. – Come, – rispose il re, – che tu guadagni altrettanto quanto il re? e che cosa guadagni tu? il re anco che cosa guadagna egli? – Il re, – disse il guattarello, – guadagna ciò che mangia, beve e veste, e per la mia fede io averò altrettanto da lui sì come egli ha da nostro signor Iddio; e quando verrà il giorno de la morte egli, ben che sia ricchissimo re ed io poverissimo compagno, non porterà perciò più seco di quello che porterò io. – Questo saggio motto piacque sommamente al re e fu la ventura di Stefano, perciò che il re lo fece suo varletto di camera e gli fece del bene assai; e crebbe in tanta grazia del re che se talvolta il re che era colerico e subito, gli dava qualche schiaffo e che egli si fosse messo a piangere, il re che non poteva sofferire di vederlo lagrimare, a ciò che s’acquetasse li faceva dare ora mille ed ora duo milia scudi, e sempre l’ebbe caro.
Nel suo ritorno che ha fatto il signor Lucio Scipione Attellano da Bari, Napoli e da Roma m’ha puntalmente narrato le grate ed amorevoli accoglienze che, prima quando passò e poi che a Roma ritornò, fatte gli avete con quelle vostre cortesissime offerte sempre affettuose e piene di liberalità. M’ha anco in nome vostro salutato e fattomi certa fede de la memoria che di me tenete. Io che vi conosco e che in Roma domesticamente, la vostra mercè, v’ho praticato, nè de l’uno nè de l’altro, punto mi meraviglio, perchè so quanto umanamente qualunque persona che venga per visitarvi sogliate ricevere ed accarezzare, e quanto in tener conto e ricordanza degli amici sète diligente ed ufficioso. Vi ringrazio bene e vi resto con obligo immortale, – se agli oblighi miei che v’ho, più si può accrescere, – de le cortesissime dimostrazioni da voi a l’Attellano mio e vostro anzi pur nostro fatte, impegnandovi la fede mia per quanto amor vi porto, – chè maggior pegno dar non vi saperei, – che v’avete acquistato una persona tanto qualificata vertuosa e tanto osservatrice de l’amicizia da lui cominciata, quanto altro nome che conosciate. Perciò prevaletevi di lui secondo l’occorrenze, perchè maggior piacere non potete fargli, e troverete gli effetti a le mie parole conformi. Di me taccio, conoscendomi voi prima che ora e sapendo di certo quanto son vostro. Esso Attellano m’ha anco detto che parlandovi de le mie novelle, diceste che volentieri alcuna ne vedereste. Onde dicendosi in un’onorata compagnia de le molte vostre cortesissime liberalità che così sovente usate, avendo l’Attellano dettone cose assai, madama Antonia Bauzia marchesa di Gonzaga, nel cui cospetto a Sabioneda eravamo, interrompendo con gravità il ragionar che si faceva, impose al gentilissimo dottore messer Antonio di Cappo gentiluomo mantovano che di queste cortesie e liberalità alcuna cosa dicesse. Egli alora narrò un’istoria avvenuta a Siena. Quella, avendola scritta, ho voluto che sotto il valoroso vostro nome sia veduta, in testimonio de l’osservanza mia verso voi; chè essendo tra senesi occorsa, mi pare che a voi meritamente si convenga, che senese sète e liberale e cortese, anzi la gloria d’ogni cortesia e liberalità, e non solo sète l’onore de la patria vostra Siena, ma sète l’onor e la gloria di tutta Italia. State sano.
Se io, madama eccellentissima e voi onestissime donne e cortesi cavalieri, fossi tale quale forse da voi stimato sono, e coll’effetto corrispondessi a l’openione che di me appo voi è, veramente io mi riputarei molto aventuroso, che tra cotanti onorati, vertuosi ed eloquenti uomini quanti in questa nobilissima compagnia seder si veggiono, io fussi stato eletto a dover di così nobil materia come è la cortesia e la magnificenza dinanzi a voi ragionare. Ma conoscendo quali le forze mie siano, dubito assai che se io sottopongo gli umeri a così grave peso come m’imponete, io non resti a mezzo il camino e con mia vergogna e vostro poco diletto io sia sforzato a gettar a terra tanto grave salma. Ma poi che così v’aggrada e appo di voi le mie scuse non hanno luogo, che debbo io altro fare se non ubidire? Cominciando adunque a dar principio a ciò che imposto m’avete, vi dico che per ora non voglio che entriamo ne le scole dei filosofanti, i quali volendo parlar di cose magnifiche parlarebbero di quei palagi sontuosamente edificati, degli ampii e venerabili tempii, degli anfiteatri, de l’altissime moli fondate in mare, dei monti perforati per agevolar i camini, de le vie del selce e de l’altre pietre pavimentate e di simil altre opere che in vero sono degne del nome de la magnificenza. Ma io voglio che prendiamo in questi nostri domestici e piacevoli ragionamenti alquanto di libertà e che per ora non separiamo il nome del liberale dal magnifico, e che seguitando le pedate del nostro gentilissimo Boccaccio, parliamo d’amore; veggiamo quanto magnificamente con liberalità lodevole un gentiluomo operasse, e l’atto degno di lode che fece lasceremo poi giudicare ai filosofi se magnifico,